Nei primi giorni del marzo 1945, a Caulonia, cittadina della costa ionica calabrese in provincia di Reggio Calabria, ci fu una rivolta, o meglio si instaurò per pochi giorni un governo del popolo, “la Repubblica rossa di Caulonia”.
Fu Pasquale Cavallaro, il sindaco comunista, a guidarla,. Questi ebbe il difficile compito di contenere ma anche di rilanciare il desiderio di giustizia sommaria che i contadini sentivano forte contro i baroni e i potenti che da secoli li soggiogavano. Dovette anche mediare con le istituzioni che “accerchiarono” e isolarono questo tentativo spontaneo e per certi versi ingenuo di democrazia diretta.
Santino Oliverio, medico toscano di origine crotonese, scrittore per passione, racconta la storia di Pasquale Cavallaro, eroe appunto della rivolta di Caulonia. Una rivolta dimenticata, come tante altre nella Storia, che Oliverio ripercorre romanzandola e trasformandola nella rivolta di Castelvecchio.
Il Console e il Professore (Città del sole edizioni, pp. 296, € 15,00) narra la vita di due personaggi agli antipodi: il primo, Aristodemo Armenes, rampollo della più potente famiglia del paese, padrone di tutte le terre che il popolo coltiva, e il secondo, Martino Macrì, alter ego letterario di Pasquale Cavallaro, maestro elementare di umili origini che cerca in tutti i modi di risollevare le sorti dei suoi concittadini vessati da secoli di asservimento feudale. Due personaggi molto diversi, anche per fede politica, fascista il primo, comunista il secondo. È lo stesso Macrì, ormai vecchio e trasferitosi in Toscana, a raccontarci la sua storia, ricorrendo a continui flashback, mentre la incide sul nastro del registratore di un giovane giornalista de La Gazzetta di Calabria desideroso di conoscere la verità sui giorni convulsi della rivolta.
La Prefazione al volume è curata da Ciccio Caruso, crotonese d’adozione e fervido esponente del Pci prima, e della Cgil poi, sempre in prima fila nella lotta politica per i diritti dei più deboli, che ha avuto l’opportunità di incontrare Pasquale Cavallaro nel carcere di Catanzaro, dove entrambi si trovavano detenuti per ragioni politiche. Caruso parla di lui come di «un uomo garbato, simpatico, disponibile, di grandi risorse umane e culturali; aveva poco più di 50 anni e un volto grande e giovanile, segnato da un filo impercettibile di malinconia; capelli appena brizzolati e occhi molto espressivi. […] L’intellettuale coraggioso che si era schierato con i più deboli sfidando la collera dei potenti, era certamente una persona di riguardo».
L’inizio della leggenda
Siamo alla fine della Prima guerra mondiale, Macrì opera nelle file del servizio sanitario militare e, tra le migliaia di feriti, arriva dal fronte Aristodemo, con una lesione autoinferta. Egli prega Martino di rimandarlo a casa dalla sua famiglia, e l’infermiere, impietosito, gli fa una diagnosi più grave rispetto alla realtà, consentendogli così il ritorno a casa. Poco tempo dopo, Martino, in licenza, prende un treno per Castelvecchio. Arrivando in paese il suo primo pensiero è rivolto ad Aristodemo, ma scoprendo che questi non gli era per nulla grato, in un momento di ira e in preda alla febbre, decide di darsi alla macchia e non ritornare in servizio dopo la scadenza della sua licenza. Da quel momento ha inizio la leggenda di Martino Macrì, l’eroe dei servi della gleba. Nascosto sulla montagna rocciosa alle spalle del paese, la sua fama iniziò a crescere e i primi seguaci a stringerglisi attorno: Capinera e Tommaso. Si aggiunse a loro, la piccola vivandiera Marianna, e poco dopo il Bersagliere, un disertore.
