Come il mare, visto dalla terra, offre allo sguardo tutta la sua vastità e la sua profondità e allo stesso tempo rimane incomprensibile, così alcune esperienze di vita, che pure mostrano i segni evidenti della grandezza e dell’intensità, sono destinate a restare in qualche modo indefinibili per chi le osservi dall’esterno, senza averle vissute. Il limite fisico dell’orizzonte, oltre il quale lo sguardo non arriva a spingersi, si applica anche alla vita. Cosa c’è oltre? Quale dimensione vive al di là, nell’alto mare, quando siamo disancorati da qualunque punto di riferimento visibile? E nell’anima di un uomo, nella sua profondità, dove risuonano gli echi dei ricordi, dei desideri, dove sorgono le immagini impossibili da raccontare e le intuizioni diventano scelte a volte irrazionali, ma ineludibili, cosa accade veramente?
La vita di ciascuno porta dentro di sé un segreto, che ne costituisce la chiave di lettura, la “cifra” unica, l’intangibile dna.
È il caso di quella di Bernard Moitessier (1925-1994), navigatore a vela tra i più grandi di tutti i tempi, protagonista di un’impresa ai limiti del credibile − un giro e mezzo del mondo in solitario senza scalo, compiuto in dieci mesi di mare e rinunciando ad un’ambita e praticamente acquisita vittoria in regata − ma anche uomo inquieto, sempre in bilico tra l’Indocina, l’Europa, l’America e le isole del Pacifico, alla ricerca di una verità più semplice e più profonda di quella comunemente condivisa.
Il navigatore, lo scrittore, l’uomo
È sempre difficile raccontare una storia vera in terza persona, si rischia di cadere nell’apologia o nel romanzo. Ci riesce invece, con notevole equilibrio, Jean-Michel Barrault, autore di Moitessier. La lunga scia di un uomo libero (pp. 200, € 15,00), l’interessante biografia proposta da Nutrimenti edizioni nella sua collana dedicata al mare e alla vela, Transiti blu: ventidue capitoli arricchiti da lettere inedite, da estratti di articoli giornalistici, da testimonianze e da brani tratti dai racconti autobiografici dello stesso Moitessier, per restituirci un ritratto “a tutto tondo” del navigatore, dello scrittore, dell’uomo. Un libro equilibrato anche nello stile: asciutto, con un lessico preciso ma privo di inutili tecnicismi, pensato per i lettori appassionati di navigazione d’altura, ma anche per chi esperto di vela e di imbarcazioni non è. Il testo è corredato inoltre da un’utile cronologia.
Barrault conosce bene Bernard Moitessier, è stato suo amico e confidente per oltre trentacinque anni e lo ha affiancato come consulente editoriale nella stesura dei suoi scritti; tra loro fluisce ininterrottamente una fitta corrispondenza che sfida le distanze e il trascorrere del tempo. Esperto di vela e circumnavigatore, egli conosce bene anche gli spazi di cui Bernard parla, tuttavia alcuni aspetti della personalità di quest’ultimo restano indecifrabili perfino per lui. Quella “diversità” dai toni a volte estremi che egli percepisce nell’amico è allo stesso tempo elemento di separazione e di attrazione, divide e congiunge, come fa il mare con le terre emerse.
Attraverso il racconto prende forma la figura di questo navigatore capace di governare la rotta con grande armonia adoperando tutti i propri sensi, di ascoltare la natura e i suoi ritmi; un uomo di mare esperto delle manovre, della navigazione astronomica, delle tecniche e delle strategie da adottare, ma che non rinuncia a sperimentarne sempre di nuove, ascoltando le reazioni della propria barca come se essa non fosse altro che un prolungamento di sé; un marinaio che sa trattare i materiali con la pazienza e l’abilità rubata alla magia dei gesti dei vecchi pescatori e, soprattutto, che sa stare in mare con quel mix ideale di resistenza, di controllo e di abbandono e meraviglia che – soltanto – può rendere possibile una lunga navigazione.
