Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
La recensione libraria
Quando la ’Ndrangheta uccide i giusti
che la combattono. Le tragiche storie
di due coraggiosi militanti comunisti
Le lotte contro la criminalità mafiosa nel Sud
in un saggio stampato da Città del Sole Edizioni
Giuseppe Licandro
Stando alle statistiche divulgate ultimamente dall’associazione dei commercianti Sos, sarebbe pari al 9,5% del prodotto interno lordo il volume d’affari delle quattro maggiori organizzazioni criminali italiane: la Camorra, Cosa nostra la ’Ndrangheta e la Sacra corona unita.
Da molto tempo, ormai, la mafia italiana ha dismesso i panni rustici e desueti con cui è stata tradizionalmente raffigurata (coppola, lupara e senso dell’onore), diventando tanto potente da conquistare una porzione sempre più ampia del mercato globale e arrivando addirittura a investire in borsa i propri proventi.
Nel suo libro Gomorra (Mondadori), Roberto Saviano si è fatto promotore di una circostanziata denuncia intorno alle attività illegali e all’enorme potere esercitato dai clan camorristici in Campania e nel resto d’Italia.
Un altro esauriente resoconto sull’imperversare della criminalità organizzata è stato fornito da Fratelli di sangue (Pellegrini Editore) di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, che ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica sulla temibile forza acquisita in ambito internazionale dalla delinquenza calabrese.

Due comunisti uccisi dalla ’Ndrangheta
Per capire il contesto storico in cui la ’Ndrangheta (che adesso, però, sembra venga chiamata dagli affiliati “Cosa nuova”) è diventata una fra le maggiori organizzazioni criminali del mondo e per non dimenticare coloro che in Calabria l’hanno in qualche modo contrastata, consigliamo di leggere il libro di Claudio Careri, Danilo Chirico e Alessio Magro Il sangue dei giusti. Ciccio Vinci e Rocco Gatto due comunisti uccisi dalla ’ndrangheta (Con l’intervento di Don Luigi Ciotti, Città del Sole Edizioni, pp. 192, € 10,00).
Careri, Chirico e Magro sono tre giornalisti calabresi membri dell’Associazione “daSud”, che da tempo è impegnata a recuperare la memoria storica delle lotte sostenute contro la mafia e a onorare il ricordo delle vittime innocenti, cadute negli agguati dei malviventi. I fatti narrati, come spiegano gli stessi autori all’inizio del libro, «sono frutto dell’appassionata lettura di atti processuali, ritagli di giornale, libri comprati in libreria, consultati in biblioteca o scovati nel fondo di una cantina».
I tre cronisti hanno anche fatto ricorso alle testimonianze dirette di chi ha subito in prima persona le intimidazioni mafiose e ha provato – spesso vanamente – a ribellarsi.

Ciccio Vinci, giovane militante
La prima parte de Il sangue dei giusti è dedicata alla figura di Ciccio Vinci, militante della Federazione giovanile comunista italiana di Cittanova (un paese della Piana di Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria), ucciso in un agguato mafioso il 10 dicembre del 1976.
Le indagini condotte dai carabinieri portarono a una soluzione del caso del tutto imprevista ma, in ogni modo, agghiacciante: Ciccio fu ucciso per errore da quattro “baby-killer” cittanovesi che lo massacrarono convinti di colpire un’altra persona. Il tragico evento s’inserì all’interno della faida, in corso da tempo, fra le due principali cosche della zona (i Raso-Albanese e i Facchineri), che dal 1964 fino al 1992 diedero vita a un’indescrivibile mattanza, con più di cento vittime.
Vinci, tuttavia, non apparteneva ad alcuna cosca. Anzi, nonostante fosse soltanto uno studente liceale, era già molto impegnato politicamente e si era segnalato per la vivacità intellettuale, la bontà d’animo, il ripudio della violenza mafiosa. Non rappresentava ancora, tuttavia, un pericolo per la ’Ndrangheta, sebbene l’avesse pubblicamente riprovata, definendola «ragnatela che opprime tutta la Calabria». Così gli autori descrivono la vivace personalità del giovane militante comunista: «In fondo, Ciccio Vinci era un ragazzo normale, un diciottenne che come tutti i diciottenni aveva tanta voglia di vivere, desiderava abbandonarsi alle emozioni, coltivare le amicizie, vivere in un mondo migliore». Insomma, un ragazzo allegro e impegnato, che esprimeva integralmente le istanze di rinnovamento sociale tipiche della sua generazione.

