«Il teatro non è il paese della realtà: ci sono alberi di cartone, palazzi di tela, un cielo di cartapesta, diamanti di vetro, oro di carta stagnola, il rosso sulla guancia, un sole che esce da sotto terra. Ma è il paese del vero: ci sono cuori umani dietro le quinte, cuori umani nella sala, cuori umani sul palco». Le parole del grande scrittore francese Victor Hugo sono sicuramente le più adatte per aprire la recensione dell’opera ivi trattata, poiché il teatro è sicuramente il cuore pulsante di un testo come questo che è saggio e romanzo insieme.
Il teatro è passione e pulsione, è catarsi e rinascita, è empatia allo stato puro. Attraverso la finzione elargita dagli attori, infatti, il pubblico presente in sala è in grado di entrare in totale armonia con le vicende narrate e sentirle come proprie. La morte del protagonista suscita un grave senso di perdita nel cuore di ogni spettatore, costretto a subire passivamente le vicende raccontate sperando sempre in un lieto fine.
Da tutto ciò trae spunto lo scrittore Pierfranco Bruni che ci fa dono di un testo particolare, ma che saprà ammaliare per la vividezza della sua storia.
Con le sue labbra le suggella le labbra spiranti. Eleonora e Gabriele (Pellegrini editore, pp. 136, € 12,00) è un’originalissima narrazione che ha come scopo quello di offrire una nuova chiave di lettura sul rapporto sentimentale e non solo che intercorse tra l’attrice Eleonora Duse e il poeta e romanziere Gabriele D’Annunzio.
Due anime avvolte dalla bellezza dell’arte e dal peso di un’emotività portata all’esasperazione che si sono incontrate e scontrate tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, dando vita a una storia d’amore degna di essere ricordata nei secoli. Una storia tormentata, le cui criticità meritano di essere snocciolate e analizzate con la giusta cura.
Eleonora Duse, attrice e musa
Tutti gli amanti dei romanzi classici italiani conosceranno sicuramente le aspre vicende amorose di una delle attrici teatrali più importanti che calcò il palcoscenico nostrano. Eleonora Giulia Amalia Duse era nata nel 1858. La grandezza del suo lavoro teatrale è attestata dal soprannome che le venne attribuito: la Divina. Figlia del suo tempo, riusciva a portare in scena i grandi autori della sua epoca rileggendoli in chiave del tutto personale e analizzando l’ipocrisia intrinseca alla classe borghese in cui era immersa. Verga, Ibsen, Dumas figlio, Zola, vennero tutti riadattati per essere riportanti sul palcoscenico in maniera personale e memorabile.
Fu proprio per questa donna straordinaria che vacillò il cuore del Vate: galeotta di quell’amore fu la dedica di D’Annunzio all’interno delle sue Elegie romane: «Alla divina Eleonora Duse».
Il testo di Bruni si immerge nella bellezza e nel delirio di onnipotenza tipico della Belle Époque. In un’epoca in cui l’arte dispiegava le proprie ali con forza rinnovata, ogni sentimento sembrava necessariamente dover essere vissuto al massimo delle proprie possibilità. Così accadde anche per i nostri eroi: due geni del proprio campo che si incontrarono e si scontrarono per poter sentirsi sempre più vivi all’interno di un amore appassionato, ma non privo di peccati.
Da tutto ciò nascerà un romanzo che è divenuto uno dei capisaldi della letteratura italiana. Nel 1900, infatti, D’Annunzio pubblicherà Il fuoco, ispirato alla sua relazione con l’attrice. La lettura di Nietzsche, la presa di coscienza sulla questione del super-uomo, le digressioni filosofiche, fanno di questo libro un’opera degna del proprio tempo.
In questo contesto, Eleonora Duse è punto di riferimento ma anche sacrificata. Bruni, infatti, afferma che l’attrice rivelò a tal proposito: «Un’opera d’arte vale più della sofferenza di una creatura umana».
