Definire cosa sia di preciso il Tarantismo è un’impresa interessante ma sicuramente complessa. Dall’analisi pionieristica di Ernesto De Martino ad oggi, gli studiosi che si sono avvicinati al fenomeno sono stati diversi, ma nessuno in grado di sciogliere gli interrogativi storici che conservano sulla tradizione popolare un fitto alone di mistero.
Nella raccolta di studi La danse du désir – Il resto del Tarantismo (Scorpione Editrice, pp. 176, € 10,00) a cura di Roberto Nistri, viene ricostruita la storia del Tarantismo dalle origini fino ai giorni nostri, ponendo una netta distinzione tra il rituale popolare e le contemporanee manifestazioni musico-culturali che pullulano nel Salento e all’estero. Sei saggi che contengono all’interno altrettanti scritti per ricostruire un “mito”, un rito che si è esaurito e ha perso il suo significato originario perché privo di quel contesto storico-culturale che lo ha determinato.
Il primo saggio Introduzione: il resto del Tarantismo, proprio di Nistri, è d’introduzione all’argomento, una riflessione su ciò che del Tarantismo è rimasto nella società contemporanea e di come il successo degli ultimi anni sia semplicemente il frutto di una politica di spettacolarizzazione dell’evento a scopo meramente economico. Un boom dovuto al regista Edoardo Winspeare, “Signore di Depressa” come è stato definito, che nelle pellicole Pizzicata e Sangue vivo ha portato alla ribalta un fenomeno che nella realtà contadina del passato non era che motivo di vergogna e discriminazione.
Il Tarantismo: natura, rituale bacchico o questione meridionale?
Il Tarantismo riesplode in Puglia «con l’avvento della Controriforma cattolica in un contesto fino ad allora caratterizzato dal cristianesimo bizantino» afferma Gino Leonardo Di Mitri nel suo scritto Il santo sciamano e l’etnologo taumaturgo, sottolineando che il culto di san Paolo correlato alla tarantola risale al XIII secolo.
Nel saggio La tarantola pugliese di Romildo Gay, lo studioso Rosario Quaranta riporta le considerazioni di personaggi del Settecento e Ottocento che descrivono la tarantola come «avanzo di antichi baccanali», di manifestazioni puramente folkloristiche. Riporta il pensiero dello scrittore tarantino del XVIII secolo Atenisio Carducci, che scrive: «Le tarantole non sono velenose[…]. Il Tarantismo è un puro residuo delle orgie di Bacco e della Dea Cibele […] è un estro cagionato dall’adusto clima e qualità de’ cibi […], dall’ardente temperamento de’ Pugliesi, dal genio de’ tarantini portatissimi alla musica». Riprendendo le considerazioni del medico manduriano Flaminio Arnò vissuto tra il Seicento e il Settecento, Quaranta scrive: «Per Arnò non è la tarantola a causare la frenesia del ballo e del suono; la spiegazione di tale innata passione si troverebbe nell’aria e nel terreno troppo caldi e secchi della regione […] e nel vino notoriamente robusto e “sulfureo”». La riflessione del giornalista milanese Romildo Gay spiega accuratamente ciò che attanaglia i pugliesi: «i Pugliesi dicono che la puntura della tarantola infiltri un veleno particolare […] e produca nel paziente una irresistibile voglia di ballare al suono di un violino, senza di che il malato cade in una vera paralisi che può essere mortale […]. La musica che si suole adattare a questo ballo è la cosiddetta tarantella chiamata dai Pugliesi nel loro dialetto, la pizzica pizzica […] si può dare una malattia più stravagante… e indiscreta di questa? Perché la scienza, con tutti i suoi progressi, non è giunta ad affermare quanto vi sia di vero e di falso in questa morbosa leggenda?». In sostanza, per Gay il Tarantolismo è ridotto a pura suggestione, pregiudizio e contagio morale.
Secondo lo studioso Giovanni Fornaro, in “Sueni, muedi” e storie attarantate, il declino culturale del Tarantismo inizia nel XVIII secolo; Roberto Nistri in Tarentula ai tempi di internet, citando il pensiero di Lenormant datato 1880, afferma: «oggi non esistono più tarantolati. Attualmente a Taranto e nei suoi dintorni, il tarantismo non è che una strana leggenda del passato». Tale scomparsa è dovuta da un lato al processo di industrializzazione che comincia ad incidere sulle tradizioni contadine, dall’altro è determinato dall’assenza di un luogo sacro dei tarantati nella città dei due mari come invece San Paolo, a Galatina.
Nistri analizza in questo ultimo saggio il pensiero dell’etnologo Ernesto De Martino in La terra del rimorso, per il quale il Tarantismo non è che manifestazione della sofferenza sociale in un Mezzogiorno che ha bisogno di lavoro e istruzione. L’espressione di un disagio collettivo sanabile non solo attraverso l’intervento economico ma anche sul piano morale e del costume, insomma il Tarantismo come estrinsecazione della miseria psicologica. Il curatore evidenzia come De Martino «rinuncia a indagare la possibile continuità tra le sopravvivenze di culti pagani che stanno a monte del tarantismo, e finisce per sottovalutare, ad esempio, la questione demonologia nelle civiltà cristianizzate, pur consapevole del fatto che il tarantismo sia stato sottoposto ad esorcismo cristiano fino ad epoche recenti».
Conclusioni
Una raccolta interessante che ricostruisce un legame tra passato e presente e che cerca di analizzare i cambiamenti che hanno determinato il passaggio da fenomeno “locale” a simbolo di appartenenza ed orgoglio.
È soprattutto negli anni Novanta che, con il gruppo musicale dei Sud Sound System e il ri-arrangiamento dei repertori tradizionali con reggae e hip hop, la pizzica pizzica esplode come segno positivo, diviene vera e propria moda simbolo della rinascita salentina.
Quel rito socialmente condiviso, quel malessere che viene risolto e guarito dalla musica, è ormai esaurito e vive soltanto nei ricordi.
Oggi la pizzica pizzica, o taranta come dir si voglia, esportata in tutto il mondo, è un fenomeno global-folk. Musica sì popolare ma anche frutto di contaminazioni, di certo completamente distante da un rituale comunitario che racchiude e racconta la sofferenza e il dolore del tarantato, «Anna era rimasta sola, in una terra di nessuno […] un urlo silenzioso: “e sono rimasto come lisola a mezzo a mare”».
Simona Corrente
(direfarescrivere, anno IV, n. 30, giugno 2008) |