Anno XX, n. 226
dicembre 2024
 
La recensione libraria
Da Rubbettino un denso saggio
su erotismo patinato e cultura
nella rivista Playmen
Un saggio sulla Rivoluzione
sessuale in cinema ed editoria
di Guglielmo Colombero
Nella sua Introduzione, Gabriele Rigola, autore di Homo Eroticus. Cinema, identità maschile e società italiana nella rivista “Playmen” (1967-1978) (Rubbettino, pp. 188, € 14,00), realizza un’indagine lucida e intrigante sul mensile Playmen, uno dei rotocalchi più popolari a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, focalizzato come «un periodico dai confini incerti, dove il cinema assolve ad una funzione strumentale di veicolo, diffusione e problematizzazione dei discorsi sulla sessualità e sui cambiamenti dei ruoli di genere. Playmen risulta essere un network con canali e strategie distintivi che si relazionano continuamente con il sistema culturale e mediale dell’epoca». Docente di critica cinematografica presso l’Università degli Studi di Genova, Rigola ha firmato anche la monografia Una storia moderna: Ugo Tognazzi. Cinema, cultura e società italiana (Kaplan, pp. 226, € 20,00), presentato alla più recente edizione del Salone internazionale del libro di Torino.
Il primo capitolo del saggio punta la lente d’ingrandimento sul legame fra le riviste erotiche maschili (definite come tali in quanto rivolte quasi esclusivamente a fruitori di sesso maschile) e la modernizzazione della società italiana. In un contesto di graduale «allargamento delle maglie del visibile» (fenomeno che, specie dopo l’onda d’urto sessantottesca, si propaga dall’editoria verso il cinema, il teatro, la televisione e la pubblicità) l’Italia intera si avvia verso una vera e propria Rivoluzione del costume sessuale, mettendo in discussione l’impalcatura stessa dell’ormai declinante modello di società patriarcale. L’espansione dei consumi durante il “boom” economico degli anni Sessanta coinvolge anche la fruizione di rotocalchi illustrati nei quali l’immaginario erotico del lettore può condensare e addirittura sublimare pulsioni fino a quel momento occultate o represse. L’autore ricostruisce accuratamente la genesi di Playmen: ne è artefice una coppia di editori che sa fiutare il vento di cambiamento, Saro Balsamo e Adelina Tattilo, che gioca addirittura d’anticipo sulla sexploitation sessantottarda. Alla fine del 1966 vara Men. Il settimanale degli uomini, dove la componente erotica emerge sia nei testi che nell’apparato iconografico, e pochi mesi dopo è la volta di Playmen: la modella in copertina assume «pose ammiccanti ma mai esplicitamente nuda». I contenuti sono multiculturali, e si avvalgono di collaboratori prestigiosi come Franco Valobra, Pier Francesco Pingitore, Luciano Bianciardi, Ugo Moretti, Piero Vivarelli, il compianto Wolinski, Emilio Servadio, Maurizio Costanzo. Il successo è strepitoso: trecentomila copie nel primo decennio, con picchi di quasi mezzo milione. Pochi anni dopo l’esordio di Playmen termina il sodalizio fra i coniugi-editori Balsamo e Tattilo: le loro strade si dividono, con Balsamo che fonda Le Ore della Settimana, rivista destinata a sfociare nell’hardcore, mentre Tattilo si orienta verso un forte impegno politico orientato a sinistra, dando alla luce la rivista femminista Libera. Il giornale della donna moderna e avventurandosi sia nelle produzioni cinematografiche autoriali, come vedremo più avanti, che nell’editoria di alto profilo con la pubblicazione dei saggi Dizionario della Letteratura Erotica, La marijuana fa bene e Playdux.

