E se fossimo stati troppo ingiusti con “l’attimo fuggente”? E se invece esso fosse in realtà “l’attimo paziente”, che sta aspettando solo noi per catturarci e farci fuggire con lui? Che cosa mai potremmo temere? Un “clic”, un’immagine, una fotografia. La bellezza è negli occhi di chi guarda.
Per approfondire il tema dell’osservare, ecco un testo originale, che non si lascia imbrigliare in una definizione. Meditazione e fotografia. Vedendo e ascoltando passare l’attimo (Contrasto edizioni, pp. 172, € 19,00) di Diego Mormorio, saggista, narratore e storico della fotografia, è al tempo stesso un libro sulla luce, un manuale per fotografi, un saggio filosofico, un trattato sulla meditazione, un’antologia di citazioni, una rassegna di immagini. Oppure, si potrebbe dire, è semplicemente il racconto di un viaggio nella percezione e nella rappresentazione. Questo itinerario, come promette l’approccio multisensoriale del sottotitolo, Vedendo e ascoltando, si serve di immagini e di parole, costruendo un elegante e intrigante tessuto di citazioni che, attraverso i secoli, sfiora poeti, scrittori, filosofi, fisici, intellettuali, maestri spirituali, compositori. Senza trascurare le interviste e testimonianze di chi della creazione di immagini ha fatto il centro della propria vita: pittori, scultori, artisti, fotografi.
Le numerose illustrazioni – ben quaranta fotografie inserite nel testo – sono anch’esse vere e proprie “citazioni visive”, che spaziano da dipinti e sculture a scatti selezionati di fotografi professionisti, più famosi o meno conosciuti. Per citarne solo alcune: dal Discobolo di Mirone (455 a.C.) alle icone russe del 1400, dalle vedute paesaggistiche dipinte da Bernardo Bellotto, noto come Canaletto (1721-1780), agli studi fotografici sul movimento condotti a fine Ottocento da Eadweard Muybridge (1830-1904), fino agli esperimenti fotografici delle «vortografie» di Alvin Langdon Coburn (1882-1966), dei «fotogrammi» di László Moholy-Nagy (1895-1946) e dei «rayogrammi» di Man Ray (1890-1976), passando per le insuperabili istantanee di Henri Cartier-Bresson (1908-2004) e per i penetranti ritratti di August Sander (1876-1964). Una testimonianza inconfutabile di come la rappresentazione visiva abbia esercitato un fascino costante nella storia culturale dell’uomo.
Gli apparati paratestuali – Note, Testi citati e Indice dei nomi –, particolarmente accurati, fanno da mappa sicura per non smarrirsi in questo viaggio.
Essere, vedere, fotografare: una singolare avventura
Come un giocoliere fa apparire e roteare nell’aria forme sempre diverse in una fantasia inutile, ma affascinante e dotata di un suo filo conduttore e di una sua continuità, come un trapezista si appoggia per brevi attimi a dei sostegni effimeri e procede volteggiando nell’aria, così Mormorio, con la sua voce e la sua presenza, conduce il lettore attraverso passaggi logici e temporali profondamente pertinenti ma mai scontati, in un’avventura mentale che, alla stregua di una danza, ha la sua ragione di essere proprio nel superare se stessa attraverso il movimento.
Filo conduttore è la scoperta, l’osservazione, il dinamismo dei fenomeni. Filo conduttore è la meditazione, nel senso di una domanda esistenziale che risiede nell’atto della percezione e della creazione.
La meditazione intrattiene con l’arte fotografica un rapporto duplice, ma non ambiguo: da un lato, infatti, coltivare il silenzio meditando amplia la capacità di percepire e di leggere più profondamente la realtà; dall’altro, prestarsi all’esercizio della fotografia è di per sé meditare, confrontarsi con l’esistenza materiale in un processo di rispecchiamento che rivela al contempo il Sé e “l’altro da sé” e si immerge definitivamente in quella totalità in cui “io” sono spettatore e attore allo stesso tempo, in ogni momento, inseparabilmente, “creatura” e “creatore”.
Tra simbolismo e naturalismo
Un’iniziale riflessione panoramica sulla storia dell’arte mostra come la creazione artistica abbia sempre oscillato, nel tempo, tra due opposte “tentazioni” rappresentative: quella simbolica e quella naturalistica, sempre in bilico tra una visione ideale, metafisica, concettuale e una raffigurazione materialistica, descrittiva, che potremmo chiamare “illusionistica”, in quanto intende riprodurre appunto l’illusione del reale.
