Nata in sordina, per decenni accomunata superficialmente alla mafia siciliana o alla camorra, senza neppure un nome proprio, la criminalità calabrese si è poi saputa distinguere per avere al centro della sua esistenza un perno: la coincidenza di sangue fra famiglia naturale e famiglia mafiosa.
Si tratta di un nucleo originario che le ha assicurato stabilità ed impermeabilità al fenomeno del pentitismo: anche i matrimoni e gli apparentamenti sono stati per decenni delle scelte di alta valenza strategica per il “perpetuarsi della specie”.
C’è il sangue alla base di tutto: quello che lega le madri ai figli, quello che si versa simbolicamente durante il rito di affiliazione, quello con cui si lava e si ripara l’onore leso, quello con cui si regolano i conti, si eliminano gli “scomodi” e si esercita la deterrenza verso qualunque possibile concorrente.
Lo sguardo dello storico calabrese Enzo Ciconte, nel libro ’Ndrangheta (Prefazione di Francesco Forgione, Rubbettino, pp. VIII-160, € 8,00), va ben oltre le accuse di arcaismo e tribalità come connotati principali del fenomeno criminoso, in quanto egli rileva con acume che questa famiglia mafiosa ha elaborato originali modalità di sopravvivenza, riuscendo a far convivere la tradizione primigenia con slanci poderosi verso la modernità, grazie alla capacità di cogliere ogni occasione d’affari e di proiettarsi a gran velocità nel business globale.
L’autore fa anche di più: riparte dalle premesse di una terra sconosciuta e da una mentalità difficile da esprimere, avviando così un percorso storico per rintracciare le origini, anche etimologiche, del fenomeno criminale calabrese.
Le origini della ’Ndrangheta fra realtà e leggenda d’altri tempi
Le spinte mafiose nascono da lontano, da terre aspre, dimenticate, inospitali, periferiche e diventano in pochi decenni delle forze occulte di straordinaria potenza e modernità, con cellule di emigranti installate in tutti i centri nevralgici del pianeta, nel cuore pulsante degli affari.
Quella della ’Ndrangheta è un’origine avvolta nel mito di una favola fondante, riccamente simbolica: la storia dei tre cavalieri (spagnoli?) di nome Osso, Mastrosso e Carcagnosso.
Il tempo scorre e siamo nel Settecento preunitario, quando incontriamo gli oziosi “spanzati”, gente prepotente che disprezza e si fa beffe della giustizia, gente rimasta impunita. Dal progressivo smantellamento della feudalità nasce una folta classe di “bricconi”, pronti ad intrecciarsi con gli interessi dei ceti emergenti.
Dopo l’Unità d’Italia iniziano a comparire come bubboni sempre più diffusi i gruppi di quelli che, prima del conio del termine ’Ndrangheta, erano detti genericamente “camorristi”.
L’autore sottolinea come non ci sia stato un grande interesse storico-scientifico nell’analizzare il fenomeno perché prevaleva l’idea che si trattasse di una mafia esclusivamente legata ad un ambiente pastorale. «Insomma, una criminalità stracciona, senza futuro, popolata di pezzenti».
La minuzia descrittiva non si disperde e dimostra grande tenuta nella narrazione di un fenomeno che sta sempre sul labile confine fra realtà e leggenda d’altri tempi. I dettagli sono pertinenti ed adducono prove, aggiungono informazioni preziose per costruire un quadro di comprensione che sappia cogliere mutamenti e caratteri di continuità nelle logiche perverse della ’Ndrangheta: dalle origini alla definizione, passando per etimologia, stralci di confessioni, racconti mitici, elementi di successo e sintomi di cambiamento strutturale per reggere al trascorrere del tempo, al mutare della società e dei suoi valori.
Sono pagine popolate da una moltitudine di nomi, località, rituali sinistri e fascinosi, ma il tutto è funzionale per capire di cosa si sta parlando, e di chi. Quest’ultimo aspetto, forse, è l’elemento più interessante e ricco di spunti, dal momento che riflette l’importanza della questione personale e familiare nella logica di sopravvivenza e successo della ’Ndrangheta.
C’è tutto un mondo nato all’ombra della miseria rurale, sulla scorta di secolari battaglie antifeudali: una lotta aspra come il territorio montuoso, a tratti impraticabile; un misto di sentimenti congestionati nell’uso improprio della violenza, strumento a presidio dei valori d’onore, rispetto, promozione sociale e conquista del potere.
Nelle pieghe della Storia si rintracciano la superficialità delle istituzioni, la loro intempestività nel riconoscere la pericolosità dalla ’Ndrangheta ed un lassismo nella repressione che le hanno offerto su un piatto d’argento la possibilità di proliferare indisturbata.