La guerra di mafia
Negli anni Settanta una spietata guerra di mafia insanguinò la provincia di Reggio Calabria, dopo l’erogazione di un enorme flusso di denaro pubblico, finalizzato alla costruzione di alcune industrie fittizie, come il ¬Quinto centro siderurgico di Gioia Tauro e la Liquilchimica di Saline Joniche. Il primo non fu mai costruito, nonostante l’espropriazione di molti terreni nel comune di Eranova, acquistati in precedenza a basso prezzo dalle principali cosche locali, che furono così lautamente indennizzate. La seconda, esempio tipico di “cattedrale nel deserto”, non è mai entrata in funzione e deturpa ancora oggi il suggestivo scenario del litorale ionico reggino.
La morte di Vinci, tuttavia, non è stata vana. Sulla scia dello sdegno popolare seguito alla sua uccisione, si è sviluppato per diversi anni nel Reggino un vigoroso movimento antimafia (che ha anticipato di un quarantennio quello odierno dei “ragazzi di Locri”, seguito all’omicidio di Francesco Fortugno), ottenendo anche qualche apprezzabile risultato: la prima grande manifestazione giovanile contro la ’Ndrangheta, svoltasi per commemorare il giovane militante comunista; la nascita della prima associazione antiracket d’Italia (l’Associazione commercianti imprenditori professionisti artigiani di Cittanova); la costituzione a Rosarno di due cooperative di giovani; le lotte contro la centrale a carbone di Gioia Tauro, voluta fortemente dalla mafia, che culminarono nel 1985 in un referendum popolare con cui se ne impedì la costruzione.
Negli anni seguenti, a dire il vero, il movimento attraversò una lunga fase di riflusso e le cosche ripresero pienamente il controllo del territorio. A partire dal 2004, tuttavia, l’impegno contro la ’ndrangheta sembra essere rinato: sui terreni confiscati alla cosca dei Piromalli, infatti, è sorta la Cooperativa sociale “Valle del Marro”. E negli ultimi due anni l’Associazione antiracket “Libera” ha organizzato, su altri terreni sequestrati ai clan, alcuni campi di lavoro, uno dei quali è stato dedicato proprio a Ciccio Vinci.

Rocco Gatto, caparbio mugnaio
L’altra triste vicenda di cui si parla ne Il sangue dei giusti concerne la morte del mugnaio Rocco Gatto, ucciso dagli ’ndranghetisti a Gioiosa Jonica (anch’esso paese della provincia di Reggio Calabria) il 12 marzo del 1977.
Gatto, militante di base del Partito comunista italiano, si oppose fieramente alla tracotanza dei criminali della Locride, che era allora infestata dai clan più sanguinari della “piovra” reggina: i Macrì, i Mazzarella, gli Ursini. Questi ultimi costituivano la “’ndrina” predominante a Gioiosa Jonica e avevano costruito la loro fortuna grazie «all’abigeato, alle guardanie, al pascolo abusivo»; in seguito, erano anche entrati attivamente «nel business delle sigarette e nel nuovo affare della droga».
Gatto fu il primo tra i paesani a rifiutarsi di pagare “il pizzo” agli Ursini. Il suo mulino, pertanto, fu oggetto di sabotaggi e furti, culminati nella sottrazione di un campionario di orologi di valore, che il mugnaio collezionava e riparava nel suo laboratorio domestico.
Rocco contrattò la restituzione del maltolto, ma, essendogli stata resa solo una parte della refurtiva, si rifiutò di pagare il riscatto pattuito. Questo suo gesto spinse i criminali a passare alle vie di fatto: il 26 dicembre 1974 il mulino dei Gatto venne dato alle fiamme, nottetempo, provocando ingenti danni.
Rocco, però, non si piegò alle minacce e, anzi, intensificò la sua battaglia, collaborando attivamente alle indagini condotte dal capitano dei carabinieri di Gioiosa Jonica, Gennaro Niglio, inflessibile nel perseguire i criminali. Il mugnaio reggino rilasciò persino un’intervista alla Rai, nel gennaio del ’76, durante la quale asserì con decisione: «Non pagherò mai la mazzetta, lotterò fino alla morte».

