«Ma al netto di sogni o delle allucinazioni le Aquile non c’erano più a Kennedy. Un nuovo disegno urbano l’aveva riperimetrata».
La citazione fa riferimento al monumento Le Colombe della Pace, una delle creazioni più conosciute e apprezzate dello scultore italiano Cesare Baccelli. L’utilizzo del termine aquile – che nella frase riportata sostituisce colombe – è derivato dal parlato popolare. Infatti, sin dai primi momenti in cui l’opera è stata collocata al centro della piazza J.F. Kennedy di Cosenza si è sovente indicata in questo modo. Successivamente, il monumento è stato effettivamente trasferito in viale Giacomo Mancini, dove tuttora si trova.
È uno dei tanti aneddoti che possono essere utilizzati come punto di partenza per comprendere le motivazioni che hanno spinto il giornalista calabrese Paride Leporace a scrivere il libro di racconti Cosangeles (Pellegrini editore, pp. 176, € 15,00). In effetti, disseminando nel testo vari aneddoti e offrendo ricostruzioni dettagliate di numerose vicende vissute in prima persona, l’autore – che nelle pagine del libro usa lo pseudonimo Ciccio Paradiso – fotografa la sua città, Cosenza, tra gli anni Settanta e Novanta del Novecento.
Nel farlo, il suo bisogno più impellente è quello di riflettere gli umori di un’intera generazione. Per questo motivo, il linguaggio accuratamente utilizzato rispecchia l’uso che la «carne viva» della città ne ha fatto in quel determinato periodo storico. Di conseguenza, le colombe diventano inevitabilmente aquile così come, si vedrà, Cosenza – in riferimento ad alcune caratteristiche – diventa Cosangeles.
Dalle pagine del testo trasudano quei desideri costanti che sono stati i pungoli di un’intera generazione atti a varcare i confini angusti in cui si era costretti a recitare la propria parte. Infatti, uno dei punti intorno cui gravitano i racconti di Leporace è il sentire da parte dei personaggi dei suoi scritti quel bisogno di legarsi in qualche modo a tutti quei filoni culturali che si respiravano in Europa e, ancor di più, in America. Per questo motivo, i racconti, a forti tinte noir, prendono spesso le mosse dall’analisi di quelle controculture giovanili che pullulavano anche nella città fondata dai Bruzi.
Proprio da queste basi, nel testo emergono a chiare lettere anche le numerose contraddizioni del vivere quotidiano di quegli anni. Ovviamente, non si tratta soltanto di riportare fedelmente gli avvenimenti accaduti. Infatti, data la matrice letteraria del libro, è l’autore stesso ad avvertire i lettori in merito a quanto descritto nel testo: «I fatti qui narrati sono immaginari. È autentica la realtà sociale e ambientale che li ha prodotti».
La precarietà del luogo
«Vengo dal campo dei villani fottuti,/degli insolenti operai, degli intellettuali di merda». Sono questi i versi affilati dello scrittore Francesco Leonetti che Paride Leporace utilizza come epigrafe di Cosangeles. Nel testo sono legati indissolubilmente a Una poesia è una città di Charles Bukowski. La scelta sottolinea già in apertura quella tensione, quel continuo bisogno di immergersi nelle vicende che hanno connaturato la città in cui l’autore è nato e in cui vive.
In effetti, sin dalle prime pagine risulta evidente come nelle descrizioni di Leporace trapeli l’intenzione di mettere in luce la precarietà e le difficoltà scaturite dal vivere in una città come Cosenza. L’autore descrive i modi attraverso cui si sono alimentati nel corso del tempo quei sogni vissuti in una sorta di microcosmo – Cosenza, appunto, o, ancora meglio Cosangeles – che guardava con curiosità e vivo interesse alla vicende che hanno contrassegnato la storia globale. Nel farlo, quel microcosmo ne rifaceva vivere i tratti caratteristici con una nuova pelle in un contesto in cui le novità si intrecciavano sempre alle tradizioni locali.
La precarietà del luogo viene presentata dall’autore tramite una dettagliata descrizione delle mancanze con cui quotidianamente si era costretti – e in parte si continua – a fare i conti. Può essere assunto come esempio quanto riferisce in merito ai treni, «non più di dieci», aventi tutti «destinazione fissa Sibari e Paola, e un paio avevano l’ardire di raggiungere Reggio Calabria, null’altro».
