La casa editrice 4 Punte si distingue per l’attenzione alla ricerca storica e l’interesse alla trasmissione della verità sugli anni del Fascismo, della Seconda guerra mondiale, e del Dopoguerra. Un periodo prescelto anche al fine di coltivare la memoria degli atti di resistenza ed esaminare il fenomeno del resistere come condizione esistenziale necessaria anche oggi per mantenere viva la possibilità della ribellione ai «soprusi del potere» di ogni tempo.
Tra i vari testi presenti in catalogo spicca Il carcere (4 Punte, pp. 152, € 10,00) di Cesare Pavese con un’interessante Introduzione di Carmelo Musumeci.
Pavese scrisse quest’opera a seguito del provvedimento di confino inflittogli dal regime fascista per aver protetto la compagna attiva nel Pci e per essere stato sospettato di frequentare intellettuali del movimento Giustizia e libertà cui aveva aderito anche l’amico Leone Ginzburg.
Prima della condanna e del confino scontato a Brancaleone Calabro tra l’agosto del 1935 e il marzo del 1936, Pavese subì il carcere a Le Nuove di Torino e al Regina Coeli di Roma.
Il carcere come metafora esistenziale
Il carcere diventa una lettura archetipica della condizione dell’uomo che non si riconosce libero. Non a caso, è inserita nella collana dei classici intitolata I Diamanti ed è un’opera che ben si colloca negli obiettivi prefissati dalla casa editrice 4 Punte. In particolare, risponde al progetto relativo all’hashtag #IlTrenoVersoSud, così nominato per restituire un ideale ritorno ai milioni di deportati diretti a Settentrione sui convogli piombati: «le storie di resistenti» sono come treni che ritornano, seguendo un binario in direzione opposta, onorando la memoria, per ricondurre la vita, i sogni, le speranze rubate alle loro case e per ricostituire una voce contro l’oblio.
Anche l’esperienza di Pavese fu vissuta come una deportazione senza ragione, come vediamo in una sua lettera alla sorella dell’8 giugno 1935, quando, dopo tre settimane di carcere scrive da Regina Coeli: «Io continuo ad ignorare di quale accusa si tratti, ma spero che ben presto saprò qualcosa» [1].
In questa prospettiva l’Introduzione di Musumeci è un vero preludio alla lettura del romanzo, costituisce una testimonianza biografica sul sentire della condizione di carcerato: la sua descrizione è attuale, è quella dell’uomo contemporaneo, ma la sofferenza provata attraversa le generazioni, ha un’eco universale nell’intento di mostrare come il dolore della perdita della libertà possa confinare anche il cielo «in un grande carcere che ci contiene tutti». Con questa immagine, Musumeci lancia una sfida al lettore che dovrà cercare nel testo di Pavese il proprio sentire. La lettura lo porrà di fronte a un bivio,: o riconoscersi nell’aderire all’attitudine dolente del “carcerato” che non vede via di uscita e sembra rinunciarvi, o costruirsi portatore di un dissenso, di una rivolta alla rappresentazione di un quotidiano vissuto solo come esperienza di esilio.
Il carcere e le finalità della scrittura in Pavese
Quale modalità narrativa propone Pavese per restituirci l’esperienza di cattività vissuta in prima persona e porci nella condizione di valutare la sofferenza della privazione della libertà?
Pavese sceglie il personaggio dell’ingegner Stefano il quale abita in una piccola stanza al piano terra, umida e non riscaldata che corrisponde alla descrizione della reale condizione vissuta dallo scrittore e ancora oggi visitabile a Brancaleone Calabro. Tuttavia, Stefano non assorbe la complessità dei sentimenti del suo autore. Pavese, nelle lettere alla sorella, osserva la gentilezza degli abitanti, mostra interesse al loro esprimersi, al loro linguaggio, comunica un’empatia che Stefano non trasmette al lettore.
La figura di Stefano infatti è volutamente spenta, ripiegata, l’oppressione dell’ingiustizia subita lo accompagna e lo isola. La sua volontà è quella di evitare una reale partecipazione al luogo dove si trova; gli uomini che frequenta all’osteria del paese hanno una sensibilità e una complicità che tendono a escluderlo da una sincera confidenza, e nella relazione amorosa con Elena si manifesta più forte la resistenza a conoscere l’altro con sentimenti aperti, con espressioni di affetto. Gli abitanti si rivolgono a lui come “l’ingegnere”, senza chiamarlo mai per nome.
È nella descrizione stessa dei comportamenti, nell’abilità dell’autore di descrivere un negazionismo esistenziale compatto, doloroso nel suo ripetersi, che il Pavese uomo denuncia l’ingiustizia del carcere subito per una violenza esercitata sull’uomo innocente.
Al contempo il Pavese scrittore cerca in Stefano un personaggio simbolo che travalichi il momento storico, e che risvegli una risposta esistenziale al sopruso di qualsiasi tirannia.
Il 24 aprile 1936 Pavese scrive: «È di una desolatezza tonificante – come un mattino invernale – patire un’ingiustizia. Ciò rimette in vigore, secondo i nostri più gelosi desideri, il fascino della vita; ridà il senso del nostro valore alle cose» [2].
