Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
La recensione libraria
L’egemonia statunitense ad un bivio.
Come si gestisce il potere nel sistema
globale e la supremazia: in tre ipotesi
Il concetto di “potenza” e i suoi svariati equilibri
nella riflessione su chi guida le sorti del mondo
di Giorgia Martino
Citando alcuni modi di dire: se “il mondo è bello perché è vario” è anche vero che c’è sempre chi ha “il coltello dalla parte del manico”. Ed è proprio su questo che si basa la riflessione di Barry Buzan, nel suo volume Il gioco delle potenze (Presentazione di Angelo Panebianco, Università Bocconi Editore, pp. XXV-317, € 24,00). L’autore, docente di Relazioni internazionali alla London School of Economics, affronta in modo completo e diacronicamente approfondito la questione della cosiddetta “teoria della polarità”, ovvero dell’evidente presenza costante di poli di potere che “conducono” il mondo.
Il numero di questi punti di riferimento è sempre cambiato nel corso della storia, e si rifà all’ormai usurato concetto di “potenza” che nel tempo si è trasformato per l’aumento di tali stati-cardine.

Criteri per definire chi detiene il potere
Ma quando uno stato può definirsi un polo? Le denominazioni classiche di “grande potenza” fotografano il campo cercando dei criteri da soddisfare per farvi rientrare determinati territori anziché altri e prendendo come riferimento le maggiori teorie della letteratura politologica in questione, Buzan presenta «due filoni chiari rispetto al tentativo di formulare i criteri utili alla distinzione tra le grandi potenze e gli altri stati del sistema: le capacità materiali e il ruolo sociale». Non sono trascurati, dunque, nomi di studiosi come Kenneth Waltz che, in base al criterio neorealista, fa sedere al tavolo dei potenti quei paesi che eccellono soprattutto nel campo economico, militare e territoriale. E si menziona, per ovvie ragioni di equilibrio, la visione di Hedley Bull, che «ha una deriva materialista, ma si occupa maggiormente dei ruoli assunti nel sistema internazionale, che derivano da una costruzione sociale»: in base a quest’ultima prospettiva, una grande potenza è rappresentata da quei paesi che “gestiscono” i rapporti internazionali e a cui è riconosciuto formalmente questo status.
Buzan sintetizza entrambe le correnti presentandole come mutuamente non esclusive per circoscrivere il concetto di attuale interesse. E c’è di più. Sostiene, infatti, che il panorama mondiale di oggi sia troppo complesso, riguardo la diffusione caleidoscopica del potere, per pensare di suddividerlo nettamente in subordinati e subordinanti. Si può dunque ancora pensare in termini di “polarità semplice”? Le sfumature ricercate dall’autore, con questo intento, vanno a «proporre criteri che definiscono un sistema a tre livelli: superpotenze e grandi potenze a livello del sistema, e potenze regionali a livello regionale». Se le prime sono rappresentate da quegli stati che hanno già un forte impatto economico, militare e politico su scala mondiale, le seconde sono quelle che potrebbero diventare superpotenza in un futuro più o meno vicino. Queste, d’altro canto, esercitano comunque una certa influenza a livello prevalentemente locale.

Fotografia del presente… e del domani
Se questa è la suddivisione accettata da Buzan, qual è la situazione attuale? Dopo un accurato excursus storico sulla ripartizione di potere a partire dal XIX secolo, l’autore inquadra il contesto presente identificando negli Usa la superpotenza; le grandi potenze in Unione Europea, Cina, Giappone e Russia; le potenze regionali in quelle che «determinano la polarità di un qualunque complesso di sicurezza regionale», come «l’India e il Pakistan nell’Asia Meridionale; il Sudafrica nell’Africa Meridionale; l’Iran, l’Iraq e l’Arabia Saudita nel Golfo; l’Egitto, Israele e la Siria nel Levante, e così via».
Non limitandosi all’ordine vigente, l’autore avanza anche ipotesi sull’evoluzione dell’equilibrio sistemico di un mondo in cui, quasi seguendo una logica osmotica, quanto più potere si concentra nelle mani di pochi, meno grandi potenze vi sono a vantaggio delle superpotenze: se la quantità è la stessa deve evidentemente mutare la logica di distribuzione!
Quindi, cosa potrebbe accadere nell’avvenire? La situazione rimarrà identica a quella attuale, contando una superpotenza che convive con quattro grandi potenze? O piuttosto una delle grandi potenze salirà sul posto più alto del podio portando l’unipolarità ad una condizione di bipolarità? O ancora avranno ragione le teorie decliniste e saranno gli Usa a scendere di livello, incamerandosi in un mondo decentralizzato e bilanciato fra varie grandi potenze e nessuna superpotenza?
Ad ognuna di queste tre ipotesi l’autore dedica un capitolo, disegnando accanto agli scenari anche l’eventuale evolversi, in un senso anziché in un altro, dei rapporti tra i territori di riferimento.