Una tranquilla mattina Marianna si incamminava verso la montagna per portare i viveri a Martino, cambiando continuamente strada per confondere una eventuale spia dei carabinieri. Quella mattina, però, non fu attenta, persa nei suoi pensieri di futura sposa (stava infatti per convolare a nozze con Capinera): era talmente elettrizzata al pensiero di dare la bella notizia al Professore − come comunemente veniva chiamato Martino Macrì dai suoi compaesani per il suo mestiere di maestro − che non si accorse di essere seguita. Una volta arrivata al nascondiglio, i carabinieri si palesarono, spararono e intimarono a Martino di arrendersi; venne ferito ma riuscì a fuggire. Fu portato nottetempo in paese, dove il medico lo visitò e gli consigliò di arrendersi alle forze dell’ordine. Il Professore venne mandato al confino.
Scontati gli anni lontano dal paese, Martino tornò a Castelvecchio. Trovò Aristodemo Armenes diventato Console della milizia fascista mentre i “suoi” disorientati e delusi per aver scoperto che il loro eroe, «paladino di una moltitudine di servi della gleba» faceva parte, o almeno così si diceva, degli “amici degli amici”, cioè era un mafioso. Il Professore ascoltava incredulo e offeso le voci che lo volevano immischiato nella malavita, e che gli avevano fatto perdere la fiducia dei suoi più cari amici.
Lo scontro tra Martino e il Console avvenne quando Aristodemo, durante l’adunata fascista del sabato riservò al Professore aspre parole di scherno. Il Professore, non potendo sopportare oltre, si presentò alla processione di Santa Filomena e, tra gli sguardi increduli di don Nicola, il parroco, e dei suoi concittadini lanciò il guanto di sfida ad Aristodemo: «Dimentica che fummo compagni di studi e che sul Carso ti salvai la vita. Ma non dimenticare quanto ti aggiungo: non tollererò più nessuna violenza nei confronti della mia persona né da parte tua né da parte dei tuoi giannizzeri. Cerca di non trovarti sulla mia via. Non avrei pietà neppure della tua cavalcatura. Dovresti soltanto levarmi la vita per fermarmi. Ricordalo!»
La vendetta fascista
Il Console, il Maresciallo, l’Americano − l’usuraio del paese, tornato ricco dagli Stati Uniti per intraprendere questa ancor più redditizia attività nel suo paese d’origine − e tutti i loro scagnozzi si ritrovarono a villa Armenes per cercare il modo di limitare il prestigio del Professore. Il compito fu affidato all’Americano, che era, peraltro, il capo della milizia fascista. Una sera, all’osteria, egli avvicinò Tommaso e Capinera per proporre loro un affare: avrebbero ucciso Martino e in cambio i fascisti avrebbero dato loro un lavoro stabile. L’offerta era allettante: Capinera, che aveva sposato Marianna e aspettava un figlio da lei, aveva bisogno di quel lavoro per mandare avanti la sua famiglia; Tommaso era adirato con il Professore perché si era rifiutato di risolvere per lui una piccola controversia. Dopo aver vagliato le proprie possibilità di successo nell’attentato, i due accettarono l’offerta e si accordarono sui modi dell’agguato: avrebbero aspettato che Martino uscisse da scuola, e, appostati dietro a un muretto, avrebbero atteso che egli si allontanasse dal centro abitato, dopodiché gli avrebbero sparato. Tommaso e Capinera, quindi, stavano per diventare i boia del loro mentore. La sera dell’agguato i due si ritrovarono davanti all’osteria con l’Americano; la coscienza di Tommaso, però, iniziò a vacillare ed egli con una scusa riuscì a entrare nel locale e ad avvisare il Professore di cambiare strada quella sera. Quest’ultimo così fece e l’imboscata fallì. Il giorno dopo i due raccontarono a Martino ciò di cui si erano macchiati ed egli consigliò loro di lasciare il paese. Capinera aveva ricevuto la “chiamata” per l’America da parte di un parente, così lasciò Marianna, incinta, e il suo paese alla volta del Nuovo mondo, in cerca di fortuna. Tommaso restò a Castelvecchio in attesa anch’egli della “chiamata” che l’avrebbe condotto al di là dell’Oceano, anche per portare Marianna tra le braccia del marito. Ogni giorno la moglie di Capinera aspettava con ansia e paura l’arrivo del postino, ma la prima lettera arrivò dopo ben quattro mesi dalla partenza del marito, senza che contenesse al suo interno il denaro da lei tanto atteso. La corrispondenza americana si fece regolare e all’arrivo di ogni lettera il Professore si ritrovava da Marianna per leggerla, essendo lei analfabeta. L’esplicito contenuto di una lettera fece esplodere la passione tra la ragazza e Martino. I sensi di colpa nei confronti dell’amico lontano, la sensazione di aver tradito la sua fiducia fecero però prendere al Professore la decisione di lasciare Castelvecchio e di andare a insegnare in un paesino toscano.