Come un pendolo che batte il tempo nell’animo umano, queste due tendenze hanno orientato, alternandosi, la produzione artistica nei secoli, quasi come se, davanti alla bellezza del mondo, l’uomo non possa fare a meno di domandarsi se essa sia appannaggio della materia o dello spirito. Sottesa a tutto l’universo delle rappresentazioni resta, inespressa, una domanda fondamentale sulla natura della realtà.
Come “vediamo”?
L’illusionismo trova per certi versi il suo culmine con l’invenzione della prospettiva centrale da parte di Filippo Brunelleschi (1377-1446), metodo poi teorizzato da Leon Battista Alberti (1404-1472) nel suo trattato De Pictura (1436). Per dipingere paesaggi e vedute applicando con precisione e velocità le leggi della prospettiva, alcuni artisti iniziarono a quel tempo a servirsi della “camera ottica”, uno strumento che sfrutta un principio noto fin dall’antichità − su cui si basa anche la fotografia − secondo il quale «se si pratica un piccolo foro in una stanza perfettamente buia, nella parete di fronte compare capovolta l’immagine di quello che si trova all’esterno davanti al foro. Più questo foro è piccolo, più risulta chiara l’immagine». Lo sviluppo dello spirito tecnico e meccanicistico, iniziato nel Medioevo, che andava avvicinando tra loro artigianato, invenzione e scienza porterà alla costruzione di “macchine” sempre più ingegnose e sofisticate destinate a riprodurre fedelmente la realtà per conservarne una traccia e, in qualche modo, arginarne la trasformazione e la dissoluzione, fino allo sviluppo della tecnica fotografica come la conosciamo oggi.
Ma torniamo alla domanda sottintesa: qual è la natura della realtà? L’immagine creata attraverso l’applicazione delle leggi prospettiche riesce a restituire il reale? Vi riesce la fotografia, che dal reale si lascia, semplicemente, “impressionare”?
Andiamo con ordine. La prospettiva – come osserva lo storico dell’arte tedesco Erwin Panofsky (1892-1968) nel suo saggio La prospettiva come forma simbolica (edizioni Abscondita), citato in questo testo – tenta di riprodurre la realtà, ma nel momento stesso in cui la astrae nello spazio fissato dalle regole geometriche, se ne allontana: mentre stabilisce i suoi punti di fuga, mentre sgrana il suo occhio fisso e immobile a coglierla, finisce per presentarne una raffigurazione inverosimile, non corrispondente alla visione fisica umana. L’uomo, infatti, percepisce attraverso due occhi distinti, per di più in costante movimento, e perfino l’immagine elementare che si forma sulla retina, prima dell’interpretazione psicologica del cervello, è proiettata in realtà su uno spazio curvo. Il campo visivo dunque non sarebbe una superficie piatta, ma “sferoide”. Un tema interessante. Il funzionamento della vista è abbastanza diverso da come siamo soliti pensarlo: i nostri occhi, infatti, non si fermano mai, ma scandagliano il campo visivo compiendo molti rapidi spostamenti (detti “saccadi”), percorrendo archi di diversi gradi a una velocità anche di 700-800 gradi al secondo per una durata di 20-50 millisecondi, per poi fermarsi in brevi momenti (detti “stasi”) di 200-250 millisecondi, l’unico tempo in cui effettivamente mettiamo a fuoco e, appunto, vediamo. La nostra visione assomiglia assai più a quelle riprese cinematografiche – volutamente mosse – di alcuni film contemporanei, in cui ampi intervalli di scie di colori sfocati si alternano a figure nitide, piuttosto che a un quadro o a una fotografia.
