«I Balcani producono più storia di quanta ne riescono a consumare».
Se Churchill abbia davvero pronunciato questa frase, citata a un certo punto del bel volume di Andrea Cortesi e Luca Leone, La pace fredda. È davvero finita la guerra in Bosnia Erzegovina? (Infinito Edizioni, pp. 172, € 18,00) è incerto, e per qualche storico perfino dubbio. Ma non importa affatto, perché non si può non essere d’accordo sulla verità di fondo che questa frase sottende.
Ma Churchill da grande statista e uomo politico di lungo corso avvertiva almeno, a Seconda guerra mondiale ancora in corso, la necessità di dedicare grande attenzione a quel quadrante, al fine di trattenere sotto la propria influenza quei territori che considerava strategici. Pare invece che questo problema di consumo, anzi di “digestione” e assimilazione di così tanta e densa storia, a cominciare dagli accadimenti degli anni Novanta, abbia invece interessato assai poco l’Unione Europea e in parte anche gli Stati uniti, che ai Balcani e in particolare alla Bosnia Erzegovina, si sono progressivamente disinteressati. Tale denuncia, da questo volume corale che ha la forza evocativa di una Spoon River dei Balcani (non fosse che è tragicamente sulla carne ben viva dei testimoni tanto quanto su quella dei caduti, che tutto il dolore resta ancora inciso e visibile) viene costantemente ripetuta come un mantra.
Attraverso l’opera di Andrea Cortesi e Luca Leone, quest’ultimo peraltro non nuovo a libri di grande efficacia e coraggio su questo specifico tema, si può ascoltare, anzi “vedere” in presa diretta una ruvida raffica di testimonianze che hanno un fortissimo impatto sul lettore: «Belgrado, Srebrenica, Sarajevo. One way ticket. Staša, Lino, Ivana, Stefan, il 10 luglio a Belgrado, l’11 luglio a Potočari, Ifeta, Sakib, Tamara, Dragan, Dervo, Jakob, e poi Selma a Sarajevo».
Seppure a tratti troppe cifre troppo ripetute affievoliscano un po’ la forza di certi passaggi, grazie al libro si scorge la chiara esistenza di un buco nero alle porte di casa nostra. E forse in fin dei conti il fatto di ripetere ossessivamente le cifre di questa guerra, di questo massacro e di questa diaspora è proprio voluto, per colmare il tanto silenzio e la tanta ignoranza dell’opinione pubblica, per la cui gran parte tutta la faccenda si riduce semplicisticamente a un nome e a un numero: Srebrenica e i 1444 giorni di assedio di Sarajevo. E non si sa invece, tanto per limitarsi alla sola Sarajevo, «del tributo di sangue di 11.550 persone, tra cui 600 bambini, non i 1.600 di cui qualcuno parla e scrive» di cui racconta Jovan Divjak, generale e numero due dello stato maggiore bosniaco proprio tra il 1992 e il 1995, che ha fondato nel 1994 una associazione con lo scopo di aiutare concretamente i molti orfani di guerra.
Un territorio chiuso tra sogno e memoria
La Bosnia è per molti un buco nero perché poco se ne sa, meno se ne legge e ancor meno se ne parla. Un territorio tutto chiuso tra sogno e memoria, messo in una sorta di congelatore dal consesso politico mondiale, che però vera pace non è: è solo sospensione senza prospettive di futuro, per l’appunto una pace fredda. La gente in questa piccola regione del mondo vive tra la memoria di un inferno alle spalle, ma per certi versi mai terminato e il sogno di un paese progredito e pacifico mai realizzatosi.
Ma quel buco nero è anche spazio temporale; sulle ceneri della ex Jugoslavia, nell’arco di distanze geografiche tutto sommato esigue, esistono territori che si muovono con dinamiche economiche talmente diverse da risultare stridenti e con standard sociali, assistenziali, amministrativi distanti decenni, per qualità, tra di loro: basta guardare al divario enorme tra gli stili di vita nella Slovenia e nella Croazia di oggi, e quelli della Bosnia descritta nel libro per rendersene conto.
Michele del Buono nella sua Introduzione afferma una cosa molto giusta sulla tremenda guerra dei primi anni Novanta: «la guerra non è un tabù. Le guerre si fanno, chi non è stato toccato s’indigna, la Storia spiega e le tante giornate della memoria, con tutto il carico della retorica, raffreddano i fatti. Tutto è metabolizzato e il tempo che passa, poi, fa il resto del lavoro e si ricomincia».
Ma questa metabolizzazione è assai lunga e penosa. E quella sporca guerra ha per certi versi prodotto più vittime dopo la pace di Dayton che prima. Ecco il senso di queste testimonianze di gente che pur avendo la fortuna di riaffiorare da quelle nere acque adesso vi galleggia, non rassegnata ma incapace a fabbricarsi un vero motivo che possa spiegare tutto quel dolore, prigioniera di un passato fatto di intere famiglie e villaggi scomparsi, giovani generazioni emigrate, morti mai restituiti ai loro cari, donne stuprate e sfruttate, bambini abbandonati a loro stessi.