Marianna, rimase sola al paese con sua figlia Martina aspettando una “chiamata” che non sarebbe mai arrivata.
8 settembre 1945: la rivolta
La fine della Seconda guerra mondiale entusiasmò Macrì al punto da indurlo a rientrare in Calabria. Camminando per le note, amate strade di Castelvecchio si ritrovò, senza accorgersene, davanti alla casa di Marianna. Era invecchiata aspettando suo marito, difendendosi dalle malelingue del paese e sua figlia, ormai adolescente, era cresciuta senza padre. Martino e Marianna si ritrovarono uniti dall’antica passione. Nel frattempo la vita pubblica del Professore lo portò a essere eletto sindaco di Castelvecchio, nelle prime elezioni democratiche, ed egli dal suo posto privilegiato continuò la lotta ai padroni, mentre questi cercavano di far risorgere il partito fascista. Le terre, il grano e quindi il pane erano ancora appannaggio “feudale” del Console, mentre il popolo vessato dalla fame e dalla povertà della fine del conflitto, chiedeva cibo con cui sfamarsi. Fu proprio a causa di una partita di grano rubato dall’Americano, che poi l’avrebbe rivenduto al mercato nero, che Martino venne accusato ingiustamente e il Maresciallo lo arrestò.
L’arresto fece capire ai poveri, ai vessati che era arrivato il momento di insorgere e non accettare più i soprusi che da sempre si trovavano a subire. Il popolo in rivolta sequestrò l’Americano che contrabbandava olio rubato, mentre l’autorità giudiziaria del capoluogo provinciale emanava un ordine di cattura per Martino e altri militanti. La cittadinanza insorse e si instaurò, la Repubblica di Castelvecchio, con a capo il Professore. A questo punto la rabbia repressa da anni di soprusi e dispotismo prese il sopravvento, gli ex gerarchi fascisti, Cosimo e Aristodemo Armenes, il Maresciallo e il Farmacista vennero trascinati in arresto e rinchiusi nelle segrete del castello. La situazione degenerò quando don Nicola, rifugiatosi nella sede dell’Azione cattolica dopo aver annullato la festa di Santa Filomena, fu ritrovato morto, ucciso da un colpo di pistola. A ucciderlo fu Michele Alia, un reduce dalla prigionia in Africa, offuscato dal desiderio di giustizia. Il Professore ordinò il suo arresto e all’incredulo assassino disse: «Giustizia del popolo non vuole dire arbitrio o vendetta; non vuole dire levare la vita ad alcuno.»
L’autoproclamata repubblica del paese calabrese interessò l’opinione pubblica nazionale che determinò l’invio di diversi giornalisti, ma la vita della Repubblica di Castelvecchio fu breve, appena cinque giorni. L’esercito era già in marcia e arrivato al paese intimò ai contadini di arrendersi, pena la distruzione dello stesso, «casa per casa». Per evitare spargimenti di sangue Martino Macrì si consegnò e si dichiarò unico responsabile degli avvenimenti, fu imprigionato e successivamente condannato. Dopo essere uscito dal carcere, il Professore si stabilì nuovamente in Toscana insieme a Marianna e Martina. Gli anni da rivoluzionario si allontanavano nella sua memoria, lasciando spazio, ora, al suo nuovo “mestiere” di nonno.
La rivolta di Castelvecchio non fu vana: i vecchi padroni furono, sì, rimessi al loro posto, ma il loro potere fu fortemente ridimensionato.
La lotta del Professore e dei suoi animò il riscatto dei braccianti del latifondo «fatto di sperdute terre tutte di un padrone» con «il canto dei contadini che hanno finalmente imparato, combattendo, a liberarlo dai suoi legacci secolari. Per sempre».
Antonietta Zaccaro
(direfarescrivere, anno V, n. 44, agosto 2009)
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