Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
La recensione libraria
Cosa fanno e cosa “provano” durante
le loro missioni i peacekeepers Onu:
Andrea Angeli racconta con passione
Le vicende vissute di un funzionario Onu narrate
in un intenso diario: Cile, Namibia, Balcani, Iraq
di Deborah Muscaritolo
«Tanti amici e conoscenti mi hanno chiesto se avessi mai tenuto un diario. Non ce n’è stato bisogno: la maggioranza degli episodi, per intensità e spessore storico, difficilmente li potrò rimuovere dalla memoria». Nell’Introduzione al suo libro, Professione peacekeeper. Da Sarajevo a Nassiriyah, storie in prima linea (Rubbettino, pp. 350, € 12,00), Andrea Angeli descrive con queste parole la propria esperienza di funzionario Onu. Una professione difficile, singolare, ma altrettanto interessante, che incuriosisce tanti giovani. È proprio a loro, che spesso non possiedono molte informazioni in merito, che l’autore si rivolge e vuole “raccontare” il mestiere di peacekeeper. Angeli, infatti, da vent’anni al servizio dell’Onu, è stato a stretto contatto con militari, politici, giornalisti e popolazioni locali in zone di guerra o sferzate da forti tensioni, partecipando alle missioni di pace più famose: Cile, Namibia, Cambogia, Balcani e Iraq.

Dal Cile alla Namibia
L’autore compie la sua prima missione nel Cile di Pinochet. Vi giunge nel 1987 ed in clima di pieno fervore politico (nel 1988 si svolse il referendum indetto dal dittatore per la sua permanenza al governo) viene «introdotto nel grande circo degli inviati» entrando poi in contatto con alcuni dei maggiori esponenti della politica italiana.
Gli incarichi all’Onu, tuttavia, hanno una scadenza spesso molto breve: Angeli infatti, due anni dopo, viene trasferito a Bagdad, ma solo per pochi mesi. Nel giugno del 1989 «del tutto inaspettatamente, giunse da New York un telex. […] Prendere o lasciare, due ore per decidere, partenza immediata»: destinazione Namibia. Dopo ventitré anni di guerra e di occupazione stavano per svolgersi le elezioni per decretarne l’indipendenza. Il giorno seguente è già all’headquarter della capitale Windhoek e quarantotto ore dopo si trova a Opuwo, che «non è solo il lembo estremo del nord-ovest, ma anche il territorio più selvaggio, abitato dalla popolazione primitiva degli himba».
La missione non si presenta come una delle più semplici: spostarsi ogni giorno da un villaggio sperduto a un altro su percorsi non agevoli, con il continuo rischio di perdersi o di danneggiare l’auto a causa del terreno, così come montare ogni volta una tenda o dormire in macchina in condizioni igieniche appena sufficienti non è una passeggiata. Ma questo è ciò che può comportare la professione di peacekeeper e per Angeli la soddisfazione di aver contribuito alla pace in Namibia è il compenso dei sacrifici affrontati.

In Cambogia, passando per New York
Nell’aprile del 1990 l’autore si ritrova, ancora una volta all’improvviso, al Palazzo di Vetro di New York con l’incarico di «liaison officer, nell’ufficio del rappresentante personale del segretario generale per i problemi del debito estero dei Paesi in via di sviluppo. […] L’attività era la più varia» dice Angeli e «ogni giorno faceva storia a sé, poteva capitare di tutto». Ma questa volta si tratta di lavorare negli uffici newyorkesi dell’Onu, sempre a contatto con persone di spicco dell’organizzazione internazionale, della politica italiana e straniera. La vita è brillante, fatta di agi, ma poco prima del termine del mandato, Angeli decide di tornare in missione e chiede di poter seguire un contingente di caschi blu: richiesta accolta, viene così inviato in Cambogia.
Dopo anni di dittatura e di invasioni, in seguito alle negoziazioni con le Nazioni unite, era stato raggiunto un accordo che consentiva la smobilitazione delle forze armate e il ritorno in patria di migliaia di rifugiati. Come in Namibia, anche in Cambogia l’incarico è quello di effettuare le registrazioni per la campagna elettorale ed anche in questo caso, nonostante i buoni rapporti con la popolazione locale e lo splendido paesaggio, le condizioni igieniche non sono delle migliori, tanto che il funzionario Onu si ammala di epatite virale. Dopo essersi ripreso però riesce a portare a termine la missione.

