Il terzultimo libro di un grande scrittore e di un ancor più grande editore quale Roberto Calasso si intitola curiosamente Allucinazioni americane (Adelphi, pp. 766, € 14,00) ed è il primo che ha dato alle stampe nel suo ultimo anno di vita, il 2021. Gli altri due sono decisamente più in linea con la sua precedente produzione, e assai più autobiografici. Qui il protagonista è il cinema e, in particolare, un suo interprete assoluto, Hitchcock. Nell’ambito della produzione del grande regista, si affrontano due film tra i suoi più sibillini ed enigmatici, La finestra sul cortile e La donna che visse due volte.
Il punto di vista di Calasso sui due film è assai originale, e il libro che ne risulta è godibile, mentre lo si legge si ha come l’impressione di esserne parte in causa e di dialogare direttamente con l’autore. Ma è un abile gioco di specchi che spesso inganna. «Questo è un libro su un rompicapo ed è un rompicapo esso stesso».
Le mille madeleine e gli infiniti dettagli di due capolavori gemelli
È una ben ambigua e sofisticata madeleine proustiana quella che compare ne La donna che visse due volte. L’avvocato e poliziotto John Ferguson soffre di vertigini: durante un inseguimento sui tetti dei grattacieli di San Francisco, aggrappato a una grondaia e sospeso nel vuoto, vede un collega precipitare al suolo nel tentativo di salvarlo. Quest'incidente sarà la causa della sua acrofobia. Un suo ex compagno di college, Gavin Elster gli affida l’incarico di sorvegliare sua moglie Madeleine, vittima di strane ossessioni, durante le quali la donna s’identifica con la bisnonna materna, Carlotta Valdés, la quale, abbandonata dall’amante e privata della figlia nata dalla loro relazione, morì suicida a 26 anni, la stessa età di Madeleine. Nomen omen, madeleine/Madeleine entra in scena come immagine mentale dagli effetti però molto reali, in quanto la sua “esistenza” impone che «un’altra donna muoia: la moglie di Elster prima, Judy dopo». Ferguson sprofonda lentamente (la lentezza caratterizza tutti e due i film di Hitchcock a differenza di altre sue pellicole caratterizzate da paradigmi ritmici e temporali assai più immediati) in un passato insondabile, al contempo esistente e irreale e qui l’indagine di Calasso si fa fine. «Il segnale che manifesta il contatto con Madeleine è il colore verde: nello scialle, lungo fino a terra, della donna seduta al ristorante con Elster, nel vestito da giorno con colletto di Judy che cammina con le sue colleghe del grande magazzino. Fra l’uno e l’altro, ci sono anche molti altri verdi, introdotti dalla Jaguar verde chiaro di Madeleine, fino al canopy dell’Hotel Empire dove vive Judy e alle tende nella sua stanza, illuminate dall’insegna al neon dell’albergo».
Allo stesso modo, il mondo de La finestra sul cortile è un mondo autosufficiente, ricco di dettagli simbolici che tutto risucchia in quel teatro, a eccezione delle ventate di eleganza ed erotismo upper class di Lisa Freemont, una sofisticata ragazza e indossatrice non professionista, la quale si reca regolarmente a fare visita a Jeff, il fotoreporter di successo protagonista del film e immobilizzato su una sedia a rotelle a causa di un infortunio. «La ruota vorticosa dei fantasmi, ombra sempre più irresistibile di Grace Kelly che si proietta (da dietro) sul fotografo addormentato (…) creano una tensione che cresce, insieme al caldo umido di New York. Soprattutto in due persone: il fotografo e il commesso viaggiatore, che si appresta ad uccidere la moglie. Che cosa lega questi due esseri che si ignorano? Un filo sottilissimo, un filo femminile. Il commesso viaggiatore Lars Thorwald uccide la moglie: il fotografo lo scopre con l’aiuto con l’aiuto della donna che vuole diventare sua moglie (e a sua volta rischierà di essere uccisa dall’assassino). Come sempre sacrificio ed ierogamia sono avvolti l’uno nell’altra».
Un’argomentazione elegante e non dirompente o distruttiva
Quest’ultimo riferimento non è espresso a caso, perché è proprio una rilettura mitica dei due film quella che l’autore ci propone: «Che aria tira in quel cortile della nona strada? Più o meno quella che tirava a Tebe con Edipo o a Elsinore con Amleto. “C’è qualcosa di marcio nel cortile”. Ad accorgersene, come al solito, è il coro, che qui delega a rappresentarlo la mirabile Thelma Ritter, infermiera delle assicurazioni». Alla fine, non è proprio questo il ruolo del cinema, ovvero quello di costituirsi come “macchina mitopoietica” capace di generare visioni e narrazioni che invadono tutti i nostri ambiti personali, da quello razionale a quello etico e onirico? Secondo Calasso le star hollywoodiane sono quindi le nuove divinità e le opere di Alfred Hitchcock possono addirittura essere re-interpretate alla luce della dottrina vedantica. Una provocazione, si capisce, ma non priva di fascino e di spunti inediti per questo volume, che rappresenta la sintesi e la sedimentazione di un pensiero durato anni.
Ma in cosa consiste questa sorta di legame di sangue, di “gemellità” che lega due capolavori assoluti della storia del cinema e che quindi, a prima vista, potrebbe anche fare a meno di questo accostamento? Tutti i motivi, anche quelli più reconditi, sono puntualmente esplorati dall’autore: «La gemellità si dichiara già nel casting: in entrambi i casi James Stewart e una indefessa fidanzata bionda, che lavora nella moda (Grace Kelly e Barbara Bel Geddes). James Stewart ha (o ha avuto) in tutti e due i casi un mestiere inquisitivo: fotoreporter avventuroso o brillante detective. (…) In entrambi i casi, il primo dialogo ruota intorno al fatto che l’uomo è impedito nel movimento, per la gamba ingessata ne La finestra sul cortile, per le vertigini in La donna che visse due volte».
Del resto a ben vedere l’inesorabilità degli accadimenti che è tipica del mito, e anche della tragedia greca, è l’ingrediente fondamentale dei due film. Difficile in questo senso dar torto all’autore, che pagina dopo pagina argomenta alla sua, particolarissima, maniera. Nelle due pellicole ciò che accade nella rispettiva trama narrativa è assai meno importante di ciò che accade nella testa dei personaggi, l’azione è sacrificata alla stasi perché sono le menti dei personaggi a rincorrersi, talvolta a sovrapporsi e a cannibalizzarsi come nel caso de La donna che visse due volte «il finale è implicito fin dall’inizio del film: lieto ne La finestra sul cortile (il fotoreporter allevia il prurito con un calzascarpe, in attesa di liberarsi dal gesso); funesto in La donna che visse due volte (l’ex poliziotto vuole liberarsi a poco a poco delle vertigini, ma ha una crisi appena sale al terzo gradino di una scaletta».
Il lettore, cinefilo e non, quindi potrà quindi trovare pane per i suoi denti in questo libro sui generis marcato da uno stile elegante e colto, come sarà d’ora in poi trovare in libreria data la scomparsa di un autore che aveva saputo affascinare e fidelizzare generazioni di lettori attorno alla sua cristallina capacità affabulatoria.
Massimiliano Bellavista
(direfarescrivere, anno XVII, n. 189, ottobre 2021)
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