Un saggio avvincente come un romanzo, questo del docente universitario e giornalista Claudio Siniscalchi, dal titolo Riflessi del ’900. Cinema, avanguardie, totalitarismo (1895-1945) (pp. 138, € 15,00), pubblicato da Rubbettino all’inizio del 2008.
Il cinema negli anni Venti è lo strumento di espressione e provocazione delle avanguardie: futuristi, espressionisti, dadaisti, surrealisti lo utilizzano per provocare, criticare e far vacillare le certezze del ceto medio, della borghesia che stava affermando i propri diritti e il proprio status in modo sempre più autoritario.
A partire dagli anni Trenta, la cinematografia assimila le istanze estetiche, sociali e politiche dei movimenti rivoluzionari, divenendo successivamente parte integrante della comunicazione e della propaganda dei regimi totalitari di destra e di sinistra.
Attraverso le immagini cinematografiche viene raccontato il tempo intanto che esso viene vissuto. Le persone, per la prima volta, si sorprendono a osservare la vita di tutti i giorni grazie ai film, che attingono direttamente a scene di vita quotidiane. Le persone sono gli attori principali non professionisti delle pellicole prodotte da questi regimi. La popolazione si trova al contempo partecipe di una grande rappresentazione del proprio tempo e risucchiata dall’immagine che si viene producendo attraverso le numerose pellicole girate in quegli anni.
La settima arte crescendo negli anni si dota di strumenti sempre più raffinati, sempre più nitidi e precisi. Le storie riprese e poi proiettate aderiscono a dei modelli narrativi precisi anche se il linguaggio è peculiare; infatti ogni regista, tra quelli analizzati in questo avvincente saggio di Siniscalchi, è singolare e al tempo stesso si pone come modello per i lavori cinematografici dei colleghi.
Cinema come fonte di storia?
Senz’altro le immagini contenute nei filmati-documentari di un’epoca, che sedimentano se stesse lungamente, racchiudono un particolare punto di vista. Ma l’universo creativo del regista non può esaurire interamente il suo tempo, perché predeterminato dal proprio iter culturale individuale. Inoltre, alla produzione di una pellicola collaborano più individui e ognuno di essi, dalle riprese alla fase del montaggio e della stampa, apporta modifiche, orienta la “curva” espressiva di un film. Per cui una pellicola che finisce in una sala di proiezione non è, almeno per l’epoca di cui stiamo parlando, il prodotto fatto e finito di un unico regista, ma il frutto di un processo a tutti gli effetti artigianale, che passa di mano in mano.
E che dire del pubblico? Tutte le immagini contenute nei singoli fotogrammi sono ben poca cosa senza spettatori in grado di assistere alla proiezione. Non sono indispensabili, certo, ma sono uno degli elementi che fanno “cinema”: una sala vuota, centinaia di poltrone vuote non sono cinema, sono il luogo di un mancato appuntamento, un blues cantato troppo in sordina che non viene udito da alcuno.
A queste iniziali riflessioni si aggiunge la predeterminatezza delle immagini, per cui cade la distinzione fiction/non fiction, cioè tra immagini costruite e vere. Lo sguardo registico è sempre e comunque parziale. È sempre e comunque una sezione del quadro complessivo, inafferrabile per essenza. Questo non toglie che, rispetto a un determinato fatto storico, l’immagine costruita possa essere più esaustiva di quella reale.
Vengono in mente certe riprese di sedicenti “giornalisti al guinzaglio” nel “teatro di guerra” iracheno! Mai definizione fu più appropriata: i professionisti della comunicazione e dell’informazione vengono autorizzati a riprendere solo certe zone e non altre, certe operazioni e non altre. Beh, questa è una lezione che viene da molto lontano, dall’esperienza cinematografica degli esordi, appunto.
Il cinema racconto di una società e di un’epoca
Cinema e società di massa si abbracciano fin dal principio. Lo sguardo meccanico del proiettore cerca subito quello pubblico della sala. Le immagini parlano per conto di qualcuno, raccontano il modo di pensare di un’epoca ed è in relazione a quest’ultimo aspetto che viene fatto un passo avanti: viene raccontato ciò che la società ritiene debba essere narrato.
Prendono piede i film di finzione che raccontano il proprio tempo, che imitano la vita grazie alla recitazione degli attori, ma non solo. La finzione racchiude anche un momento “secondo”, il messaggio di chi ha prodotto la storia, anche se al pubblico giunge solo la serie di immagini.
Eppure proprio le immagini, pur non essendo la realtà, ne divengono l’accesso unico. Il succoso albero cinematografico offre appetitosi frutti per interpretare la società, rendendoli subito accessibili e comprensibili. La settima arte non è l’unico strumento per pensare di comprendere la realtà, ma per milioni di individui lo diventa con un battito di ciglia.
Il saggio di Siniscalchi si sofferma proprio su questo peculiare aspetto: il cinema può essere una fonte storica. Può riflettere il clima di un’epoca, in particolare i totalitarismi come fascismo, nazismo e comunismo.
L’esperienza artistica e professionale di registi come Fritz Lang, Sergej Ejzenštejn, Luis Buñuel e Leni Riefenstahl, secondo Claudio Siniscalchi, rappresenta il meglio di quanto prodotto dalle avanguardie d’inizio XX secolo. Per questa ragione vengono analizzate alcune delle loro pellicole più celebri.
Le avanguardie europee costituiscono l’espressione culturale estrema della crisi della ragione occidentale, dove si compie l’atto supremo di un’arte irrazionale e nichilista, che appunto sfocia nelle forme politiche totalitariste. Sotto quest’ottica, l’arte cinematografica diventa un documento per testimoniare la storia della guerra civile europea che si è protratta per decenni, dal 1917 al 1945.
Alessandro Tacconi
(direfarescrivere, anno V, n. 37, gennaio 2009) |