Le trasformazioni sostanziali e le operazioni di facciata del regime fascista sono al centro di un libro di Paolo Varvaro, docente di Storia contemporanea e di Storia economica presso l’Università “Federico II” di Napoli: il titolo è Sul fascismo. Il pregiudizio antiliberale nella costruzione del regime totalitario (Rubbettino, pp. 108, € 10,00), e fa parte della collana Tra politica e finanza, diretta dallo stesso Varvaro insieme a Nicola De Ianni. L’opera si divide in quattro brevi capitoli di agevole lettura. L’autore cita molti documenti contenuti in opere di Emilio Gentile (a proposito de Le origini dell’ideologia fascista, Laterza, Varvaro precisa «nell’edizione del 1975») e in alcuni importanti studi, tra i quali segnaliamo L’organizzazione dello Stato totalitario di Alberto Acquarone (pubblicato da Einaudi nel 1965, ripubblicato recentemente, ma qui citato nell’edizione del 1978), da cui sono tratti brani di discorsi, e articoli di giornali, di epoca fascista.
Il tentativo fascista di rompere con l’Età liberale
Secondo la tesi dell’autore tra i fattori fondativi del fascismo ci sarebbe la condanna dell’Età liberale come affermazione di discontinuità. Lo stesso Mussolini aveva del resto affermato: «Non abbiamo nostalgia per quel tempo, per quegli uomini, per quegli avvenimenti, per quelle dottrine, poiché noi abbiamo bruciato i nostri bastimenti alle nostre spalle». Per verificare l’attendibilità di tale ipotesi, Varvaro individua i tre momenti del processo legislativo che giunge fino all’inizio degli anni Trenta. Un primo tentativo di riforma costituzionale in due fasi (1924 e 1925) è dato dall’istituzione di due successive commissioni di esperti – quella dei “Quindici”, detta anche dei “Soloni”, e quella dei “Diciotto” – e rispecchia la volontà di liberarsi dello Statuto Albertino. Un secondo tentativo è rappresentato dalle cosiddette leggi «fascistissime» che, a partire dal 1925, neutralizzano le garanzie giuridiche del diritto liberale, saltando completamente la “tappa” della revisione costituzionale. L’ultimo tentativo, infine, è la proposta del corporativismo – dall’autore definito «un miraggio» dell’epoca – con la quale termina il periodo delle riforme istituzionali e si va verso un nuovo scenario istituzionale che non sarà, però, realizzato compiutamente.
Gli atti illegali (o legali?) del regime
Si affermò presto, tra i giuristi favorevoli al regime, l’idea di “scavalcare” la questione della revisione costituzionale, basandosi sulla considerazione che non esistesse una gerarchia di ordine giuridico tra legge e costituzione. Piuttosto che ricercare il punto di rottura oltre il quale si affermò lo stato totalitario, per Varvaro è utile soffermarsi su alcuni punti circoscritti, quali il provvedimento, del 1925, relativo alle prerogative del capo del governo, e quello, del 1926, riguardante le facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche. In questa fase Alfredo Rocco, ministro della Giustizia, assunse un ruolo di primo piano. La tesi di Varvaro è che la dittatura si insediò per via legale (riporta, a questo proposito, la considerazione di Benedetto Croce secondo il quale «tutti gli atti del fascismo furono illegali e tutti furono legali»). I futuri codici “Rocco” nacquero in seguito alla presentazione alla Camera di un disegno di legge che emendasse il codice penale e quello di procedura penale. Come ebbe a concludere lo stesso Rocco in Parlamento: «Il presente disegno di legge […], mentre rende omaggio alla separazione dei poteri […], riconosce altresì il principio della unità dello Stato e la posizione che fra i suoi organi spetta al potere esecutivo…».
Il vero dissenso venne dai fascisti stessi?
Gli anni Trenta, mette in evidenza l’autore, furono attraversati da una delusione dettata da questa considerazione: sebbene il fascismo fosse stato in grado di appropriarsi di tutti i settori fondamentali della società e della politica, e fosse dunque nella posizione ottimale per conseguire gli obbiettivi perseguiti, si mostrava incapace, però, di mettere in moto una volontà di trasformazione radicale. La forma vera di dissenso, questa la proposta azzardata da Varvaro, fu proprio l’inquietudine nata da tale disillusione, che sotto l’aspetto di ius mormorandi si contrapponeva alla propaganda: «Negli anni del consenso il vero dissenso era espresso proprio dai fascisti [sic], per lo meno dalla loro componente più consapevole; dalle teste pensanti». Figura centrale in quel momento fu Giuseppe Bottai, dirigente politico, teorico dell’idea corporativa e poi abile organizzatore culturale. Bottai era interessato al problema giovanile nei termini della formazione di una classe dirigente che non fosse ripetitrice obbediente delle parole d’ordine della propaganda. Interessante a questo proposito anche la riflessione di Federico Maria Pacces su Critica fascista, che proprio parlando dei giovani esclamò: «Vogliono far sul serio. Vogliono le Corporazioni come realtà operante ed efficiente. Vogliono rifar daccapo lo Statuto Albertino […]. Vogliono rivedere le Carte del Lavoro. Vogliono andare, decisamente, verso il popolo».
La visibilità dello Stato nel Ventennio
Nel quarto e ultimo capitolo, Varvaro pone la relazione tra una ben visibile architettura urbana e una produzione, disaggregata, di norme e proibizioni. Il quartiere dell’Eur costituisce, allora, la testimonianza del tentativo di dare vita a una città fascista all’interno di Roma, città capitale, che rimarcasse «il consolidamento di una dittatura che, dopo aver trasformato le istituzioni, dava volto proprio alla città». Il Ventennio fu, da questo punto di vista, un periodo roseo per gli architetti: tra il 1926 e il 1942 in Italia vennero banditi oltre 180 concorsi per il piano regolatore di città grandi e piccole. L’autore pone, poi, una distinzione tra due modalità di costruzioni. Se la città espositiva ebbe il compito di dare una legittimità storica al regime, la costruzione di città nuove corrispondeva, invece, ad esigenze interne dell’Italia fascista. Nel primo caso si affermò, pertanto, la soluzione monumentalista, nel secondo il principio del funzionalismo. Secondo Varvaro, però, la stessa «redenzione dell’agro pontino» non ebbe che «scarse ricadute sul piano sostanziale», finendo, invece, per suggestionare, e molto, la fantasia popolare.
Bonaventura Scalercio
(direfarescrivere, anno III, n. 17, 1 luglio 2007) |