Ma vivere è una cosa e raccontare un’altra. L’altra “avventura”, quella di scrittore, che Moitessier intraprende − a trentaquattro anni, in Francia, incoraggiato dallo stesso Barrault, allora giornalista − e che lo porterà alla stesura di quattro libri autobiografici[1], sarà quasi più sofferta di quella esperita tra i flutti degli oceani: bisogna trovare la giusta concentrazione, mettere ordine nelle esperienze, tradurle in termini comprensibili ai più (un’impresa ardua per un temperamento intuitivo come il suo), “ridurle” senza tuttavia “appiattirle”. E poi, venire a patti con le esigenze e i tempi degli editori, dei lettori, del mercato, senza tradire però la bellezza di quei momenti donati dalla vita. Il rapporto di Moitessier con la scrittura è tormentato e disseminato di dubbi, ripensamenti, riscritture, lunghi periodi privi di ispirazione. Eppure, è affascinato da quest’arte, che trova «trascendente» oltre ogni sua previsione e che sarà per lui uno strumento per ricapitolare la propria vita e riappacificarsi con il passato.
Il libro ci dà conto anche di come appare Moitessier nelle testimonianze dei tanti navigatori incontrati “sulle vie del mare” con i quali condivide una serata, un aiuto, un progetto o una promessa; o nei suoi rapporti con i giornalisti o i media. O, ancora, visto attraverso gli occhi di chi ha scelto di amarlo e accompagnarlo per un tratto di vita: Françoise, sua moglie e impareggiabile compagna di navigazione, con i suoi tre figli venuti da un primo matrimonio; Ileana, da cui avrà un figlio in Polinesia – Stéphan − e Veronique, la compagna degli ultimi anni. Emerge la sua immagine personale, e non è sempre positiva: accanto alla generosità, all’idealismo, alla determinazione appare l’uomo “difficile”, a volte insicuro, irascibile, ostinato, imprevedibile o esigente. Ma è giusto che sia così perché nella «lunga scia» che una barca – o una vita – lasciano dietro di sé c’è tutto, le ore fantastiche e i momenti terribili, ed è proprio questo che la rende vera e unica.
Un uomo libero
Bernard Moitessier è prima di tutto un uomo libero, libero da qualunque schema e come tale la sua “scia” non potrà mai essere diritta, essa piuttosto diverge, curva e si avvolge intorno al globo terrestre, come in una spirale, riportandolo più volte negli stessi luoghi, sempre cresciuto e cambiato dalle esperienze.
Le sue radici affondano nella saggezza orientale, l’infanzia in Indocina segna fortemente la sua personalità: i paesaggi indimenticabili, le vacanze d’estate insieme ai fratelli, nel piccolo villaggio di pescatori nel Golfo del Siam, la semplicità e i discorsi di quella gente. È qui che apprende a navigare sulle giunche, qui sono i momenti in cui si sente veramente libero. Si forma dentro di lui un senso di sacralità dell’esistenza e di fedeltà ad essa, che diventerà il centro del suo essere e delle tante scelte future. Le vicende della Seconda guerra mondiale, con l’invasione dell’Indocina da parte del Giappone e, successivamente, gli scontri e i violenti movimenti indipendentisti strapperanno quel mondo alla sua armonia trascinandolo in aspri conflitti. Lo stesso Moitessier e i suoi fratelli ne rimarranno coinvolti; uno di essi, Françou, «il poeta invaso dall’odio», si suiciderà dopo aver ucciso brutalmente uno dei loro amici di infanzia: un dramma il cui insensato orrore ossessionerà a lungo il navigatore.
Inizia un lungo periodo di tentativi in cui si troverà sempre a ricominciare daccapo: l’abbandono dell’azienda paterna; il trasporto commerciale del riso, in barca a vela, per la Cambogia; la costruzione di due imbarcazioni − una giunca prima e un ketch poi − e due naufragi, prezzo dell’audacia e dell’inesperienza. Gira a vuoto, come una barca impantanata nella bonaccia in attesa del vento. Finalmente, in Francia, dopo il successo del suo primo libro e grazie a un impiego come informatore medico, comincia a progettare una nuova imbarcazione che plachi la sua sete di libertà. Forse il vento sta girando e inizia a levarsi per gonfiare di nuovo le vele.