La fotografia e il “mistero” del movimento
Allora, restituire attraverso un’opera le sensazioni suscitate dalla complessità del reale non sarebbe possibile, se non “mistificandole” attraverso l’immaginazione? Questa sembra essere la posizione dello scultore Auguste Rodin (1840-1917) citata nel libro in un brano tratto da L’arte. Conversazioni raccolte da Paul Gsell (edizioni Abscondita), quando osserva come solo l’arte sia in grado di rendere nella simultaneità la metamorfosi insita nel processo del movimento, perché «Riproduce il passaggio da una posizione all’altra: mostra come la prima trapassa inesorabilmente nella seconda», coglie il «progressivo svolgimento del gesto». In un’istantanea, invece, un soggetto ripreso in movimento «avrebbe il bizzarro aspetto di un uomo improvvisamente colpito da paralisi e pietrificato nella sua posa»; una persona che cammina, per esempio, non avrebbe l’aria di stare avanzando, ma piuttosto di stare immobile su una gamba sola. “Eppur cammina”, si potrebbe dire, è lì davanti a noi, ripresa da uno strumento che non può che essere oggettivo. Ribadisce l’interlocutore di Rodin nelle Conversazioni succitate: «“Ebbene! Quando nell’interpretazione del movimento l’artista si trova in completo disaccordo con la fotografia, che è una testimonianza meccanica indiscutibile, vuol dire che chiaramente altera la verità”. “No”, rispose Rodin, “è l’artista che è veritiero ed è la fotografia che mente. Perché nella realtà il tempo non si ferma”», e ancora, più avanti, commentando il celebre dipinto di Jean-Louis Théodore Géricault (Il derby di Epsom, 1821, olio su tela, cm 92 x 122,5, Museo del Louvre, Parigi), in cui alcuni cavalli al galoppo sono ritratti in una posizione che una lastra fotografica che li riprendesse dal vero non potrebbe mai restituire, afferma: «E io sono convinto che sia Géricault ad aver ragione e non la fotografia, perché i suoi cavalli sembrano correre [...] L’insieme è falso nella sua simultaneità, ma è vero se le parti vengono osservate in successione; è questa la verità che unicamente ci interessa, essendo quella che vediamo e ci colpisce». L’aspetto del movimento aggiunge una quarta dimensione alle cose.
Fiumi di divenire
Eppure, forse proprio questa “chiave di lettura” istantanea, distaccata, raggelata nell’attimo può guidarci nel comprendere il mistero ambiguo e un po’ paradossale dell’essere e del divenire. Stando alla meccanica quantistica, come enunciato in uno dei suoi più famosi princìpi[1], di una particella elementare sarebbe possibile conoscere, in un dato momento, soltanto la sua posizione o la sua velocità di spostamento, ma non entrambe: una misura esclude l’altra, tuttavia nessuna delle due, da sola, potrebbe esaurire la realtà. Come dire, semplificando al massimo, si può sapere o “cos’è” o “dove va”. Particella oppure onda? Essere o divenire? Fotogramma o sequenza? L’atto del fotografare causa il “collasso” del flusso del divenire in un fotogramma fisso e definitivo.
Per conoscere, sperimentare, basta anche una sfida molto semplice, perché – e lo dice Henri Cartier-Bresson, uno dei più grandi maestri della fotografia – «Quel che conta non è la fotografia, è il fotografare». La sfida può essere, ad esempio, fotografare il cielo per un anno. Sempre alla stessa ora, tutti i giorni, una e una sola fotografia, cogliendo l’attimo dello scatto con tutto il proprio essere.
Ridurre l’essenza di una giornata a un momento, ridurre l’essenza della realtà a un haiku[2]: questo è meditare.
Un anno, 365 foto del cielo: dilatare il tempo e la percezione e osservare il mutamento, come ogni forma migra in un’altra, come tutto risieda in una transitorietà che è “vacuità”, anche questo è meditare.
Concentrare ed espandere, creare e dissolvere. Nascere e morire: il respiro dell’esistenza. Ogni cosa abbracciata alle altre in un intreccio di complementarità e di relazioni.
«Guardando la realtà vera del mondo, il meditante prende sempre più distacco da esso e al tempo stesso amorevolmente gli si lega».
Sulle tracce della bellezza
La saggezza popolare tramanda che la qualità della fattura di un ricamo si giudichi dal rovescio della stoffa, normalmente nascosto alla vista: se il lavoro è pregiato, sembrerà un ricamo anch’esso. Ecco un altro modo di guardare alle cose. La prossima volta che il sole tramonta, voltategli le spalle e guardate a est: lo splendore delicato e unico del “contro-tramonto”, che arriva con un attimo di ritardo a lambire il cielo, vi stupirà. La bellezza vera non è mai nell’ovvio. Imparare a vedere oltre l’ovvio è meditare.
Riporta il filosofo indiano e maestro spirituale Jiddu Krishnamurti (1895-1986) nel suo ultimo diario (A se stesso. L’ultimo diario, Astrolabio Ubaldini editore): «Era veramente una mattina incantevole, bellissima e luminosa. Su ogni foglia c’era la rugiada. [...] A poco a poco il sole illuminò ogni albero e ogni arancia. Quando sedevi nella veranda a guardare dall’alto la vallata, c’erano le lunghe ombre del mattino. L’ombra è bella quanto l’albero.» Ombra e luce.