Il 6 ottobre del 1935 a Brancaleone, inizia un diario che testimonia del suo impegno letterario, e come questo impregni il suo vivere quotidiano e lo metta in discussione.
Costruire lo stile adatto a restituire l'esperienza vissuta
A Brancaleone notiamo una febbrile ricerca del linguaggio, della forma appropriata a trasferire al lettore il senso del suo scrivere. Pavese è osservatore instancabile del paesaggio che lo circonda e dell’ambiente, cerca una verità da trasferire sulla pagina, lo stile adeguato a restituire l’esperienza vissuta nel piccolo paese sul mare. Al contempo si interroga sulle finalità dello scrittore, sull’esigenza di un’etica che non si accontenti di un testo soddisfacente sul profilo estetico o edonistico; l’autore arriva a denunciare il personale edonismo nel proprio vissuto (10 aprile 1936), a conferma del suo impegno esistenziale ed etico.
Su tale diario, il 15 marzo Pavese scriverà solo due parole: «Finito confino». Una frase che rivela sì il pudore del dolore, ma al contempo che l’orizzonte del poeta, come traspare nelle pagine successive, non ha nulla della mollezza emotiva di Stefano, ma è combattivo in un impegno che il confino non solo non ha indebolito, ma ha rafforzato, perché, come l’esperienza biblica del deserto, ha generato la ricerca a una vicinanza di rinascita e di liberazione.
La costruzione del personaggio di Stefano, pertanto, non è «un abbandono voluttuoso» a una desolazione emotiva che considera «gli stati d’animo quale scopo a se stessi», Pavese respinge apertamente questa condizione creativa quando si propone di «costruire in arte e costruire nella vita, bandire il voluttuoso dall’arte, come dalla vita, essere tragicamente» (20 aprile 1936).
Le ragioni del carattere dell’ingegnere si individuano in una volontà esplicita di narrare «il tragico» come ricerca letteraria, come forma, simbolo mutuato dalla cultura greca, per il definirsi di uno stile costitutivo del rapporto con il lettore e degli obiettivi della poetica di Pavese.
La miseria emotiva di Stefano è un monito, una condizione limite, che proprio perché narrata con il realismo di cui Pavese è maestro, è anche verità poetica. Una verità dura, che si ripercuote sul lettore, lo rende partecipe di un destino di sofferenza che non trova un sollievo, una prova radicalmente tragica cui Stefano sembra abbandonarsi senza ribellione. Davvero il dolore di una deportazione che non ha giustificazione alcuna diventa simbolo, risonanza mitica: questo l’intento di Pavese, ridurre l’esperienza vissuta a un nucleo di emotività originaria, primitiva e intuibile, contagiosa, perché l’ «esprimere in forma d’arte […] una tragedia interiore» suscita una risposta «catartica» (24 aprile 1936).
Pavese reclude Stefano a giornate prive di speranza, ma non abbandona il lettore perché il nichilismo di Stefano è narrato non come cronaca, ma come esperienza poetica e come un vissuto che Pavese offre al lettore perché sorga in lui il desiderio del riscatto.
Stefano si costituisce in una sorta di sospensione del tempo che certamente la dimensione del carcere già suggerisce, tuttavia, anche questo status temporale è codificato da Pavese negli scritti della maturità, come una condizione che catalizza la funzione della poetica, per ispirare l’uomo, il lettore, alla lotta, alla decisione e al suo determinarsi nella storia. I 15 anni del diario confermano questa volontà umile e costante di ricerca di un’attitudine “eroica” nello stile del narrare, eroica proprio per il rapporto di responsabilità che configura verso il lettore, mentre nella vita Pavese si rimprovera un riserbo, una rinuncia all’azione, che ancora una volta confermano la profondità del suo impegno sociale di scrittore.
Il “carcere” rinnova il bisogno di poesia per l’uomo
L’attenzione maniacale di Pavese all’ambiente, alla natura di Brancaleone, al contesto umano, ai dialoghi, al linguaggio (anche in forma dialettale), è funzionale alla creazione di una dimensione poetica che nella sua suggestione fa risuonare un invito, il desiderio di sollevare lo sguardo oltre un orizzonte che appariva chiuso. La risposta al dolore in Pavese è del tutto personale, è la sua ricerca di poter contagiare il lettore da un sentimento di fatalità di fronte all’ingiustizia costitutivo di una maturità consapevole, eroica nella sopportazione, per suscitare quindi una reazione, un riscatto che deve emergere dal lettore come contrappunto al racconto.
Pavese non risolve la narrazione con un finale che preluda a tempi nuovi, ma si mantiene fedele alla rappresentazione del personaggio di Stefano in un verismo simbolico dolente affinché emerga nei suoi lettori una voce, per maturare un sentimento di ribellione e conferire senso al vivere riscattando anche, forse, il dolore del poeta.
Marina Benvenuto
[1] Cesare Pavese, Lettere 1924-1944, a cura di Lorenzo Mondo, Einaudi, Torino, 1966, p. 385.
[2] Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950 con il taccuino segreto, Rizzoli, Segrate, 2021, p. 414.
(direfarescrivere, anno XIX, n. 207, aprile 2023) |