Verso i Balcani
È il 1993. Dopo alcuni giorni di vacanza, che il peacekeeper raramente può concedersi persino in occasione delle festività, l’autore ritrova, al ritorno in Italia, un fax con la chiamata per una nuova spedizione: destinazione Balcani. Angeli, a cui non manca una propensione per l’avventura, accetta immediatamente, anche se rivela: «[…] Dopo un anno di giungle e Mekong credevo di aver visto ormai tutto. Niente di più sbagliato».
E ancor prima di arrivare in Bosnia si rende conto dei momenti difficili che dovrà affrontare. Appena giunto nella ex Jugoslavia vede intorno sé i segni della guerra: «Traffico commerciale e privato pressoché zero, carcasse di mezzi di ogni tipo crivellate da colpi o bruciate; si doveva fare lo slalom tra i crateri scavati da ordigni esplosi in chissà quale battaglia del ’91 tra serbi e croati. […] Una devastazione pressoché totale, scene che si dovrebbero vedere solo al cinema». Inoltre, superare i posti di blocco occupati da militari con fare sospetto non è cosa da poco.
Sarajevo è una città semideserta, per la strada si sparano ancora colpi di mortaio, soprattutto in alcuni punti lungo i quali i cecchini rimangono appostati, gli spostamenti sono sempre ad alto rischio. A ciò sono da aggiungere i pericoli di sequestro, a cui lo stesso autore viene soggetto, i rigidi inverni e le difficoltà di collegamento con i paesi stranieri.
È in questo luogo devastato da una guerra non ancora conclusa che Angeli continua la professione di peacekeeper con l’incarico di press officer. Dopo Sarajevo è la volta di Zagabria, dove la situazione solo in apparenza è più tranquilla, poi di Spalato.
Per anni il funzionario Onu sarà il punto di riferimento di giornalisti, politici e connazionali in difficoltà. Fornisce notizie dettagliate agli inviati, organizza per loro dislocazioni, interviste, e riesce a mettere in piedi collegamenti improvvisati con i telegiornali italiani in particolari momenti di tensione. Non si nega mai ad una richiesta d’aiuto. Stringe ottime amicizie con i soldati italiani e insieme affrontano situazioni rischiose. Nel suo racconto, Angeli non manca di affrontare la questione delle potenzialità militari italiane, sulle quali, oltre che sul loro dispiegamento in prima linea, erano stati avanzati dei dubbi. Molti soldati italiani, riferisce egli stesso, hanno mostrato il proprio coraggio e la propria professionalità in più occasioni, anche in situazioni particolarmente drammatiche.

Dall’Albania al Kosovo
Dopo cinque anni trascorsi in Bosnia, nel 1998, giunge la notizia del trasferimento a Tirana, zona che, ancora una volta, dal punto di vista della sicurezza lasciava a desiderare. Con l’accrescersi delle tensioni in Kosovo arriva la chiamata per un nuovo incarico nella regione: è l’agosto del 1999. Pur essendo un territorio di piccole dimensioni vi è una grande confusione, sia dal punto di vista organizzativo che logistico. Le condizioni di vita sono estremamente disagiate, e «le difficoltà di ricostruire una società multietnica apparivano maggiori».
Le rappresaglie e gli incidenti interetnici si susseguono per anni: uccisioni e ferimenti di serbi, albanesi e kosovari sono gli episodi più frequenti di cui l’autore si deve occupare. In merito al mandato egli scrive: «Per una serie di ragioni, normalmente le missioni di pace hanno un proprio calendario, un percorso con via d’uscita. Sono tipiche le turbolenze iniziali, destinate a calare progressivamente. I Balcani fanno eccezione. La dimensione del tempo sembra essere diversa da quelle parti. Così è stato con la spedizione bosniaca, idem in Kosovo». Infatti nel 2003 Angeli lascia il Kosovo «con un senso di frustrazione e la consapevolezza di non aver raggiunto gli obbiettivi della missione, unitamente a tanta incertezza circa la sorte della regione». Ed ancora una volta il funzionario Onu deve organizzare una partenza in fretta e furia: è necessario raggiungere Nassiriyah il prossima possibile. È il 6 ottobre 2003.

L’esperienza drammatica di Nassiriyah
Giunto nella città irachena il peacekeeper viene alloggiato in una tenda pneumatica all’interno della base dell’aeronautica italiana: per i civili sono previste sistemazioni in uffici o in basi militari, non più in abitazioni affittate dalla popolazione locale. Cosa che ostacola il rapporto con gli abitanti, così come la regola di viaggiare scortati, a cui però Angeli riesce a non sottostare, che causa anche la diminuzione delle uscite e, di conseguenza, la conoscenza del paese. È permesso anche il porto d’armi ai civili, ma ancora una volta l’autore rifiuta. Tuttavia l’area militare italiana è molto gradevole: pulita, curata, ben gestita e luogo in cui si conversa in libertà. A Nassiriyah Angeli incontra anche molti militari già conosciuti durante le missioni precedenti: in casi come questi si stringono forti legami di amicizia.
L’autore si prepara immediatamente a svolgere il proprio incarico di press officer e presenzia inoltre alle operazioni di assistenza e ricostruzione, che però nota essere molto rallentate.
Il 12 novembre 2003, «il finimondo»: Angeli è testimone dell’attacco ad uno dei due edifici, in zona centrale di Nassiriyah, in cui si trova la base italiana dei carabinieri. Diciannove militari italiani perdono la vita a causa dell’esplosione. L’autore, pur nella drammaticità della situazione, tra feriti, caos, preoccupazione per la salute di colleghi e amici, mantiene il sangue freddo e si appresta a comunicare, con tutte le attenzioni del caso, alle redazioni e ai giornalisti di sua conoscenza la notizia dell’attentato e fa il possibile per aiutarli a diffonderla tramite telegiornali, interviste ecc...
«Una tragedia di tali dimensioni non era mai avvenuta negli interventi più recenti delle forze armate italiane». Nonostante il dolore per la perdita di colleghi e la paura di altri attentati, nei giorni seguenti il contingente italiano rimane compatto. Lo stesso funzionario, nonostante la tensione, continua a svolgere il proprio incarico con professionalità. Ma in seguito ad altri attacchi e stragi sfiorate, la situazione si fa sempre più pericolosa, il problema della sicurezza diventa sempre più spinoso e per Angeli arriva il momento dell’evacuazione immediata e del ritorno in patria.
All’autore il merito di aver trasferito, in maniera dettagliata, semplice e chiara, la propria esperienza di peacekeeper in un libro che non è solo autobiografia, ma resoconto di eventi di guerra e operazioni di pace per porre loro una fine.

Deborah Muscaritolo

(direfarescrivere, anno III, n. 14, aprile 2007)
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