Nel testo sono compendiate tutte le tendenze evolutive e i fatti principali che hanno contraddistinto decenni di storia della ’Ndrangheta: la prospettiva è quella di uno sguardo a volo d’uccello sulle questioni rilevanti, sui personaggi più carismatici e significativi, sugli affari e sui rapporti con la massoneria deviata, con la politica e con ogni settore dell’economia, soprattutto nel campo degli appalti edilizi ed industriali.
Vi è poi un rapporto, ben sottolineato dall’autore in più punti del testo, di contraddizione eppure serbatoio efficace di simbolismo tra la ’Ndrangheta e la fede cattolica: santini, riunioni presso il celebre Santuario della Madonna di Polsi nel cuore dell’Aspromonte, rituali di battesimo all’atto di affiliazione ma anche in occasione di avanzamenti di grado nella ferrea gerarchia mafiosa.
Come non bastasse, in anni più vicini a noi, si è aperta la lunga stagione del massiccio intervento statale tramite la spesa pubblica: flussi finanziari di incalcolabile portata sono giunti nelle casse calabresi, ma non è accaduto nulla di neanche lontanamente paragonabile all’innesco di un circolo virtuoso di sviluppo economico sostenibile. Sono lì a dimostrarlo alcuni segni della violenza inflitta al territorio con l’edificazione di improbabili poli industriali, due su tutti: il V centro siderurgico di Gioia Tauro e la Liquilchimica di Saline Joniche.
Fatale per la politica ma prospero per la ’Ndrangheta è stato, infatti, l’incontro delle due: un sodalizio che con il tempo è divenuto sempre più inestricabile, senza un chiaro confine, senza una netta linea di demarcazione che potesse rendere la “cosa pubblica” immune e pulita da certe contaminazioni. Auspicio del tutto irrealizzabile, visto che tra le ossessioni della ’Ndrangheta c’è sempre stata la conquista elettorale, il condizionamento con ogni mezzo della volontà politica dei cittadini.
Monografia asciutta, che si legge con speditezza e che ha il valore della sintesi ma anche dell’aggiornamento nei confronti di fatti risalenti a pochi mesi fa, tutti in corso di approfondimento, eppure già rivelatori di cambiamenti strutturali interni alla ’Ndrangheta.
Si tratta di quei buoni colpi assestati dalle forze dell’ordine ed inquirenti verso latitanze eccellenti, che offrono l’opportunità di ricavare nuove informazioni ed aprire così orizzonti inattesi su quella che, negli anni, è riuscita a consolidarsi come la forma di criminalità organizzata più affidabile, forte e radicata del pianeta.
La storia criminale vive di propri valori, rituali, leggi e codici
L’ampiezza dell’approfondimento storico e la comparazione ricca d’analisi e confronti si ritrovano, invece, in un altro volume pubblicato da Enzo Ciconte, sempre nel 2008: parliamo di Storia criminale. La resistibile ascesa di mafia, ‘ndrangheta e camorra dall’Ottocento ai giorni nostri (Rubbettino, pp. 436, € 14,00).
In questo lavoro, Ciconte si assume l’onere di impostare finalmente in modo nuovo l’analisi del fenomeno mafioso, secondo un approccio onnicomprensivo: s’incrociano percorsi storici, raffronti, s’accende un intenso dibattito ideologico e non si tralascia di avventurarsi sul pericoloso terreno dei rapporti con lo stato, l’economia e la chiesa.
Discutiamo di metodo. Già, perché l’autore rileva, condivisibilmente, una frammentarietà negli studi sulla criminalità che si sono succeduti sino ad oggi: ogni libro, ogni saggio, persino ogni film o “fiction”, ha pur sempre adottato un punto di vista parziale, focalizzando di volta in volta l’attenzione su uno solo degli aspetti cruciali che caratterizzano le varie mafie italiane. Viceversa, non è possibile scorgere nel panorama delle ricerche storiche o sociologiche nulla di completo ed incline ai paragoni per rintracciare similitudini e divergenze.
Non è un caso, infatti, che la grafica di copertina riporti l’immagine di Cerbero, il mitico cane a tre teste, proprio per rappresentare che mafia, ’Ndrangheta e camorra sono del pari aggressive, fameliche e violente. Il corpo unico ne indica, invece, l’origine comune ed alcuni elementi tipici, patrimonio genetico delle tre organizzazioni criminali.