Il fotografo si serve della luce, ma ritrae l’ombra.
Che si tratti di fotografie dedicate interamente alle ombre – alcune, molto particolari, sono inserite nel testo – o di fotografie qualunque, sono sempre le ombre a dare spessore alle cose, le ombre storicamente considerate nella cultura popolare magiche personificazioni dell’anima, le ombre “portate”, cioè proiettate su un piano, che con le loro forme distorte trasfigurano gli oggetti, le ombre che sottilmente intagliano un paesaggio, scolpiscono la materia, le ombre che intessono “il ricamo” del vissuto o, forse, la perfezione del suo rovescio. Questione di prospettiva.
Volti, sguardi, ologrammi, sculture di luce
Per chi voglia cambiare prospettiva, le vie sono infinite. In questo viaggio, l’autore ci conduce con leggerezza incontro ad altri scenari, in cui le immagini sono pretesto e spunto di riflessione per una diversa lettura della realtà e allo stesso tempo rappresentano un traguardo di realizzazione.
Si scandagliano, attraverso i ritratti di volti, di figure e di sguardi, i temi dell’identità, del comune sentimento di “umanità”, del destino individuale e imprevedibile, toccato a volte anche con tratti curiosi: «“E chi è questo pupo in vestina?/ – cita il testo dalla poetessa polacca Wislawa Szymborska (1923) – Ma è Adolfino, il figlio dei signori Hitler!/Diventerà forse un dottore in legge/o un tenore dell’Opera di Vienna?”».
Altro scenario, altra prospettiva: le cronache di guerra. I campi di battaglia disseminati di cadaveri, la tragedia della morte, lo strazio dei feriti e delle macerie ritratti nelle fotografie finiscono per ridurre a un mero sfondo l’assurdità e la crudezza della guerra: sono immagini “inutili”, come quelle recenti dei bombardamenti notturni americani in Iraq. Allora − quando lo spettacolo non è più “spettacolare” − occorrerebbe spostare lo zoom dalla posizione “da lontano”, a “vicino”, a “più vicino”... fino a “dentro i fatti”; occorrerebbe domandarsi, dice l’autore, «chi sono questi nemici? [...] Sono diversi da noi?», bisognerebbe «guardarlo in faccia questo nemico». E ritrarlo, perché no? Un’immagine può dire più di molte parole.
L’itinerario attraverso le rappresentazioni si evolve in una progressiva dissoluzione degli schemi abituali di percezione, verso un mondo-ologramma in cui ogni frammento contiene il tutto e diventa possibile cogliere un paesaggio ritraendo, ad esempio, una sola foglia, o cogliere la vita di una città fotografando un solo angolo di strada. Per arrivare a rarefatti esperimenti fotografici di avanguardia, sorti quasi per caso: vere e proprie “sculture di luce”, in cui sono gli stessi raggi luminosi a materializzare sulla pellicola, con un’azione invisibile, forme ed effetti. Una pura potenzialità che scaturisce nel piano della manifestazione, una realtà che si rivela solo quando ci si espone a lasciarsene “segnare”, una verità che si scopre solo scoperchiando, come un vaso di Pandora, il segreto dell’attimo fuggente e che non è dato sapere se si materializzi solo in presenza del fotografo/sperimentatore (e “in funzione” di lui) nel momento in cui la guarda. Siamo creature e creatori. Forse, per cogliere la bellezza basta aprirsi e rendersi disponibili a che ciò accada.
Luciana Rossi
[1] - Principio di indeterminazione, formulato nel 1927 dal fisico tedesco Werner Heisenberg (1901-1976): «principio fondamentale della meccanica quantistica secondo cui è impossibile misurare contemporaneamente con esattezza assoluta la posizione x e la quantità di moto p (cioè il prodotto della massa per la velocità) di una particella elementare». (Grande enciclopedia della Scienza e della Tecnologia, De Agostini, Novara, 1997, p. 596);
[2] - L’haiku è una «breve poesia giapponese, composta di 17 sillabe ripartite in tre gruppi di 5, 7 e 5, che ha per argomento spec. la contemplazione individuale della natura.» (lo Zingarelli 2008, Zanichelli, Bologna).
(direfarescrivere, anno V, n. 46, ottobre 2009)
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