“Prove di volo”
Presto un nuovo ketch di 12 m. in acciaio, progettato secondo le sue specifiche, è terminato grazie a mesi di febbrile lavoro e al provvidenziale intervento di Monsieur Fricaud, proprietario di una fabbrica di escavatrici meccaniche e appassionato di mare, che mette a disposizione la sua attrezzatura per costruire lo scafo. Joshua – così si chiama la barca, dal nome di Joshua Slocum, il grande navigatore solitario che alla fine dell’800 a bordo del suo sloop, Spray, circumnavigò il globo – è equipaggiato con la massima semplicità: l’albero è un palo del telefono, le sartie[2] sono costituite da cavi telefonici e al posto dei winch[3] si utilizza un paranco[4], da spostare di volta in volta dove serve.
L’importante è prendere il largo, il “grande largo”. A fianco di Moitessier, ora, sua moglie Françoise, ad aspettarli in Francia i tre figli di lei. La meta sono le isole del Pacifico, paradisiache, che gli resteranno per sempre nel cuore.
Bernard assapora di nuovo l’ebbrezza degli spazi del mare, se ne ricolma, ma si sente anche attratto dall’esplorare i propri limiti. La prima vera “prova di volo” sarà il tratto di ritorno da Tahiti ad Alicante, in Spagna, passando per Capo Horn, dal novembre 1965 al marzo 1966. Il Capo impone un passaggio arduo, in piena tempesta: sei giorni e sei notti in cui i naviganti si alternano ininterrottamente al timone con «cavalloni di 150-200 metri che si infrangono senza sosta per 200-300 metri». È un’intuizione a salvarli: Bernard “sente” la fatica della sua barca e, venendo meno a tutti i consigli ricevuti prima della partenza, la libera dalle ancore galleggianti e dai cavi filati a poppa, che servono a frenarne la corsa, tagliandoli nettamente con un coltello: Joshua risponde subito, ridiventa leggero, maneggevole, acquista la velocità sufficiente a fuggire il mare. Questa “naturalezza” del navigare resterà sempre la sua impronta di velista.
La lunga rotta
Ma l’impresa che consacra definitivamente Moitessier a leggenda dei navigatori a vela deve ancora arrivare.
Ormai l’ultima impresa che resta da compiere è il giro del mondo in solitario senza scalo. Il Sunday Times, nel 1968, lancia il bando della competizione. Diversi navigatori si fanno avanti: il premio è ambito: il Golden Globe e 5.000 sterline, rispettivamente per il primo che completerà il giro del mondo e per la barca più veloce.
Partecipare o no? La decisione non è facile: dopo la traversata Tahiti-Alicante, Moitessier è il “grande favorito” e la somma in palio è allettante, tuttavia egli sente con chiarezza che è sbagliato “inquinare” la sacralità di quel viaggio straordinario con promesse di denaro. Il fascino del percorso, però, e l’inviolata grandezza della sfida lo chiamano a misurarsi di nuovo con i suoi limiti e con l’infinito. La sua determinazione è presa, partecipare alla regata non vuol necessariamente dire sposarne fino in fondo la causa e slanciarsi in una cieca e folle corsa attraverso gli oceani: coprirà il percorso e la vittoria, se ci sarà, sarà soltanto un “incidentale” dono concesso dagli dèi. «Ognuno farà la corsa che vorrà, io farò la mia corsa, secondo i miei criteri», confida al giornalista del Sunday Times venuto a intervistarlo.
Joshua viene equipaggiato con nuove attrezzature e il 22 agosto 1968, alla partenza da Plymouth, in Inghilterra, è smagliante. E così lo è Bernard Moitessier, slanciato verso «il soffio del largo». Sembra esserci – è strano notarlo – una misteriosa corrispondenza tra il navigatore e la sua barca, una sorta di rapporto “magico” di corrispondenza in cui Joshua funge da suo alter ego: proprio come lui è gagliardo e forte, o stanco e logoro dopo mesi di mare, o, all’ancora nella baia di un atollo, ormai arrugginito, sta a ricordargli che “una parte di sé” reclama le sue cure.