L’epoca del “senza”
Le continue privazioni riguardavano ogni realtà: «Niente bar per un cappuccio, niente edicola per un giornale locale, niente di niente, o quasi. Un posto adatto per il distanziamento sociale al tempo del Coronavirus. Era in effetti questa l’epoca del “senza”».
Nei racconti viene rivissuto un periodo storico attraverso il peso enorme esercitato dai ricordi, attraverso il riaffiorare continuo di immagini che riportano a realtà che spesso si scorgono a fatica nel presente. Per questo motivo, occorre soffermarsi ancora sui caratteri dell’epoca del senza per affrontare in modo più proficuo l’analisi di alcuni temi contenuti nel libro. Si può capire cosa significhi la privazione presente in ogni aspetto giornaliero tramite un elenco che l’autore riporta nel libro: «Stazioni senza edicola, Intercity senza bar, spiagge senza arene, città senza librerie, capi ultrà senza onore votati al guadagno, festival senza cinema, scuole senza biblioteche, concerti senza strumenti, stadi senza pubblico, reddito senza cittadinanza, programmi televisivi senza contenuti, produttori senza idee, giardini pubblici senza innamorati».
Tramite questo vivere perenne in una condizione di mancanza, può essere spiegato quel continuo ricrearsi condizioni quotidiane in cui vivere la dimensione sognata. Questo, inevitabilmente, porta a compiere quei numerosi voli pindarici di cui si caratterizza il testo. Non solo: il bisogno di superare i propri limiti trae origine e si mescola a uno spirito di adattamento che si respira a pieni polmoni in tutto il libro.
Con questo piglio si può leggere in particolare il racconto Fuga da Cosangeles. Al suo interno, quanto affermato risuona in queste frasi: «Sostiene Tony Pagoda che la distrazione è la massima invenzione dell’essere umano per continuare a tirare avanti. Per fingere di essere quello che non siamo. Adatti al mondo. E Jo era poco adatto al suo mondo. Ma vi si adattava».
L’identità bruzia
«Cosenza era la sua città. Sempre pronta a rivendicare di aver dato i natali a Telesio ma non molto consapevole di aver avuto Annibale alleato». Da questa citazione estrapolata dal testo traspare facilmente il precario equilibrio su cui riescono a sostenersi a vicenda tutte le conformazioni che danno vita alla realtà cosentina descritta da Leporace.
Cosenza viene rivissuta dall’autore facendo appello anche a una vicenda che segnò la Seconda guerra punica, conflitto durato dal 218 a.C. al 202 a.C., che ridisegnò le zone d’influenza nell’area mediterranea, dando a Roma la possibilità di espandere i propri domini e commerci a scapito dei cartaginesi.
I Romani, al termine della guerra, sottoposero i Bruzi a gravose condizioni per essersi schierati in gran parte proprio al fianco di Annibale, il celebre condottiero cartaginese. Furono tanti i gruppi etnici che popolavano la regione che subirono la foga romana.
Leporace fa riferimento a queste vicende e le contrappone allo splendore locale offerto non solo dalla bellezza naturale dei paesaggi, ma anche e soprattutto dalle celebri figure che nel corso dei secoli hanno saputo offrire il loro acume al mondo. Per quest’ultimo aspetto il rimando primario è a Telesio, filosofo e naturalista italiano nato proprio a Cosenza nel 1509.
Questo continuo oscillare tra luce e ombra è il terreno su cui prendono vita i racconti di Leporace e a proposito dei Bruzi scrive: «Bruzi maledetti da Dio e dagli uomini. Ci hanno attribuito la parte in commedia di Giuda e del centurione che oltraggia Cristo con la lancia nel costato. Razza maledetta».
Jo Pinter
La voglia di ergersi a protagonisti delle proprie vite era un riflesso di «quella grande rivoluzione globale dei giovani» che aveva finito per modificare «consapevolezza e arroganza». Una generazione che «si sentiva sul tetto del mondo al pari con quelli di Londra» e che non dava troppo peso a quel «vivere in un posto bastardo».
Quanto affermato – la condizione precaria, la voglia di rivalsa – viene in un certo senso riassunto da un termine: Cosangeles. L’origine si deve a Jo Pinter, protagonista di molte vicende narrate nel testo e figura dietro cui si cela Giuseppe Picciotto. Proprio Jo Pinter incarna tutti i punti analizzati fino a questo momento: «Attore di cinema e teatro off, pubblicitario, commerciante, creatori di locali di tendenza che erano entrati nella leggenda, vitellone rollingstoniano, guidatore di auto sportive per diletto e autore di beffe, biscazziere e giocatore di carte, cartaro di tarocchi e di cartine». In più, soprattutto, come affermato, «colui che si era inventato il neologismo “Cosangeles”», termine diventato «carne viva della città» e ancora molte volte utilizzato.