L’emancipazione di una società nelle pagine di Playmen
Osserva Rigola che «La sessualità, l’esposizione del corpo, la caduta dei tabù, come molti hanno messo in luce, rappresentano l’evidente campo di prova di queste dinamiche complesse, attraverso il quale si verifica la tenuta di tale quadro di crescente modernizzazione, che a sua volta dimostra tutte le tappe mancate, gli ostacoli, i ritardi, gli avvallamenti e le discrasie di un percorso per sua natura disomogeneo e per niente scontato». E, proseguendo nella sua disamina di un processo di modernizzazione del paese che passa attraverso l’editoria, configura la rivista Men, che precorre Playmen, come «un prodotto di entertainment erotico moderno, controcorrente e libero da imposizioni politiche, ma soprattutto come anello di una catena (inter)nazionale di combattimento verso un sistema repressivo, censorio, bacchettone e dai modelli culturali vetusti». Affrancata dalla soffocante tutela oscurantista del “ventennio” clerical-democristiano, la società italiana sta finalmente diventando adulta: erede ideale dell’apripista Men, Playmen individua come target del suo potenziale laico, demistificatorio e corrosivo il conformismo sessuale, le inibizioni imposte da un apparato censorio ipocrita e perbenista, il sonnolento immobilismo delle sacche meno evolute dell’entroterra: nell’Italia dei primi anni Settanta scorre un fiume carsico di marciume morale (prostituzione minorile, pedofilia, aborti clandestini) che rappresenta una realtà parallela a quella falsamente rappresentata dai media allineati con il versante cattolico-conservatore non più egemone dopo l’avvento del centrosinistra ma ancora influente grazie a posizioni dominanti nel settore della comunicazione (l’era Bernabei alla Rai durerà oltre un decennio, fino alla riforma del 1975). Come si legge nell’apposita rubrica di Playmen dedicata ai commenti dei lettori, «Noi italiani avevamo proprio bisogno di una rivista come la vostra che mette al bando falsi pudori e ipocrisie centenarie, facendoci respirare un po’ d’aria pulita e consentendoci di sentirci un popolo veramente libero, che non si nasconde dietro i propri complessi».

Il maschio latino alla ricerca di una nuova identità
In cosa consiste realmente alla fine degli anni ’60 la cd. “identità virile” del maschio italiano? Nel secondo capitolo l’autore teorizza un suggestivo amalgama di «più modelli maschili simultanei e ugualmente decisivi nell’economia simbolica del mensile: modelli egemonici e patriarcali, o semplicemnete nostalgici; modelli “riformati”, moderni e tendenti ad applicare nuove forme di consumo e di rapporto tra i sessi; o ancora modelli negoziali, contraddistinti da forme ibride di mascolinità, talvolta regressive talvolta riformatrici». E, riguardo all’esigenza di allargare il più possibile il perimetro della fruizione: «L’identità virile passa dunque anche per un impiego di prodotti di varia natura, materiali e culturali, e di conseguenza per un rinnovato modo di consumare, acquistare e scegliere che definisce l’immaginario maschile italiano e i suoi cambiamenti». Un fenomeno identitario fluido e magmatico, quindi, in perenne trasformazione: la cartina al tornasole rimane il nudo di donna, esibito con indubbio buon gusto per stimolare la pulsione consumistica dei lettori: «da un lato si individua il corpo femminile come tassello di una proposta culturale ed editoriale per il fruitore maschio, e dall’altro lato si costruisce un palinsesto nel quale il pubblico è lettore e al contempo consumatore di prodotti diversificati». Non solo l’identità virile, ma anche la sua estetica vengono rimesse in discussione: «il sistema mediale cerca una via attraverso cui non solo proporre nuove tendenze per la cura del maschio, ma punta anche a una sua esposizione ed esibizione in temini sempre più audaci». Il culmine di questo percorso liberatorio coincide con i servizi fotografici che Playmen dedica, a partire dai primi anni ’70, agli “eroi nudi”: Helmut Berger, immortalato dal valente fotografo Angelo Frontoni, segna il giro di boa: «Berger è veicolo non casuale di discorsi sull’ambiguità del maschile, e viene scelto per inaugurare uno spazio che in definitiva rappresenta uno sguardo “altro”, una rubrica di apertura verso il corpo maschile e verso i fruitori omosessuali».