Nel libro, i racconti della preparazione, delle partenze e della posizione degli altri concorrenti nel percorso, su diverse imbarcazioni, ricreano efficacemente l’ambiente e lo scenario di eccitazione e di interesse mediatico che ruota intorno alla gara. Degli altri regatanti, però, Moitessier non avrà notizia fino al suo arrivo.
Intanto, “la sua corsa” prosegue, attraverso i giorni sempre uguali e sempre diversi che riservano i venti, a ottobre 1968 il ketch affronta le alte latitudini: le condizioni del mare suggeriscono di alleggerirlo ancora, di ridurre stabilmente le vele e di centrare il peso della barca, per trovare l’andatura più efficace e più fluida. Moitessier si libera di una parte consistente delle scorte di viveri gettandole in mare − biscotti, latte condensato, vino, riso, zucchero, marmellata [quanto è lontana la paura del bisogno che anima la nostra società “dei consumi”?, Nda ] − e ammassa tutti gli oggetti pesanti al centro dell’imbarcazione, nella cabina. La disponibilità di acqua potabile è affidata all’acqua piovana raccolta in un secchio posto vicino all’albero maestro. Un calcolato abbandono. Si alternano venti più maneggevoli, che concedono di riposare, a burrasche potenti: «Tutto il mare è bianco, tutto il cielo è bianco. Non so più molto bene a che punto sono, se non che corriamo da molto tempo al di là delle frontiere del troppo. Ma non avevo mai sentito la mia barca così forte, mai mi aveva dato tanto» riferirà Moitessier nel suo libro La lunga rotta. Lanciato in planata sulle onde a otto, dieci nodi con la sua scia di mare fosforescente dietro, Joshua è «come una fiamma che corre nella notte».
Il 5 febbraio 1969 passa il Capo Horn: tenerezza ed esaltazione del vivere si alternano nell’animo mentre «I giorni e le notti si susseguono nella bellezza, nei colori del mare e del cielo, nello splendore di un’aurora australe».
Il viaggio si trasforma nella ricerca di una verità intima che risorge e ricongiunge al significato dell’esistenza: «Siamo soli, la mia barca e io. Soli con il mare immenso per noi due soltanto», affermerà, sempre ne La lunga rotta.
Dopo un mese, quando – il 18 marzo 1969 – nella baia di Città del Capo lancia con una fionda a bordo di un cargo il suo messaggio, poi rimasto famoso: «Continuo senza scalo verso le isole del pacifico perché sono felice in mare», la sfida è diventata ben più grande. In palio non c’è più il Golden Globe e le 5.000 sterline, ma il proprio senso di integrità come essere umano, la propria fedeltà a ciò che ispira profondamente l’agire, la redenzione dagli errori e dalla miseria in cui, nel tempo, inevitabilmente lui stesso sente di essersi compromesso, il senso di connessione con l’infinito, troppo prezioso e fragile, per tradirlo o spezzarlo accettando di seguire un obiettivo falso, utilitaristico, dettato da altri, da una società popolata di «folle senza sguardo», improntata alla «sete di un ritmo di esistenza privo di senso».
«Joshua mi ha portato ben oltre i miei sogni. Là dove il tempo non esiste più»: affrontare ancora mesi di navigazione in condizioni sempre più difficili, nell’inverno australe, o perdersi in mare spaventano meno che perdere la propria anima, scegliendo di rientrare in Europa.
Il viaggio continua verso la Nuova Zelanda, rotta Tahiti.
Il 21 giugno, a dieci mesi dalla partenza, entra nella rada di Papeete: sfinito, ma “salvo”.
Più lontano
La traversata e la regata si sono trasformate per lui in una iniziazione.