Un amore tormentato come pochi
È il 1916 quando Eleonora Duse prese parte al suo unico film ispirato al romanzo Cenere di Grazie Deledda: «Una storia drammatica alla quale la Duse partecipa, inizialmente, con poca convinzione. Il dramma di un vissuto dentro il quale emozioni, vita e letteratura si intrecciano. È nel suo vissuto tragico che Eleonora recupera la “cenere”».
Pur in questa unica apparizione cinematografica, Duse fa sfoggio della sua abilità recitativa portando ai massimi livelli l’interpretazione di un personaggio che è già estremamente vivido di suo. Un ruolo grandemente emotivo per un’attrice che faceva della recitazione la propria ragione d’essere.
Bruni, inoltre, affronta con eleganza le varie vicende che hanno caratterizzato i punti di incontro tra la vita dell’attrice e quella del poeta. Due personalità importanti, capaci di calcare il palcoscenico artistico del mondo e di essere riconosciuti già dai propri contemporanei come mostri sacri nel proprio settore. Due esseri estremamente passionali che, forse proprio per questo, si attrassero l’un l’altra come falene al fuoco per poi morirvi bruciati dalle fiamme.
Afferma, infatti, Bruni nella sua disamina che «la donna amata diventa mito, simbolo elettivo di una grecità entrata di recente nel cuore del Vate da quando, era il 1897, tre anni prima la pubblicazione de Il Fuoco, aveva compiuto il viaggio in Grecia. La riscoperta dei miti classici si coniuga e si compenetra alla passione per il teatro che D’Annunzio scopre grazie alla Duse. Una grecità che emerge in tutta la sua prodigiosa bellezza anche nella rappresentazione della Serenissima, la “Città bella”, e che assume connotazioni di “incandescente luminosità” in un poderoso ritorno alla forza impetuosa de Il Fuoco».
Nella profondità delle parole
Le opere del Vate, dunque, vengono rianalizzate sotto la luce di un amore che è stato abbagliante e che ha consumato più di un’anima. Le digressioni temporali e letterarie sono tante e volte tutte a un approfondimento significativo di un rapporto che ha influenzato, in ogni caso, l’arte e il lavoro dei due personaggi descritti e analizzati.
Il saggio non manca certamente di sottolineare gli aspetti negativi di una relazione così forte, ma anche così squilibrata. Bruni, difatti, ripete in più punti quello che Eleonora Duse affermò in merito al suo rapporto con D’Annunzio: «Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto, perché ho amato».
Il tragico, d’altronde, è stato un caposaldo dell’esistenza artistica di entrambi i protagonisti di questa vicenda, che hanno vissuto in un’epoca in cui il Romanticismo e il Decadentismo si unirono e si scontrarono con elementi del Positivismo e della voglia di invincibilità. La bellezza dell’arte, infatti, si è unita a un razionalismo che faceva dell’Occidente il faro del mondo, e successivamente, con conseguenze disastrose anche dal punto di vista bellico e sociale.
Con un linguaggio che sa di eleganza e nostalgia, Bruni ricalca i momenti salienti della relazione tra i due, si fa portavoce dei loro sentimenti e cerca di analizzarne le luci e le ombre che l’hanno resa immortale. Immortale, infatti, si può dire una passione così forte da cui sono scaturite meravigliose opere letterarie, di cui ancora leggiamo, e intense interpretazioni teatrali di cui subiamo ancora gli echi quando si parla del grande palcoscenico.
Le contraddizioni non vengono affatto nascoste, ma anzi vengono mostrate al pubblico per renderlo capace di comprenderle fino in fondo. Tra versi e prosa, il testo si arricchisce anche di foto d’epoca che ritraggono i personaggi narrati, oltre che di numerose citazioni tratte dai carteggi che racchiudono le conversazioni avvenute tra i due amanti. Un testo che richiede la volontà di andare oltre quanto letto sulle antologie scolastiche per scoprire che dietro ai volti dei personaggi storici vi è stata un’anima viva e pulsante.
Un vero e proprio omaggio che Bruni ha voluto fare a un’attrice che ha saputo rimanere nei cuori di molti amanti teatrali attraversando tre secoli e che, ancora oggi, avrebbe davvero molto da offrire.
Rosita Mazzei
(direfarescrivere, anno XVII, n. 191, dicembre 2021)
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