Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
La recensione libraria
Il tempo del presente e del passato
si intrecciano in un libro che esprime
l'esigenza dei versi di comprendere
Dal rapporto con la realtà una poesia del possibile,
in una raccolta edita mediante Bottega editoriale Srl
di Renato Nisticò
Sarà nei prossimi giorni in distribuzione l’opera di esordio di Marco Gatto, giovane autore calabrese, dal titolo Misura del tempo, pubblicato da Luigi Pellegrini editore. Si tratta di una raccolta poetica della quale il team di Bottega editoriale Srl ha curato l’editing e i rapporti con la casa editrice. Pubblichiamo di seguito, come anticipazione, la Prefazione.

La redazione


PREFAZIONE

Ogni buona opera poetica, degna di essere letta e tramandata, fa della propria felicità (qualcuno direbbe: bellezza) un problema. Il problema della poesia di Marco Gatto è a un tempo psicologico, formale e sociale.
La poesia di Gatto si trattiene ancora in una condizione di liminarità, come al confine fra due epoche, sia storiche che private, alla trepidante attesa di un provvidenziale rito di passaggio; nelle “insidie della soglia”, direbbe Yves Bonnefoy. In base all’epigrafe sereniana, potremmo anche vederla come un «ultimo sussulto» di gioventù precedente il varco della conradiana “linea d’ombra”.
L’io di questi versi, che come accade in poesia è insieme il protagonista e il narratore, l’oggetto e la lente con la quale lo si osserva, si dibatte nelle tipiche angosce della giovane età; diciamo nella principale di esse: l’insopprimibile esigenza di emulare il padre e contemporaneamente distinguersene. Il tu, diceva Eugenio Montale (autore fondamentale per Gatto, se ne riparlerà), è un istituto; però la naturale tendenza del lettore è quella di fornirlo comunque dei connotati di una tendenziale identità, seppur vaga e talvolta indefinibile. I “tu” della prima parte di questo volume mi fanno pertanto pensare al padre, inteso come imago fondamentale nella vicenda psicologica di ogni individuo.
La lotta per la conquista di uno spazio vitale da sottrarre all’onnipervasivo e proliferante simbolo paterno porta con sé, come si può intuire, una specifica elaborazione delle parole-tema del tempo e dell’identità, costitutive del soggetto. La chiusa della prima poesia della raccolta, che il lettore potrà reperire quindi ad apertura di pagina, è in tal senso emblematica, e non è certo casuale qui la presenza dello specchio, titolare, nella teoria lacaniana, di una fase specifica della, e fondante la, identità psicologica: «Nessuno specchio mi dice quel gemito, / il contorno che cerco / nelle strade di sempre, / forse tue, mie di sicuro» (il corsivo è mio). E ancora in una lirica successiva, a rivelare fra l’altro la grazia e l’efficacia di questa voce poetica leggiamo: «... Potesse essere facile / anche per me tracciare svolgimenti / di tema, la linea dei padri svegli che mi addormentano, la brace povera / di senso già bruciata».
Il senso indicato dai padri è sedimento inutilizzabile, se ne segue la traccia ma sapendo che non apre ad alcuna visione ulteriore, se non nella cecità. Ancora: «Caso clinico da studiare: / da bambino ho vissuto con il pegno / d'essere un ramo spoglio di sostanza. / Il dramma è del mattino, / quando un timido segno / di te, nel fondo dello specchio, / non oso riconoscerlo». Qui, «caso clinico» è suggello poetico di quella inadeguatezza ai modelli tradizionali che è propria dell’adolescente, l’essere «ramo spoglio» da rivestire di un aspetto sicuro. In queste efficaci immagini si iconizza l’angoscia di non essere visti, riconosciuti.
Si potrebbe continuare con altri esempi, ma ci distoglierebbero dal secondo corno del problema, formale solo per convenzione, ma ascrivibile in effetti addirittura all’“ontologia” o se si vuole alla fisiologia poetiche. Un grande critico letterario americano, Harold Bloom, ha affermato in un libro rimasto giustamente famoso, The anxiety of influence, che ogni poeta-figlio si crea un poeta-padre (ogni grande scrittore inventa i suoi predecessori, ha sentenziato dal canto suo l’oracolare Jorge Luis Borges) per potere aprire una via alla propria espressione poetica. Proprio per questo, per lungo tempo, egli subirà la fascinazione incontrastata della voce del padre, caricando su di sé di conseguenza un’inevitabile afasia. Ciò fa scaturire l’ansia che è insieme la molla vitale per la ricerca della propria originalità. Anzi, dice Bloom, la poesia che egli scriverà è quest’ansia stessa.