C’è uno snodo dal quale l’autore prende le mosse per dipingere un affresco della «resistibile ascesa di mafia, ’ndrangheta e camorra dall’Ottocento ai giorni nostri», vale a dire il momento in cui il banditismo, il brigantaggio e la criminalità individuale mercenaria subiscono un’importante mutazione e si organizzano. «Nella fase che si lasciava alle spalle il periodo feudale e che segnava l’inizio della trionfale ascesa dell’egemonia borghese e dello sviluppo capitalistico, mutava lo scenario della criminalità nel senso che per la prima volta nella storia d’Italia gruppi di uomini si organizzavano e decidevano non solo di agire contro le leggi usando la violenza, ma soprattutto di farsi proprie leggi, creare associazioni, forme organizzative, strutture stabili, organismi in grado di durare nel tempo inventando ed elaborando linguaggi, modi di pensare, valori, una visione della vita e dei rapporti con gli altri, persone o istituzioni che fossero».
Lo studioso ricostruisce l’ahimé lunga storia criminale italiana a partire dallo smantellamento della feudalità e dal dinamismo sociale introdotto dalla borghesia capitalistica emergente. In questo agitarsi di retaggi baronali duri a soccombere, con la contrapposizione delle nuove forze che si stavano affrancando dal torpore feudale, non poteva non annidarsi il seme del conflitto sociale, costituendo un terreno di coltura particolarmente fertile per il proliferare della criminalità.
L’uso privato della violenza per mano borghese si pose come strumento per la conquista del potere: la nuova proprietà terriera aveva bisogno d’imporsi sulla scena socio-economica e questo rese «possibile la formazione di autonomi e organizzati agglomerati criminali».
Tuttavia, non può parlarsi della violenza esclusivamente come mercanzia offerta dai criminali, in quanto il connotato dell’organizzazione richiede una struttura che poggi su basi ideologiche ed un patrimonio valoriale coesivo, condiviso dai suoi appartenenti: alla nascita delle mafie contribuisce un’intera cultura, il che le rende forme organizzative stabili, forti, impenetrabili e destinate a divenire durature.
Come nota giustamente Ciconte, «è difficile pensare che quel fenomeno che si sarebbe poi chiamato mafia potesse essersi formato dall’oggi al domani, come d’incanto; è lecito pensare che dovesse avere alle spalle un lavorio di formazione lungo, pluridecennale, un lento processo di incubazione».
È il carattere di permanenza nel tempo dell’associazione criminale a destare sorpresa: si decideva di costituirsi in gruppi organizzati per dedicarsi alle attività illecite “a tempo indeterminato”, producendo addirittura regole e linee-guida, come le chiameremmo oggi.
La “mafia” eleva socialmente e conferisce uno status più prestigioso, consolida le posizioni già alte e crea attorno a sé un consenso funzionale al suo perpetuarsi, con un ricorso alla violenza solo in casi estremi.
Nell’Ottocento è frequentissimo che i capi svolgano ruoli di pacificazione sociale e mediazione dei conflitti: la struttura si va stratificando con funzioni precise, gerarchie e divisione dei compiti.
Ancora un passo del testo, ci aiuterà a riassumere tutti i cambiamenti sostanziali intervenuti all’interno di questa emergente realtà criminale: «che fosse maturato qualcosa che si potrebbe definire un progetto impegnativo lo dimostravano: l’elaborazione e l’uso dei codici; il ricorso frequente ai rituali; la ricerca di una mitologia in grado di giustificare le loro azioni e di attrarre nuovi adepti; la struttura gerarchica entro la quale ognuno occupava un posto ben preciso e svolgeva un compito particolare; l’occupazione permanente, non più transitoria del territorio; le relazioni con poteri politici e istituzionali; la formazione di quadri criminali che avevano caratteristiche sia militari sia “politiche” […] in grado cioè di influenzare con la forza e con la mediazione».
Fra simbologie e rituali, lo storico calabrese non manca di includere la pratica di tatuarsi per ostentare la forza dell’appartenenza alla “casta” mafiosa, nonché il ruolo di omogeneizzazione dei metodi e fucina per lo scambio di idee svolto dalla vita in carcere.
In generale, tutte le occasioni d’incontro e di permanenza in un luogo, potevano costituire momenti di socializzazione criminale e diffusione del fenomeno.
La suggestione cresce man mano che si pone attenzione ai rituali e ai codici recanti giuramenti e complesse procedure di affiliazione e passaggi di grado: tutto avvolto nel simbolismo, in una mitologia difficile da decodificare che nella sua incomprensibilità ha accresciuto il prestigio della mafia e ha suscitato maggiore rispetto.
