Anno XX, n. 226
dicembre 2024
 
La recensione libraria
Tre anime sono sospese
dentro e fuori la vita.
L’equilibrio è deciso dall’autore
Da Rubbettino, un romanzo crudo,
realistico, quasi cinematografico
di Massimiliano Bellavista
Chi fa il portiere o sta comunque sulla porta occupa una posizione di confine. Sulla soglia, né fuori né dentro, ha il preciso compito di sorvegliare, osservare, ritmare accessi e deflussi tra una realtà, quella confinata del palazzo, e l’altra, quella del mondo che il palazzo circonda e talvolta assedia. Un po’ Cerbero, un po’ Caronte.
Il filone “del portiere” ha del resto padri nobili in letteratura, da Simenon alla Nothomb e possiede un innegabile fascino.
Perché diciamo questo? Perché anche se il lettore non ha naturalmente alcun obbligo di conoscere vita morte e miracoli di uno scrittore per stabilire se un’opera sia apprezzabile o meno, ci sono comunque delle eccezioni alla regola. E come è stato sottolineato da qualcuno il fatto che Gianluigi Bruni, autore dell’opera Luce del nord (Rubbettino, pp. 220, € 17,00) sia arrivato al romanzo dopo sessantacinque anni travagliati, spesi tra cinema e sceneggiature e poi convivendo con l’abisso di una crisi economica, lavorativa e personale, gestita però con dignità e tenacia, non è in questo caso un fatto secondario. L’autore alla fine si è ritrovato a lavorare come portiere in un condominio della Garbatella. Ma non si è arreso, e ha conosciuto anche grazie a questo lavoro una seconda fase del suo rapporto con la scrittura.
La sua attuale professione c’entra moltissimo in questa narrazione a tre voci, dove Frank è un anziano e scorbutico ex stuntman, alcolizzato, Cristian è un ragazzo dalla personalità complessa e disturbata, Eva una badante nostalgica e tetra, scrittrice e studente fallita. Cristian vive nel sottoscala, Frank ed Eva sono dirimpettai. Ha avuto il tempo di osservare molto, Bruni, in questi anni. Uomini e donne di tutti i tipi, con ogni tipo di problema e di croce sulle spalle. Ed è indubbio che sia attratto dalle contraddizioni e dalle ambivalenze di un’umanità così problematica, diseredata, e per certi aspetti invisibile.
Il linguaggio è crudo, duro, gli amanti di questo registro espressivo avranno pane per i loro denti, in uno stile che fa indubbiamente il verso a molta letteratura anglosassone, soprattutto americana, ma anche del filone scandinavo.
«Io non li leggo mai i libri. Magari, qualche volta, se me ne capita qualcuno in mano lo apro, leggo il titolo e qualche altra cosa… Uno ancora me lo ricordo, era un libro di Maria, gliel’aveva dato il prete e a un certo punto c’era scritto così: Io sono il primo. Sono anche l’ultimo. Chi vuole essere come me?… E io ci ho pensato al significato, ma non è che è proprio chiaro… perché secondo me nella vita o sei il primo o sei l’ultimo e non puoi essere tutte e due le cose, e se uno vuole essere come quello è perché lui è il primo. Io invece no, io sono l’ultimo. Ormai l’ho capito. L’ultimo dei disgraziati. E nessuno vuole essere come me. Perché quando sei vecchio e non ci hai più niente, ti trattano tutti come la merda». Così si esprime Frank, nell’incipit del volume, che non lascia molti dubbi sul seguito.

Una convergenza progressiva tra le varie proiezioni narrative dell’autore
La visione filmica dell’opera è evidente, così come il legame a un certo periodo e con una certa impostazione cinematografica che l’autore, avendo lavorato nell’ambiente ai massimi livelli con registi quali Federico Fellini (fu il suo assistente alla regia nel film La città delle donne), Luigi Comencini, Franco Zeffirelli, Dino Risi, Lina Wertmuller, Liliana Cavani e Claudio Caligari conosce di certo assai bene, avendovi anche contribuito. Ma il nome chiave secondo chi scrive non si trova tra quelli appena citati ma piuttosto in quello di Bergman, soprattutto il Bergman di ispirazione kafkiana de Il rito.
Questo per un duplice motivo: da un lato siamo di fronte a una sorta di romanzo a chiave, allegorico, dove tutti e tre i personaggi sono alla fin fine proiezioni metaforiche della personalità dell’autore che infatti dichiara in una intervista: «Qualcuno ha detto che mi sono rappresentato nel personaggio di Eva e nella sua inconcludenza, nel suo essere una scrittrice fallita (…) È vero, ma è vero anche che c’è parte di me in Frank. Di gente come lui ne ho vista tanta nel mondo del cinema, spacconi, maneschi e bugiardi. Piuttosto sono, come lui, un vecchio rancoroso. Da ragazzo, poi, non ero né dotato né brillante, un po’ come Cristian». Dall’altro lato c’è l’assoluto scetticismo sulla possibilità di una redenzione, e di contrasto la quasi certezza sulla irreversibilità di una condanna sociale già definitivamente emessa.

Tre personaggi in cerca di un destino
I personaggi del libro partono per la loro navigazione letteraria all’inizio del volume come se si trattasse di una regata in solitario, ma poi si trovano, legandosi e intrecciandosi sempre di più e comunque garantendo in ogni capitolo il triplice punto di vista alla narrazione. Questa strana solidarietà che si sviluppa tra loro cercherà, con alterna efficacia, di fare scudo a esistenze difficilissime, sempre sull’orlo del baratro. È come se i personaggi del romanzo non potessero affatto rinunciare a questo schema di gioco narrativo, far sempre e comunque sentire, separatamente, la loro voce, il loro punto di vista, pena la loro definitiva disfatta, la loro dissoluzione, che però alla fine avviene comunque, in quanto per l’appunto inevitabile.
Di particolare impatto “cinematografico” è proprio l’epilogo, specialmente la parte conclusiva, che rende ben chiare la tecnica e l’impostazione molto vivida e d’impatto del linguaggio usato nel libro.
«Ma se ora volgiamo lo sguardo dallo schermo alla platea, notiamo che non c’è più nessuno. Dei tre solitari spettatori rimangono solo un cappello, una sciarpa e quello che sembra il residuo di un panino mangiucchiato infilato fra gli schienali di due poltrone. Se qualcuno oltre a loro tre fosse stato presente, avrebbe detto di aver visto le loro figure dissolversi lentamente per unirsi in una massa tremolante che avrebbe cominciato a levitare, per alzarsi verso l’alto soffitto della sala, dissolversi infine in una nube luminosa».
Queste tre anime sconclusionate hanno insomma, in qualche modo, trovato il loro autore e sul palco c’è il lettore, che può se vuole afferrarne la storia, prima che si dissolvano del tutto in quella nuvola.

Massimiliano Bellavista

(direfarescrivere, anno XVII, n. 182, marzo 2021)
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