Occorre fare qui una breve considerazione “tecnica”: dobbiamo pensare che, in quegli anni, la navigazione d’altura era molto diversa da come è oggi. Senza voler togliere nulla al rischio dell’impresa, allo spirito d’avventura e all’abilità dei circumnavigatori odierni, o all’intensità della loro esperienza, i solitari in regata attorno al mondo sono, praticamente, in contatto costante tramite telefono, computer, webcam; sono in grado in qualunque momento grazie agli strumenti satellitari di posizionamento (Gps) di sapere dove si trovano con esattezza; dispongono di strumenti radar in grado di segnalare eventuali pericoli, di strumenti satellitari in grado di segnalare la loro ultima posizione in caso di avarie gravi, ricevono costantemente le più aggiornate e affidabili previsioni meteo. Il “mondo degli uomini” continua, in qualche modo, a essere intorno e vicino a loro.
Quaranta anni fa, nel 1968, gli strumenti erano molto meno sofisticati, inoltre Moitessier non aveva a bordo un radiotrasmettitore, un apparecchio troppo pesante, che avrebbe compromesso, a suo avviso, la manovrabilità dell’imbarcazione: la comunicazione era affidata a una fionda, per lanciare messaggi sul ponte delle navi che incrociava, a del materiale per costruire modellini di barche con dei messaggi in bottiglia, al nome della barca dipinto in grosse lettere sulla tuga per poter essere identificato da lontano. Le uniche voci, per dieci mesi, quelle del mare, del vento, degli uccelli. Quasi inimmaginabile, per una società ipercomunicativa come la nostra.
Una così lunga solitudine in mare potrebbe sembrare la quintessenza della libertà, ma comporta invece un’austera e attenta autodisciplina: diventa vitale essere capaci di mantenere sempre un livello di energia e di forza fisica adeguati. E di concentrazione. Saper trovare in se stessi la forza di reagire, senza sostegni, ma evitando di irrigidirsi troppo e riuscendo a rilassarsi nei momenti che lo consentono. Altrimenti si crolla, è inevitabile. È una sfida fisica, ma anche una disciplina delle emozioni, incontro ai “fantasmi” ignoti anche a noi stessi che sorgono dall’anima, è − sì − un mondo esterno ma anche un diverso paesaggio interiore dove ci si trova catapultati. È naturale che qualcosa nella mente cominci a funzionare in modo diverso, a percepire in modo diverso, difficilmente comprensibile per chi non lo abbia vissuto.
Controcorrente
“Non si discende mai veramente da un 8.000” – affermano gli scalatori che hanno toccato le vette più alte del nostro pianeta – e forse, allo stesso modo, non si può mai dirsi davvero tornati da un giro del mondo in solitario a vela.
Durante gli anni successivi alla sua lunga rotta, a cui Barrault dedica diversi capitoli nella seconda parte del libro, Moitessier procederà, fra il mare e la terra, sempre “controcorrente”, cercando infaticabilmente di dare vita ad iniziative idealistiche, a volte forse utopistiche, di testimoniare le ragioni di un modo di vivere più giusto e pacifico per l’uomo e per il pianeta, cercando di farsi ascoltare anche dai politici più potenti, quasi sempre senza successo.
Cede i diritti d’autore del libro che narra la sua straordinaria impresa al papa, perché porti avanti la spiritualità che ancora rimane nei popoli dell’Occidente: nessuno li ritirerà. Diventa un “hippy”, criticato da molti. Tenta di “insegnare l’agricoltura” agli abitanti degli atolli del Pacifico, sperimentando sistemi per ricavare l’acqua dolce dal sottosuolo e piantando alberi di mango, di cocco, ortaggi e alberi da frutta, ma non riesce a fare breccia nella mentalità locale, improntata a una “rilassata” assenza di preoccupazione per il domani. Vuole piantare alberi da frutta anche nelle strade delle città di tutto il mondo, ma il suo appello rimarrà, perlopiù, inascoltato. Si trasferisce da un paese all’altro, l’atollo di Ahé, di Suvarov, la Francia, l’America, dove comprende che avrebbe «passato la vita a lavorare come un matto, solo per riuscire a vivere, nient’altro».
Forse fatica ad adattarsi e cerca nelle cose del mondo la stessa “grandezza” semplice e potente che ha percepito tra gli oceani, ma inutilmente. Ben altre preoccupazioni albergano negli uomini, collettivamente e individualmente.