Fra poeta-figlio e poeta-padre si apre così un rapporto agonistico (spesso del tutto immaginario) molto complesso, nel quale l’efebo deve a un tempo assicurarsi il riconoscimento del padre seguendone le orme stilistico-contenutistiche (nonché di complessiva figurazione intellettuale), dall’altra distaccarsene per affermare la propria, di voce.
Così, nelle poesie di Gatto, alla dinamica psicologica dell’adolescente si affianca e sostituisce quella del poeta; il quale dovrà sia distribuire nei versi i senhal sufficienti a rendere perspicua la filogenesi, sia affrancarsene per affermare l’originalità del proprio stile. Gatto è brillante nel primo movimento, lascia ancora a desiderare qualcosa (ma, crediamo, non ci farà attendere a lungo) per quanto riguarda la seconda mossa.
Spero di non aver parlato invano, e perciò mi attardo in un esempio ulteriore: «Ancora cieco di vita ho cercato / l’abbraccio del poeta che unisce / e disancora il peso / di essere chiaro nell’identità». In questi versi la dialettica bloomiana è riproposta quasi didascalicamente. L’efebo ancora privo di riscontri identitari cerca nell’accoglimento della tradizione l’unico antidoto possibile, se pur temporaneo, all’angoscia che ne deriva.
Chi sono i poeti che Gatto elegge a suoi maestri-apripista, a suoi idoli-da-atterrare? Due, direi, sopra gli altri. Nella prima parte del volume, senza dubbio Vittorio Sereni. A parte l’esergo, mi piace qui ricordare almeno qualcuno fra i numerosissimi versi in cui è elementare rintracciare calchi, prestiti lessicali e allusioni macro-stilistiche e dunque a specifici modi di vedere, attraverso la poesia, il mondo, tipici del poeta di Luino: «Dove si è perso il tempo ha avuto seguito / un viale triste di maggio, // l’intersecarsi rapido di curve, / trasalimenti, qualche raggio lucido / e sporco di attesa e di ritorno»; «– Un punto di fuga / o un punto di sutura? – / mi chiede nella morsa inaspettata, / ruga che s’incrina nella caligine / delle sue mura cerebrali. // Ma tutto confluisce nell’ingorgo: / nel moto immoto di una nuda spiaggia / un gabbiano s’azzurra d’infinito; / un macchinista dà il segno e di verde / si striano ponti, rovi di millesimi. // Simile è il dubbio che lasciasti all’ombra / di quel geranio soffocato, all’ombra / del groviglio sospeso, all’ombra / della tua ombra»; e « – Tu, compagno – mi apostrofa / con un occhio da Ermete Trismegisto / [... / …] cos’hai da dichiarare?». In particolare questi due ultimi specimina fusi assieme rendono ben riconoscibile l’ipotesto Sul ponte dagli Strumenti umani. Tuttavia bisogna precisare che la ripresa della maniera non si spinge fino all’importazione della poetica tutta intera (la specifica forma-contenuto della poesia sereniana). Qui in Gatto non ritroviamo traccia alcuna della vitalità, del giovanilismo atletico di Sereni (per cui Franco Fortini lo prendeva un po’ in giro e insieme, credo, lo invidiava). Il suo personaggio-io sembra più incline alla meditazione melanconica, al ripiegamento nella rinuncia imbronciata, fino a un estremo di voyeurismo negativo (quell’atteggiamento cioè che, tradotto nel linguaggio filmico del capolavoro di Nanni Moretti, Ecce bombo, potrebbe corrispondere a: «Mi si nota di più se vengo e sto in disparte o se non vengo?»). E anche i paesaggi en plein air e la toponomastica circostanziatissima del poeta lombardo (e non è dato, come vedremo, poco significativo), qua si restringono fino a poveri elementi parcamente allusivi. Come nel componimento Dopo lunghe ricerche non comprendo, dove il catanzarese che scrive crede di riconoscere il quartiere del “Corvo” (e che peccato essere privati della dolcezza della sua nominazione!).