L’origine del termine riassume un po’ quella voglia di rivalsa e quello spirito d’avventura. Infatti, Jo Pinter è sul set di un film con Ornella Muti e Paolo Villaggio. La celebre attrice italiana si rivolge a Pinter incuriosita dall’assenza di inflessioni dialettali nella sua pronuncia e gli domanda: «Ma tu di dove sei?». La risposta di Pinter riassume gli umori di un’intera generazione: «Di Cosangeles, Calabriornia, a trenta chilometri da San Francisco di Paola».
Quale generazione?
Leporace indaga tutti i mutamenti principali verificatisi a Cosenza negli ultimi decenni. Nel farlo cerca le cause scaturenti attraverso le caratteristiche precipue di un’intera generazione. Infatti, con sguardo attento, ricostruisce minuziosamente luoghi e angoli della città che erano riflesso di nuove speranze.
Strade e locali, riferisce l’autore, erano affollate di «giovani vestiti alla moda di Carnaby Street rimbombati da Blowin’ in the wind e Like a rolling stone che nei pastrani avevano On the road di Kerouac e La rivoluzione sessuale di William Reich debitamente sottolineate e che passavano di mano in mano».
Il termine Cosangeles racchiude proprio tutti i nuovi bisogni e i desideri di questa fetta di popolazione. Infatti, inevitabilmente, intercorrono differenze notevoli tra uno stile di vita più reazionario e uno propenso ad abbracciare pienamente quel modello di vita su cui si è a lungo discusso finora. Per darne un quadro ancora più dettagliato, risulta opportuno riportare un passo del testo in cui l’autore passa in rassegna proprio le differenze tra “Cosenza” e “Cosangeles”: «Cosenza e Cosangeles potevano condividere varchiglie e zeppole fritte di Renzelli, un gelato di Zorro, forse le caramelle di Ciccillo. Erano invece di Cosangeles le sigarette notturne di Marietta, puttana in pensione; l'erba con i pomodori da un turriero di Marano, i raudi per la battaglia della vigilia di Natale in piazza che trasformava la ricorrenza in un quartiere di Belfast, i Borghetti uno dietro l’altro prima dell’inizio della partita, le damigiane di vino al prepartita di Piero Romeo a Villa Spina, le comitive di liceali in una cantina di ubriaconi che si allumavano arrapati le ragazze della compagnia».
Un omaggio a Cosenza
«Mi sono sempre piaciute le strade laterali, i vicoletti bui dietro la via principale, dove s’incontrano avventure, sorprese, oggetti preziosi buttati nella polvere». È un pensiero di Dimitri Karamazov, protagonista del celebre romanzo I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij che Leporace fa suo riportandolo nel testo. Infatti, compito dell’autore è quello di dare il giusto peso a quelle strade meno battute, a quegli oggetti dimenticati, buttati nella polvere.
Così, i racconti sono un omaggio a una Cosenza di cui si fatica spesso a trovarne qualche traccia nel presente poiché solo in determinati contesti sembrano riaffiorarne solo tenui barbagli. Per questo motivo, l’autore afferra saldamente i suoi ricordi e li lega alle storie, alle vicende che spesso si sentono ancora nei vicoli, nei bar, nella «carne viva» della città. Le pagine del testo risultano essere una continua reminiscenza. Sebbene a volte volutamente carica di eccessi, la prosa di Leporace non è mai ridondante. Questa sorta di paradosso si regge tramite il riproporre prima nella mente e poi sul foglio di ricordi mai rinnegati, ma rivissuti sempre con viva partecipazione.
Gli omaggi inseriti nel testo sono innumerevoli. Volendo riportare solo alcuni dei nomi citati apertamente da Leporace nel libro, è opportuno fare cenno a Nicola Misasi, scrittore e giornalista nato a Cosenza nel 1850, «non contemplato in nessuna antologia scolastica» nonostante abbia «furoreggiato nel Novecento in libreria e persino al cinema, donando la trama ad un western di brigantaggio con Massimo Girotti». Ovviamente, un posto in prima linea spetta a Totonno, «né Antonio né Tonino ma Totonno» Chiappetta, una figura che ha avuto un’influenza notevole per il suo amore per il dialetto e per lo spettacolo di cui nel libro Leporace ne traccia la memoria in molte pagine.