D’altronde, − questo è antropologicamente noto − ciò che non si afferra in pieno esercita un fascino esoterico irresistibile, che l’autore non manca di descrivere accuratamente, con speciale attenzione nel distinguere i rituali di mafia, ’Ndrangheta e camorra.
Sulla mafia si sono spese definizioni e polemiche d’ogni sorta nel corso di oltre un secolo: dibattiti senza esclusione di colpi tra giornalisti, istituzioni, studiosi del fenomeno per dire se c’è, cos’è e come essa agisce.
Differenze e similarità tra le tre organizzazioni mafiose
È molto interessante, invece, riflettere sugli assetti organizzativi adottati dalle varie mafie nel Meridione d’Italia e l’autore non manca di ricostruire con perizia tre fatti principali: in Sicilia le varie associazioni hanno raggiunto l’equilibrio attraverso una struttura gerarchica molto precisa ed una suddivisione quasi scientifica del territorio in zone di competenza, come intuito e ben descritto dal questore di Palermo Ermanno Sangiorgi sul finire dell’Ottocento.
Il secondo fatto rilevante riguarda l’organizzazione della ’Ndrangheta calabrese: qui la struttura è vasta e ramificata, costituita sulla base delle ’ndrine. «Queste ’ndrine erano in rapporti tra di loro, ma non c’era un capo che governava quella galassia di criminali perché sin dalle origini la ’ndrangheta ha avuto le caratteristiche di un’organizzazione familiare che governava un determinato territorio».
Funzionò così almeno fino a quando non intervenne, nel 1991, una ristrutturazione ed una pacificazione che pose fine alla faida sorta con l’omicidio di Paolo De Stefano: «la pace portò ad un accordo tra tutte le principali cosche che ebbe l’effetto di dare vita ad una moderna e più funzionale spartizione degli affari e del territorio. Nacque la’ndrangheta federata».
L’ingresso della ’Ndrangheta nelle logge massoniche deviate e la costituzione della “Santa” furono anch’essi passaggi strategici di un percorso di strutturazione attraverso il quale si poteva venire in contatto con magistrati, uomini politici, imprenditori, forze dell’ordine ed altri professionisti.
In terzo luogo, la camorra: questa è sempre stata “polverizzata” in un universo frammentario di clan privi di un coordinamento centrale.
In ogni caso, però, non c’è organizzazione che tenga quando sulle mafie si abbatte il flagello dei collaboratori di giustizia, gli unici in grado di sciogliere dubbi investigativi e di fornire descrizioni circostanziate dell’azione mafiosa. Collaborazione, quella dei testimoni di giustizia, dalla quale è risultata pressoché immune la ’Ndrangheta in forza della sua struttura familiare che rende ben più difficile la via del pentimento e della denuncia.
In anni più moderni, particolarmente nel Secondo dopoguerra, sono intervenuti dei cambiamenti strutturali significativi nelle organizzazioni mafiose e nei loro interessi: l’ingente iniezione di denaro pubblico come investimento per lo sviluppo economico meridionale attrasse fatalmente gli occhi e le mani cupide delle mafie, in special modo nel settore degli appalti per le grandi opere infrastrutturali.
I metodi subirono un’evoluzione, passando dalla parassitaria riscossione del “pizzo” nei confronti delle grandi imprese appaltatrici ad un’azione propria e diretta della mafia in campo economico. Era nata la «mafia imprenditrice», categoria criminologica di “arlacchiana” paternità: le cosche intuirono che sarebbe stato molto più redditizio pilotare le offerte negli appalti pubblici, intervenire con mezzi propri ed assicurare l’equità con sistemi di turnazione dei vincitori, grazie a ribassi d’asta concordati.
In questo modo, attraverso la tecnica dei subappalti, nessuna aspettativa andava disattesa e si manteneva il controllo di un settore capace di drenare incalcolabili flussi di denaro pubblico direttamente nelle casse mafiose, grazie anche ad un sempre più conveniente, stretto sodalizio con il mondo politico.
Dai lavori pubblici alla sanità, vista la medesima abbondanza di finanziamenti statali, il passo era breve.
L’esistenza della mafia al Nord: motivazioni
La storia criminale è al contempo Storia e Geografia: essa s’intreccia con la storia dell’emigrazione, con la storia economica, con la storia della religione, con la storia della globalizzazione e della nuova mobilità di soggetti e capitali. Pertanto, l’analisi va condotta senza soluzione di continuità, con un approccio al fenomeno che lo inquadri in un sistema ancor più ampio e complesso, del quale costituisce una forza potentissima, non ignorabile.