Ora, questa rapporto filogenetico con Sereni è in Gatto complicato da un dato successivo; e cioè che il secondo modello paterno da lui prescelto è senza dubbio quello montaliano, laddove, appunto, Montale è stato il padre poetico d’elezione prescelto da Sereni nella sua attività poetica sino al folto degli anni ’60; almeno, cioè fino alla sua piena maturità poetica. Può il meccanismo bloomiano spingersi fino a tanto (fino a dover prendere in considerazione un parodico ‘grandfather’ nelle dinamiche poetiche) o non è piuttosto il segno di una specifica fame di modelli in Gatto, il quale ha di certo sovrainterpretato il dettato nicciano che la profondità risiede soprattutto nelle maschere?
Montale prevale di gran lunga nella seconda parte del volume, quella per intenderci della sezione Ipotesi private, dove potremmo addirittura parlare di imitazione vera e propria e in particolare degli Xenia, celeberrima sezione di Satura: «Muto è l’urlo più vero, il tuo»; «Questa mattina ti ha portato il vento / dei sogni: ho ascoltato la voce / di mia madre chiamarti e mi sei apparsa / nel fruscio della prima luce. Poi / tutto si è spento si è ridotto al segno / che lascia quel ritratto in cui sorridi. / Mi ha detto la condanna di chi resta / al nodo del dunque». Ma si consideri soprattutto lo xenion n. 17: «La poesia era parte di te, / e non lo sapevi. / O forse una mia logica, / un mio desiderio. / Mi sforzo (mi provo) / a ritrovare i sensi, / i nessi strutturali / di due morti / in una».
Se l’organizzazione di una raccolta poetica in un libro strutturato ha un senso, e certamente lo ha, acquista un particolare significato il fatto che dalla prima alla seconda parte del volume (e in particolare in Ipotesi private) Gatto anziché emanciparsi in senso cronologico verso una assolutizzazione della contemporaneità (la sua voce a petto di quella dei ‘poeti morti’) egli addirittura regredisce all’indietro fino a recuperare la precedente autorità montaliana. Ciò mi conforta nell’intuizione psicologica di prima. C’è in Gatto una resistenza a trattenersi nella condizione giovanile, dell’esordio (verso la quale può aver congiurato il precoce lutto che è il presupposto biografico di tutta la sezione, e che congiura a far percepire non contraffatta l’ispirazione e, direi, piuttosto toccante l’espressione); seppure la strumentazione tecnica, la grazia e l’inventiva facciano ritenere che egli saprà svincolarsene a un parto col genere lirico. Anzi, direi che lo sviluppo del genere lirico tradizionale (della tradizione del Novecento italiano) è in lui il portato macroformale della resistenza di una tematica adolescenziale (per quanto questo termine, oggi che l’Associazione degli Psicologi Americani ha sancito che l’adolescenza si protrae ‘ufficialmente’ fino ai 31 anni, possa voler dire). Svanita l’una, ne discenderà un abbandono dell’altro versa una più matura, ma naturalmente rischiosa frontiera espressiva.
Ciò mi consente di introdurre il terzo aspetto del problema innestato dalla poesia di Gatto, e cioè la sua chiara dislocazione geoculturale, la sua perifericità. Non è un elemento di provincialismo, ma di quasi esibita rivolta contro la dittature delle mode, come è consentito solo a chi sta poeticamente sui margini. Certo non vi è esente una quota di neopedanteria, di autocompiaciuto postmodernismo citazionista. Anche in questo caso siamo pronti a scommettere in un’evoluzione della poetica di Gatto e in un suo affrancamento dalla “maniera del classico”, se mi è consentita l’espressione. In fin dei conti non era proprio Eliot, uno che di classici se ne intendeva, a dire che la poesia deve parlare il linguaggio impoetico del proprio tempo?
Detto questo, si goda il lettore quanto di bello, di suggestivo, di autenticamente poetico c’è, in non piccola percentuale, nei versi di Gatto e lasci al critico (e al poeta, se vorrà benignamente approfittarne) i problemi dianzi sollevati.

Renato Nisticò

(direfarescrivere, n. 10, dicembre 2006)
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