Gli omaggi sono anche nei riguardi di Ciccio Scarpelli «detto Fred Scotti», autore ed esecutore della canzoni Canto del carcerato e Tarantella guappa, di Radio Ciroma, «emittente spatronata e leggermente dadaista che a Cosangeles riempiva le ore di senza Tempo e comitive amanti di musica di tendenza». In merito, si veda in particolare il racconto Alla radio in cui Ciccio Paradiso ripercorre le vicende di Jo Pinter che ruba la giacca a Mick Jagger per donarla ai tifosi del Cosenza Calcio.
Il ricordo come viatico della scrittura
I racconti sono legati inscindibilmente alla musica e al cinema. Del resto, l’interesse dell’autore nei riguardi della settima arte evince anche solo dall’aver ricoperto l’incarico di Direttore della Lucania Film Commission per otto anni.
Un esempio capace di far comprendere efficacemente il ruolo svolto dal cinema nelle pagine del testo è il racconto Felliniana. Jo Pinter, nell’attesa di incontrare un agente immobiliare per una mediazione di un attico in vendita di cui «se tutto andava bene poteva sgobbarci diecimila euro», pranza in un piccolo ristorante molto vintage: Cesarina.
In poco tempo riconosce i disegni e le frasi felliniane sulle pareti. È la proprietaria a fargli sapere che il tavolo che occupa è lo stesso scelto per lungo tempo da Fellini. In questo modo, incontrare «la fantasia felliniana in un suo luogo» lo spinge al ricordo. Sono ricordi che si caricano di eccessi e che mirano a riportare alla luce tutte le vicende che legano Jo Pinter alla settima arte. Così, viene rivissuto l’incontro con Fellini avvenuto a Roma nel 1983, la possibilità di avere una parte in un prossimo film del celebre regista e, infine, come spesso accade nelle descrizioni di Leporace, una sorta di rinuncia prende sempre le mosse dal bisogno di spingersi oltre quanto si sta vivendo e che, in un certo senso, sgretola le possibilità che vengono offerte.
Si nota facilmente come nei racconti dei protagonisti delle vicende narrate da Leporace ci sono sempre pungoli che spingono a prendere conclusioni radicali e spesso affrettate. Eppure il ricordo – la cui importanza nell’economia del testo risulta ormai lampante – non causa mai pentimento, commiserazione o rimpianto. Nell’osservare il presente e gli strascichi del tempo, il ricordo sembra assumere la forma di un sorriso appena accennato, risulta essere un tonico capace di gettare ancora nuova luce sulla quotidianità.
Ecco perché nei racconti di Leporace c’è la Cosenza delle strade meno battute a cui si faceva cenno. È lì che si può avvertire facilmente quel senso di vero che traspare sempre nelle pagine, anche laddove chiaramente la forma letteraria strizza l’occhio con insistenza alla fantasia. È una frase di Jo Pinter contenuta proprio in Felliniana – ripresa da La voce della Luna, celebre pellicola del 1990 – che può racchiudere quanto affermato: «Come mi piace ricordare. Meglio che vivere. In fondo che differenza fa?».
«Cosenza era la sua città, e lo sarebbe sempre stata»
Anche le descrizioni, i dialoghi trasudano di cinema. Del resto, quella descritta dall’autore è a tutti gli effetti una sceneggiatura, divisa in parti apparentemente distanti, ma di cui, man mano, se ne percepisce sempre più un forte legame al punto che risulta impossibile togliere anche uno solo dei racconti presenti nel libro senza alterare l’economia del testo.
Infine, è opportuno dire che i legami col cinema si respirano sin dalle prime pagine, in cui Leporace si affida al celebre incipit di Manhattan, film del 1979 scritto, diretto e interpretato da Woody Allen. L’autore sostituisce la Contea di New York con Cosangeles. Al regista statunitense deve anche la frase che più di tutte serve a introdurre il lettore nei racconti del testo, ad avvicinarli al suo intento che è quello di discutere di aspetti apparentemente secondari della città attraverso un linguaggio che deve rispecchiarsi con gli umori di chi la città la vive quotidianamente, proprio come si diceva in apertura. La citazione è: «Insomma, guardiamoci in faccia: questo libro devo venderlo».
Mario Saccomanno
(direfarescrivere, anno XVII, n. 185, giugno 2021)
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