Una sentenza controversa
L’assassinio di Rocco non tardò ad arrivare, anche se non fu dovuto al mancato pagamento del riscatto, ma ad altri drammatici eventi.
Nel novembre del 1976 il capoclan Vincenzo Ursini, da anni latitante, venne ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Il clan reagì con un grave atto intimidatorio, estremamente eclatante: impose ai compaesani un giorno di “lutto cittadino”, facendo sgomberare con la forza il mercatino che si teneva ogni domenica a Gioiosa Jonica, in piazza Vittorio Veneto.
Il capitano Niglio, incaricato di svolgere le indagini sul “raid” al mercato, cozzò all’inizio contro il solito “muro di gomma” eretto dall’omertà dei collusi e dalla paura della gente perbene. Qualcuno dei commercianti, a dire il vero, ammise di aver ricevuto minacce da sconosciuti giovinastri, senza tuttavia indicarne le generalità. Rocco, però, vide tutto e denunciò i responsabili di quanto era accaduto. L’11 gennaio 1977 si recò nella caserma dei carabinieri per firmare il verbale di accusa: sottoscrivendolo firmò, purtroppo, anche la sua condanna a morte.
Da quel giorno, infatti, gli ’ndranghetisti, ritenendosi seriamente minacciati dalla sua denunzia, iniziarono a trattarlo «con aria sprezzante». Appena due mesi dopo, mentre stava percorrendo all’alba la strada provinciale verso Roccella Jonica, il mugnaio venne fulminato da due scariche di lupara.
Le indagini non riuscirono a provare la colpevolezza dei presunti assassini, nonostante le testimonianze dei familiari di Rocco, che raccontarono la lunga sequela di intimidazioni ricevute. I due principali indiziati (Mario Simonetta e Luigi Ursini), infatti, furono assolti dall’accusa di omicidio, sia nel primo grado del processo che nei gradi successivi.
La Corte d’assise di Locri, tuttavia, condannò i due imputati «per le estorsioni, per le minacce, per i danneggiamenti e gli incendi», anche se, grazie a successivi condoni e riduzioni di pena, essi scontarono solo pochi anni di galera.

Assumersi le proprie responsabilità
Careri, Chirico e Magro ne Il sangue dei giusti non parlano solo delle vicende di Gatto e di Vinci, ma ricordano anche altri intrepidi protagonisti della lotta contro la ’ndrangheta. Da Giuseppe Valarioti a Giannino Lo Sardo, dirigenti comunisti uccisi dalla mafia calabrese nel giugno del 1980. Da Peppino Lavorato a Francesco Modafferi, sindaci sempre in trincea contro le cosche, il primo a Rosarno, il secondo a Gioiosa Jonica. Da Natale Bianchi a Pino De Masi, sacerdoti che, pur in tempi diversi, hanno contribuito a costruire il movimento cooperativistico in provincia di Reggio, sottraendo alla mafia potenziali affiliati tra i giovani.
Nel libro si fa menzione anche dei cinque anarchici calabresi (Gianni Aricò, Annalise Borth, Angelo Casile, Luigi Lo Celso e Franco Scordo), che perirono in circostanze misteriose il 26 settembre del 1970, mentre si stavano recando a Roma, forse a consegnare un dossier sui rapporti fra l’eversione neofascista e la criminalità organizzata (la tragica vicenda è stata minuziosamente ricostruita da Fabio Cuzzola nel saggio Cinque anarchici del Sud, Città del Sole Edizioni).
E un riferimento c’è pure a Peppino Impastato, il militante di Democrazia Proletaria ucciso nel maggio del ’78 a Cinisi dalla mafia siciliana, altro personaggio-simbolo della lotta nel Meridione contro la criminalità organizzata.
La parte finale del saggio riporta un’intervista a don Luigi Ciotti, nella quale il promotore di “Libera” spiega le ragioni che lo hanno spinto a impegnarsi a fondo contro la criminalità organizzata. Don Ciotti mette in evidenza il ruolo assunto dalla ’Ndrangheta nel contesto internazionale, sottolineando che «la sfida culturale in Calabria è sconfiggere la rassegnazione, ma anche certe forme di attendismo che possono diventare arroganza dell’attesa».
I cittadini meridionali, dunque, non devono accontentarsi semplicemente di lanciare appelli allo Stato affinché intervenga contro la criminalità, ma devono anche assumersi le loro responsabilità, contrastando il fenomeno mafioso come hanno fatto Rocco Gatto, Ciccio Vinci e gli altri giusti che si sono battuti in difesa della legalità e dei diritti personali.

Giuseppe Licandro (direfarescrivere, anno IV, n. 26, febbraio 2008)
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