Mitologia dell’erotismo cinematografico su Playmen
Il terzo e fondamentale capitolo del saggio di Rigola dedica ampio spazio al legame fra strategie editoriali, immaginario collettivo e cultura cinematografica. A partire dalla fine del 1970, il navigato regista televisivo, teatrale e cinematografico Pier Francesco Pingitore cura la rubrica su Playmen dedicata al cinema: sono gli anni in cui l’onda lunga della Rivoluzione sessuale postsessantottesca sta intaccando giorno per giorno gli argini sempre più screpolati della censura cinematografica, e le nudità di attori e attrici rimbalzano dalla prospettiva dinamica sullo schermo alla visione cristallizzata sulla pagina. In entrambi i casi, la presenza corporea “svelata” diviene emblematica di una ormai irreversibile evoluzione del costume in una società, come quella italiana, non più reazionaria e bigotta, e sempre meno inibita e repressa. L’autore cita un esempio assai significativo: l’anteprima di un perseguitato film di Tinto Brass, L’urlo, per ben quattro anni ingabbiato dalla commissione di censura e infine rilasciato dopo aver subito un’orgia di sforbiciate, costellata di immagini nude dell’attrice Tina Aumont. In questo caso, appare evidente «come l’immaginario cinematografico si metta al servizio del corpo di Aumont, della sua nudità, posta al centro della rappresentazione e dell’articolo». Nell’ambito del cinema autoriale, poi, non mancano gli esempi di esegesi critica che scavalca il perimetro visivo e finisce per disquisire sul fenomeno delle case chiuse pre-Legge Merlin: nell’articolo su Roma di Fellini si coglie «un’atmosfera descrittiva in parte nostalgica e in parte cedevole all’articolazione barocca».
Un discorso a parte merita l’attività di Tattilo come produttrice, a fianco del suo nuovo compagno Carlo Maietto: nei primi anni ’70 vara una vera e propria trilogia del regista Brunello Rondi, improntata da un forte contenuto erotico (Ingrid sulla strada, Tecnica di un amore e Prigione di donne), per poi peregrinare nell’arcipelago dei generi in voga in quel periodo: il poliziesco (Il tempo degli assassini di Marcello Andrei), la denuncia sociale (il dittico di Lizzani sul racket della prostituzione e sul terrorismo neofascista: Storie di vita e malavita e San Babila ore 20: un delitto inutile; Stato interessante di Sergio Nasca sulla piaga degli aborti clandestini), il thriller (Cinque donne per l’assassino di Stelvio Massi), la commedia pruriginosa (Scandalo in famiglia ancora di Andrei). Il mosaico del cinema targato Tattilo è variegato, talvolta urticante, spesso apertamente trasgressivo nel mettere a nudo gli aspetti più squallidi della società borghese ipocrita e perbenista, affollata di prototipi maschili moralisti inflessibili in pubblico e sessuomani assatanati in privato (come nel caso della prostituzione minorile descritta senza filtri edulcoranti in Storie di vita e malavita: tragicomico l’episodio del cumenda milanese che si imbatte in sua figlia nella casa d’appuntamento): non a caso certa rancorosa stampa di destra le affibbia l’appellativo di “Hugh Hefner nazionale”. Rigola evidenzia «la connessione fra l’editoria maschile e la produzione cinematografica, come appartenenza (di Tattilo soprattutto) ad un sistema industriale specifico: per una modernizzazione del sistema culturale italiano, insomma, sembra necessario a questo punto degli anni Settanta lavorare dall’interno dell’industria culturale e congiungere le varie aree di questo apparato complesso e multiforme».
Sul versante della rappresentazione dell’erotismo nel cinema, Rigola teorizza due sponde su cui opera Playmen: da una parte la “storicizzazione” della fenomenologia erotica lungo un itinerario di cambiamenti del costume (come nella pregevole “storia dell’erotismo” dalle origini a oggi curata da Enrico de Boccard), dall’altra l’esposizione del corpo femminile per soddisfare comunque le aspettative del pubblico di lettori e di potenziali spettatori. Il culmine di questa vocazione divulgativa di Playmen viene raggiunto nell’estate del 1975 con l’intervista a Pier Paolo Pasolini, corredata da immagini (piuttosto crude) colte dal set di Salò o le 120 giornate di Sodoma: quasi un testamento filosofico del regista, pochi mesi prima del suo brutale assassinio, dove le immagini «accompagnano un’approfondita disamina su sadismo, marxismo, mercificazione, sfruttamento del potente sul debole». Analoga l’intervista a Tinto Brass, anch’essa costellata di fotografie di scena dal set che «mostrano le prostitute al lavoro, scene sessuali, corpi nudi, tra cui quello immortalato integralmente di Teresa Ann Savoy». In definitiva, Playmen offre ai lettori «una sorta di storia della cultura erotica non soltanto attraverso il cinema, ma connettendo i caratteri di quest’ultimo con forme culturali disparate, dalla letteratura alla fotografia».
Uno spunto alquanto stimolante riguardo al rapporto fra cinema e società su cui Playmen si sofferma a metà degli anni ’70 concerne il dibattito sempre vivace sulla vera connotazione della pornografia: nata all’inizio del 1978, la rubrica Filmerotikon. Antologia del cinema proibito, curata da Liliana Fontana e Fabio De Agostini, è un vero e proprio zibaldone del genere erotico-pornografico sullo schermo. Playmen, dunque, sintetizza Rigoli «attua sempre più una strategia discorsiva in relazione alla pornografia che tiene insieme il racconto dell’immaginario, della tradizione, del rapporto con il desiderio, e le nuove tendenze del mercato e dell’industria».