Se il cambiamento ritorna sulla stessa strada
Nel primo caso, se la situazione dovesse rimanere la stessa, quanto il neorealista Waltz potrebbe veder confermata la propria teoria sull’equilibrio di potenza? Quest’ultima sostiene che l’unipolarità non può essere una condizione duratura in quanto, per una questione di equilibrio, quando uno stato monopolizza il potere nelle proprie mani, a lungo andare, si crea un’unione fra altri territori che cercherà di controbilanciare tale egemonia, che perderebbe il predominio totale.
In base a tale convinzione, gli Usa come unipolo potrebbero avere i giorni contati, anche e soprattutto perché, attraverso la loro politica aggressiva degli ultimi anni, rischiano di esasperare questa disparità di potere. Buzan non dimentica di ricordare come le teorie neorealiste (riguardo le tendenze dell’unipolo a fare di tutto per mantenere le distanze da accordi multilaterali che possano imbrigliarne libertà e libertinaggi, e a rimarcare costantemente la propria superiorità militare ed economica) abbiano trovato ultimamente riscontro nella politica attuata dall’amministrazione Bush.
Tuttavia l’unipolarità statunitense è in piedi da quasi venti anni, senza che l’equilibrio di potenza, di cui parla Waltz, si sia ancora manifestato. Perché? Le risposte addotte dall’autore sottolineano l’isolazionismo geografico degli Usa, che dunque esclude, per questioni di vicinanza, una rivalità diretta con le altre grandi potenze. Queste queste ultime, poi, essendo tutte concentrate nella zona eurasiatica, possono entrare in competizione soprattutto tra loro invece che con il soggetto transoceanico, il quale è per di più insediato, tramite basi militari e accordi vari, in Europa, Asia e Sud America, alimentando il supporto che in questo modo inevitabilmente riceve anche dalle potenze regionali di tali aree.

Possibilità di un concorrente sul podio
E se ci fosse una seconda superpotenza, quale potrebbe essere? A questo punto si dispiega, davanti ai nostri sguardi sul futuro, la seconda ipotesi: il bipolarismo. Situazione già affrontata con la Guerra fredda, ma che al giorno d’oggi sarebbe caratterizzata da una minore contrapposizione di ideali, vista la crescente diffusione del liberalismo a carattere democratico. Le migliori candidate per affiancare gli Stati Uniti sono, tra le grandi potenze attuali, l’Unione Europea (nonostante il suo non essere uno stato, il suo non avere una personalità giuridica de facto e il suo essere più una potenza civile che militare) e la Cina (ricca economicamente e militarmente, oltre ad avere il riconoscimento formale da parte del mondo intero).
Questo mutamento di sistema, secondo Buzan, cambierebbe di molto l’atteggiamento americano nei confronti del distacco che mantiene rispetto agli altri territori, infatti, nei sistemi «che contengono più di una superpotenza, il vero motivo per cui le grandi potenze possono acquistare rilevanza è la loro capacità di spostare gli equilibri tra le superpotenze». Questo vuol dire che gli Usa non avrebbero più nulla da perdere, pure nel caso in cui la rivale fosse l’amica Unione Europea, ed entrambe le superpotenze in questione «potrebbero anche essere spinte al multilateralismo, seguendo l’approccio strategico che gli USA adottarono durante la guerra fredda […] per sviluppare e mantenere un fronte comune».

Eventuale decentramento
L’ultimo scenario mondiale valutato dall’autore riguarda una struttura senza superpotenze, e caratterizzata da varie grandi potenze che si “dividono” il pianeta. Come si potrebbe arrivare a ciò? L’immagine degli Stati Uniti che dirigono l’orchestra mondiale, con più o meno stonature e armonie, è così radicata nell’immaginario collettivo che ci sembra quasi impossibile immaginare il globo terrestre senza il minimo timbro a stelle e a strisce! Eppure, anche in questo caso, «vi sono due vie per arrivare a questa situazione – una materialista, l’altra sociale». In base al primo modello, «gli USA perderebbero costantemente il potere economico, militare e ideologico relativamente al resto del mondo, […] e relativamente alle grandi potenze […]. A un certo punto la loro quota del PNL globale risulterebbe troppo contenuta per consentirgli di continuare a svolgere il ruolo di unica superpotenza». Il secondo modello vede invece gli Stati Uniti perdere la loro capacità di guidare il mondo, anche perché potrebbero non essere più considerati capaci di ciò dal resto del mondo stesso. Infatti, con la loro aggressività nel mettere in atto politiche estere presso stati come Cuba, Iran e Iraq, con il loro eccessivo rivendicare diritti speciali in nome di una sovranità che da qualche anno a questa parte sembra essere più scontata che raggiunta, e con il loro «allontanamento dai valori nazionali fondamentali che stanno alla base della società internazionale», rischiano di perdere quel consenso che per la seconda metà del secolo scorso li ha distinti.

Potere raggiunto o preteso?
A tale cambio di rotta da parte della politica estera statunitense è dedicata la terza parte del volume, che analizza le caratteristiche storiche, religiose e di forma mentis sociale che portano l’attuale polo mondiale a pretendere in nome di ideali presentati come assoluti, senza prestare attenzione alle differenze che dovremmo imparare ad amare anziché temere fino alla distruzione. Esplicativo e lineare, semplice nel far comprendere e sfaccettato nella sua completezza, il libro di Buzan è un’approfondita analisi di tanti punti della storia che, col suo divenire, non potrà mai renderli fermi. Piuttosto si tratta di una danza di punti interrogativi di fronte alle domande,che inevitabilmente ci si pone, ma che spesso adombriamo con una rassegnazione data dall’essere del tutto assuefatti ad un mondo le cui redini sono nelle mani di chi pensa e agisce e decide… purtroppo anche per noi. Perché non dimentichiamo che il risultato di tutti gli scenari menzionati non muta il destino delle zone ritenute senza voce in capitolo, in cui le mire “protettrici” si riconducono a banali quanto squallidi interessi economici.E laddove non ci sono questi ultimi, laddove c’è più bisogno di aiuto per risanare situazioni quasi sempre ammorbate proprio da chi ora è più prospero per essersene servito, si andrà avanti con l’esecrabile diritto di “potersene dimenticare”.

Giorgia Martino

(direfarescrivere, anno III, n. 22, ottobre 2007)
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