Di nuovo su Joshua, in compagnia dell’attore Klaus Kinski questa volta, il suo ultimo naufragio – in Messico, nel 1982 – quando la barca, all’àncora in una baia, viene sbattuta sulla spiaggia da un ciclone e praticamente distrutta dalla forza delle onde e dalla collisione con le altre imbarcazioni alla fonda. La confusione della presenza degli altri e dei discorsi ha impedito a Moitessier di rendersi conto del pericolo. Simbolicamente, dopo tante burrasche in mare, è questo trovarsi stretto in un luogo angusto tra le altre barche, incapace di liberarsi e prendere il largo, ad “uccidere Joshua”.
La vittoria contro “il Dragone”
Tamata e l’alleanza[5], il suo ultimo libro, sarà il pretesto per una faticosa ma necessaria ricapitolazione della vita, che rende liberi dai fantasmi del passato e riporta vicino tutto e tutti: il Vietnam, i drammi della giovinezza, le persone amate. Perfino Joshua, che ha “nella sua pancia” le migliaia di miglia degli oceani, e che, riparato e acquisito per il Musée Maritime di La Rochelle, è ormeggiato in banchina nei pressi del piccolo cimitero vicino al mare, in Francia, dove nel giugno del 1994 Moitessier «salpa per la sua ultima crociera».
La sua lotta contro “il Dragone” è conclusa, come egli stesso la descrive nel messaggio consegnato anni prima in Polinesia, al surfista Arnaud De Rosnay, che intendeva affrontare l’oceano Pacifico:
«Per vincere la tua lotta contro il Dragone, dovrai sconfiggerlo per tre volte.
La prima sarà nel corso delle 700 miglia iniziali, durante le quali si verificherà la lotta tra il vero Arnaud e il falso Arnaud.
Quando avrai vinto questa prima battaglia, il Dragone uscirà del tutto dalla sua tana. Approfittando della tua stanchezza, farà balenare nel tuo corpo e nel tuo spirito ogni sorta di buona ragione per attirarti e farti cadere nella trappola della rotta diretta, che non è quella giusta.
Quando sarai uscito vincitore da questa seconda battaglia, il Dragone ti aspetterà [...] e allora userà la tua esaltazione per cercare di ipnotizzarti su una latitudine troppo esatta per essere vera.
Allora sconfiggerai il Dragone se avrai saputo imparare la lezione dei primi due combattimenti per tenere ben uniti insieme il corpo, lo spirito e l’anima, e restare vigile in ogni circostanza. [...] dovrai fare attenzione a tutto durante questo terzo e ultimo incontro tra i due Arnaud. Gli amici resteranno vigili e cercheranno di aiutarti, ma sarai da solo a vincere la tua formidabile lotta e a sconfiggere il Dragone.»
Luciana Rossi
NOTE
[1] - Riportiamo l’elenco completo dei libri di Bernard Moitessier: Un vagabondo dei mari del Sud, Mursia, Milano, 1969 e succ. ed., Capo Horn alla vela, Mursia, Milano, 1969 e succ. ed., La lunga rotta, Mursia, Milano, 1972 e succ. ed., Tamata e l’alleanza, Editrice incontri nautici, Roma, 1993 e succ. ed. e (pubblicato postumo) Vela, mari lontani, isole e lagune, Editrice incontri nautici, Roma, 1996 e succ. ed.
[2] - Cavi metallici che sostengono lateralmente l'albero di una barca a vela sotto sforzo
[3] - Piccoli argani, verricelli usati per mettere in tensione le cime che regolano le vele
[4] - Sistema meccanico costituito da due bozzelli (carrucole), l'uno fisso l'altro mobile, e da un cavo che passa per le loro pulegge; si usa per moltiplicare la forza applicata tra i punti estremi cui si collega
[5] – “Tamata”, che in polinesiano vuol dire “tentare”, “provare” (il principio a cui Bernard Moitessier si ispirava), è il nome della sua ultima barca, costruita grazie ad una campagna di solidarietà, lanciata da alcune riviste nautiche, e al contributo di qualche amico
(direfarescrivere, anno V, n. 41, maggio 2009)
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