Frammenti di Star System che emergono dalle copertine
Nel quarto e ultimo capitolo Rigoli analizza lo stardom e i fenomeni divistici, ponendosi una congrua domanda: «Quale corporeità viene presentata e quale modello di femminilità, di conseguenza, viene veicolato dalle immagini della rivista erotica?». E ritiene che Playmen «sceglie, e mostra, soltanto modelli di emancipazione, si tratti di dive del cinema o di giovani fotomodelle esordienti nel mondo della moda o dello spettacolo: artiste che espongono la loro personalità e il loro corpo dentro e fuori le pagine della rivista, e quindi prototipi della nuova erotizzazione del sistema culturale che passa per una consapevole e libera esposizione della propria corporeità». Alcuni servizi fotografici, secondo Rigoli, sono «confezionati come veri e propri esperimenti di carattere narrativo». Emblematica, a questo proposito, l’effimera stagione di celebrità esotico-erotica della sinuosa attrice eritrea Ines Pellegrini, lanciata da Pasolini nel Fiore delle mille e una notte: il fotografo Franco Marocco ne scolpisce la statuaria bellezza in una copertina del 1977, in cui Ines appare con indosso solamente un turbante, racchiusa in un alone di raffinata sensualità.
In chiusura, Rigoli dedica le ultime pagine del saggio alla fenomenologia del fandom (soprattutto la posta dei lettori): si tratta, specifica, di fan «soprattutto interessati ai servizi fotografici di nudo femminile, ma anche alle interviste, agli articoli cinematografici, ai differenti spazi che la rivista dedica allo stardom». L’autore ricorre a un esempio illuminante: l’irresistibile attrazione feticista per lo striptease, appagata alla grande da Playmen nel 1970 grazie alla performance della mitica Brigitte Bardot che il fotografo Claude Azolulay accarezza con l’obiettivo in venti memorabili scatti mentre, in riva al mare, si libera di un abbigliamento da suora. Sintetizza infine Rigoli: «ci troviamo al cospetto di un sismografo che registra le possibilità acquisite o i dibattiti dominanti nella società, attraverso il corpo dei divi e delle dive, le loro interpretazioni, le immagini di questi stessi corpi immortalati sulla rivista».

Guglielmo Colombero

(direfarescrivere, anno XVII, n. 183, aprile 2021)
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