Così per sfuggire all’assurdità del reale c’è chi si dedica al sociale, chi alla ricerca delle fosse comuni per restituire le vittime alle famiglie, chi a insegnare una materia o uno sport ai bambini nati dalle violenze di guerra, chi semplicemente a coltivare una quotidianità di contatti sociali, laici e multietnici cosa che alla luce di queste testimonianze sembra incredibilmente più sovversiva e pericolosa che praticare la vendetta o la ribellione. In un paese spopolato, di soli tre milioni e mezzo di abitanti che però ha assurdamente ben quattordici costituzioni vigenti e vive un soffocante apartheid su base etnica, familiarizzare con l’alieno, con il diverso, è semplicemente tabù. Pericoloso per la propria e l’altrui salute. Non tutte le voci che raccontano le proprie storie nel libro ci restituiscono infatti le loro complete generalità, per il timore, più che concreto, di rappresaglie per se stessi o i propri familiari.
Storie tortuose e carsiche
Nelle storie che si dipanano a volte lente a volte con improvvise, violente e atroci accelerazioni, seguendo corsi tortuosi e carsici come i fiumi di quelle terre impervie, ci sono molti elementi ricorrenti che lasciamo scoprire al lettore. Ma ne vogliamo evidenziare almeno due.
Il primo è il tema della parola. Ciò che adesso divide i cittadini della Bosnia Erzegovina è solo un diverso tipo d’odio, ma uguali sono le loro radici, la storia, la lingua, le parole quindi. Solo che la guerra ha cambiato tutto e oggi non si trova più accordo su nessuna parola, a cominciare, come ci spiega Tamara Cvetković, attivista e peacebuilder, dalla stessa parola “storia”. Oggi infatti in Bosnia Erzegovina vi sono incredibilmente tre parole diverse per dire questa stessa cosa: i croati la chiamano povijest, i serbi istorija e i musulmani historija. La parola è anche quella che si insegna nelle scuole, sempre più politicizzate, quindi artefatta e contorta a fini propagandistici negli istituti pubblici e, in quota crescente, privati che si contendono i bambini delle poche famiglie giovani che non emigrano.
Le parole sono pure quelle, a prima vista rassicuranti, del soldato del tuo stesso esercito nazionale, quello da cui per decenni ti sei sentito protetto e che hai contribuito a pagare con le tue tasse, e che all’improvviso ti punta il fucile contro, intimandoti una completa sottomissione. Le parole sono quelle rimosse che non si possono più dire e nemmeno scrivere nei libri e sui giornali: četnik (parola usata per indicare gli ultranazionalisti serbi), balja (un antico vezzeggiativo, ora dal tono dispregiativo, con cui sono chiamati i musulmani bosniaci), ustaša (per indicare gli ultranazionalisti croati) e così via.
L’altro tema che non possiamo omettere è quello delle scarpe. Già, proprio le scarpe, l’oggetto più semplice e comune che si possa immaginare. Per esempio quelle che affiorano dalle crepe nel fango secco del fondo di un lago e appartenute alle vittime di Višegrad, sgozzate e poi buttate nella Drina. O quelle che Bakira Hašečić, una delle coraggiose donne bosniaco-erzegovesi che non si è mai arresa alle violenze subite, cerca e chiede senza trovarle. Quelle che emergono in un passo di una delle tante, bellissime e toccanti testimonianze raccolte nel libro che descrivono l’immediato dopoguerra fatto «di traumi e ferite in cui la priorità era trovare da mangiare, qualche vetro per chiudere le finestre mandate in frantumi da granate e cecchini, un paio di scarpe e provare a ricostruirsi una normalità».
Viene subito alla mente il Primo Levi de La tregua: «quando c’è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo alla roba da mangiare; e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovar da mangiare, mentre non vale l’inverso».
Speriamo che questo libro non sia una voce isolata e che possa dare un piccolo contributo di vicinanza alle vittime e di conoscenza. Grandi passi a volte iniziano da piccole cose. I tanti attivisti come Selma Hadžihalilović o Staša Zajović, fondatrice e promotrice del movimento delle Donne in Nero aspettano. Tutto un territorio e un’economia, che potrebbe essere perfino florida, attende di spezzare questa inerzia insalubre da economia di guerra sovvenzionata a livello internazionale, che favorisce solo il parassitismo e la rapacità delle attuali classi politiche al governo. Chiedetelo a Dragan Cvetković, figura da film, per certi versi quasi mitologica, che spunta con forza dalle pagine del libro come un tragico e paradossale pop-up, il quale coltiva i suoi lamponi nel territorio circostante Bratunac e Srebrenica. Un territorio un tempo ricco, con aziende meccaniche, ceramiche, cooperative e aziende agricole che davano lavoro a migliaia di contadini e ora ridotto ad un deserto. Lui vorrebbe essere imprenditore, capace di produrre autonomamente ricchezza, ma trova mille ostacoli «perché la povertà e la fame tornano utili ai regimi, permettono di comandare a bacchetta la pancia e i voti dei cittadini, meglio se ignoranti».
Ecco, in buona sintesi, a cosa davvero serve un libro.
Massimiliano Bellavista
(direfarescrivere, anno XVI, n. 172, maggio 2020)
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