Solo tenendo a mente queste direttrici fondamentali risulta più comprensibile l’espansione territoriale di cui ha potuto fruire la criminalità, che si è insinuata nelle rotte mercantili di tutto il pianeta (il commercio è più importante della stessa imprenditoria per la mafia, a conferma del suo parassitismo e della sua predatorietà), che ha sparso le proprie spore ovunque e che si è introdotta nei quartieri degli immigrati meridionali al Centro-Nord, aggravandone – incurante – la ghettizzazione e le difficoltà d’integrazione. A questo proposito, Ciconte rileva inequivocabilmente che «ci fu un ritardo, anche di tipo culturale, nel comprendere quanto stava accadendo al Nord dove nel silenzio e nell’assoluta indifferenza si stavano costituendo robusti insediamenti mafiosi».
Infatti, «bisognerà attendere il 1994, quasi a conclusione della Commissione presieduta da Luciano Violante, per avere la prima organica relazione sulla presenza mafiosa nelle aree non tradizionali firmata dal senatore Carlo Smuraglia, il che dà l’idea delle difficoltà di analisi della progressione territoriale delle mafie».
Excursus storico per scoprire gli intrecci tra mafia, stato e politica
La parte più consistente dell’intero libro è quella tesa a tracciare il profilo dei complessi rapporti storicamente intercorsi tra le mafie, lo stato, la politica e l’economia. Anche in questo frangente bisogna risalire alle origini del fenomeno criminale e ripercorrere le stanze del tempo per individuare l’evoluzione delle “frequentazioni” avute con le forze dell’ordine prima e con gli esponenti politici poi, in un sodalizio che ha messo alle corde la democrazia e la trasparenza delle istituzioni.
La partita si gioca tutta sul terreno del potere: monarchico, repubblicano, liberale o conservatore che sia, quando il potere è appannato, in difficoltà, messo in discussione, non può fare altro che rivolgersi ai “servigi” offerti dai mafiosi, alleandosi con i criminali e tollerandone un aumento di prestigio e peso politico. Assecondare l’idea che per il mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza a livello locale fosse più efficace un intervento mafioso e non quello delle forze di polizia, si è tradotto in una «cogestione tra mafia e potere pubblico, tra potere illegale e potere legale».
«Un altro osservatorio particolarmente significativo del rapporto tra fenomeno mafioso e pubblici poteri è quanto si andava determinando nelle amministrazioni comunali. Dopo l’unità, la lotta per la conquista del potere locale nei comuni diventò aspra e i giochi politici spietati».
Si rileva un progressivo assottigliamento degli spazi pubblici, in favore di una visione privatistica e di puro interesse personale, tramite una gestione edonistica del potere da parte delle organizzazioni mafiose.
L’enfasi fascista e l’enorme dispiegamento di forze per la repressione del fenomeno mafioso si dimostrarono ben presto per quel che erano: un gigante dai piedi d’argilla che riuscì a colpire solo in minima parte le ali militari e più violente delle organizzazioni criminali, lasciandone intatti il potere e le gerarchie.
Come abbiamo già rilevato per la questione degli appalti di lavori pubblici, anche per gli assetti strutturali si delineano novità di svolta solo a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta: in seguito al boom economico, la nuova corsa al capitalismo ha aperto spazi sempre più ampi per l’infiltrazione mafiosa persino nel mondo dell’alta finanza, al fine di riciclare le cospicue fortune ormai accumulate come capitale originario.
Il dinamismo della criminalità è la nota più interessante tra tutte le peculiarità del fenomeno: si scopre una capacità unica di tenere insieme il passato, il presente e il futuro negli affari, nelle tecniche operative e nei contatti “giusti” con il mondo che conta.
È nelle ultime pagine, infine, che ritroviamo un racconto lineare e ben coordinato delle vicende più recenti, quelle che negli scorsi venti anni sono state protagoniste della cronaca giudiziaria e soprattutto mediatica: pagine di storia ancora da scrivere, il cui seguito è atteso da tutti quanti hanno scelto di credere nell’utopia dello storico Francesco Renda per «liberare l’Italia dalle mafie», ben consapevoli che si tratta di un processo lungo, un cammino difficile dall’esito non prevedibile.
Con tutta la folla di personaggi ed episodi che animano questa “storia criminale”, il libro si legge con la stessa curiosità e passione di un romanzo, se non fosse che poi bisogna svegliarsi dall’incanto e prendere nota che si tratta della realtà. Nient’altro, purtroppo, che cruda realtà. Ancora oggi.
Olimpia Scopelliti
(direfarescrivere, anno IV, n. 35, novembre 2008) |