La memoria storica va preservata poiché è semplice manipolare ciò che è stato a proprio uso e consumo. Le battaglie del passato devono essere sempre presenti nei nostri ricordi per evitare di farci condizionare nel nostro agire quotidiano. Ed è per questo che i libri sono più che mai necessari: per non permettere che la nostra storia venga manipolata per scopi indegni.
Ilario Ammendolia, scrittore, più volte sindaco di Caulonia, ci presenta un’opera che incarna questi obiettivi, dal profondo carattere sociale, oltre che storico. La ’ndrangheta come alibi: dal 1945 ad oggi (Città del Sole edizioni, pp.156, € 15,00) nasce anche dalla volontà dell’autore di far conoscere la verità sulla “Repubblica rossa” di Caulonia durante un momento particolare della vita politica e sociale calabrese: il processo di Riace.
Una cronaca che attraversa il tempo
La Prefazione di Mimmo Gangemi ci fa comprendere immediatamente il contesto in cui questa opera storica, sociale e politica è calata. Il prefatore introduce magistralmente i motivi che hanno permesso alla vecchia «onorata società» calabrese a diventare una delle mafie più potenti al mondo.
Dopo la caduta del fascismo, la fine della Seconda guerra mondiale e la conseguente nascita del moderno stato italiano, i vecchi poteri si ritrovarono quasi costretti ad allearsi con nuove forze in costante crescita per non perdere lunghi decenni di privilegi.
«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» affermava Tancredi, nipote del principe di Salina nella celeberrima opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Troppe volte, afferma Gangemi, si è dato credito alle voci che vedevano nella “Repubblica rossa” un’affiliata alla mafia e per questo l’autore Ammendolia ha sentito il bisogno di elaborare un saggio in cui presenta materiale inedito riguardante quel periodo così bisognoso di cambiamenti.
Dopo la fine di una guerra sanguinosa e per nulla sentita come giusta dalla maggior parte della popolazione, la presenza del Pci in calabrese consentì di riassorbire parte della rabbia covata in seno dal popolo: un popolo stanco, affamato e vessato, come in passato, come sempre, da un potere feudale per nulla intenzionato a morire nonostante il proprio evidente anacronismo. La repressione generale del movimento causò non poche dimostranze e, per citare lo stesso Ammendolia, «la ’ndrangheta divenne – ed è – l’alibi delle classi dirigenti per spiegare il progressivo disimpegno dello stato in Calabria».
Tutto iniziò nel marzo del 1945 quando Caulonia, cittadina del reggino, decise di ribellarsi allo status quo e di dichiararsi indipendente. La stampa nazionale non ci mise molto ad associare l’esperimento sociale a una forma becera di brigantaggio dalle venature mafiose.
Importante notare come l’autore si poggi su una serie di documenti, alcuni addirittura provenienti dal XIX secolo, per dar credito e veridicità maggiori ai fatti: la costante presenza dell’oppressore all’interno della società calabrese e il continuo accostamento alla malavita di qualsiasi forma di ribellione.
Le rivolte dei briganti, nei decenni precedenti, furono represse nel sangue più e più volte, ma essi risorsero sempre dalle loro ceneri. La popolazione non aveva i mezzi culturali per comprendere come tali briganti fossero strumentalizzati dalla reazione borbonica e papalina e li vedeva come propugnatori di una terra tolta dalle mani dei latifondisti e affidata a un popolo stremato e affamato di giustizia.
L’ingenua ignoranza
Migliaia di contadini si ritrovarono, nel corso degli anni, accusati di essere spie, briganti o malavitosi. Il potere estorceva con la paura la fedeltà altrimenti negata. L’autore si rifiuta di fare un inno ai neo-borbonici e tantomeno vuole auspicare un futuro secessionista per la Calabria: egli vuole solo mostrare, tramite la sua penna, una verità da troppo tempo nascosta agli occhi dei più.
All’interno della “Repubblica rossa” di Caulonia la mafia, come evidenzia l’autore, si mescola al popolo affamato.
Ammendolia riporta le affermazioni di Adalino Bigotti, dirigente nazionale del Pci, che ammette l’esistenza, nella struttura della “Repubblica rossa”, di squadre d’azione composte esclusivamente da individui mafiosi, da usare, secondo l’intenzione degli altri componenti del partito, per «azioni di difesa all’interno delle quali il caposquadra è per lo più un maffioso come pure il vice caposquadra. Mentre il commissario è sempre elemento politico con funzioni di controllo e propagandistiche, e diritto di veto. I compagni garantiscono della bontà del sistema» (le virgolette rimandano ad uno scritto di Piero Bevilacqua che però bon viene meglio identificato).
A capo della rivolta vi fu Pasquale Cavallaro, sindaco di Caulonia. Da sempre dichiarato antifascista, nel momento in cui scoppiò l’insurrezione popolare, ebbe contro i carabinieri che misero in evidenza i suoi precedenti penali. L’autore descrive alcuni errori di questa rivolta sociale che, però, può fieramente definirsi del popolo e lontana dagli stampi di delinquenza a cui negli anni è stata associata. Uno degli sbagli compiuti nella rivolta popolare fu quello di intimidire chiunque fosse contro di essa. L’aministia Togliatti ebbe tra gli effetti quello, assolutamente involontario, di mantenere la classe dirigente che aveva goduto dei favori del fascismo.
Per capire il contesto in cui è nato questo movimento, l’autore ricorda come nella seconda metà del 1943, dopo la caduta del fascismo, vi fu, per scelta del prefetto, la nomina a sindaco, di Saverio Asciutti che rifiutò l’incarico a causa di minacce ricevute dai delinquenti più disparati.
La sommossa che vide protagonista Caulonia partì, a parere dell’autore, dal basso ventre della Calabria in cui i mafiosi risultavano di gran lunga più popolari agli occhi degli ultimi rispetto al “potere costituito”, più corrotto di qualsiasi delinquente. Vi è dunque la doppia violenza: quella perpetrata tramite le “leggi” e quella di risposta operata dal popolo.
Nel corso dei secoli i potenti avevano modificato il modo di agire, ma continuavano a vessare gli sventurati in nome di antichi privilegi che consideravano incontestabili. Si può ben comprendere l’odio incondizionato che provavano verso quella massa di «cafoni» che cercava di ribellarsi ai loro eterni soprusi.
Vi è comunque da chiarire, come fa di fatto l’autore, che i malavitosi che parteciparono alla rivolta del 1945 non possono definirsi “mafiosi” poiché essi nulla hanno a che fare con gli appartenenti a quella che ora intendiamo per ’ndrangheta ma facevano parte della classe contadina, desiderosa di riavere la loro terra. Questo lo si può ben vedere all’interno de Le quattro giornate della Repubblica di Caulonia, scritto dal giornalista Antonio Collaci nel 1953 – utilizzato come fonte dallo stesso Ammendolia – in cui non si fa cenno ad associazioni mafiose presenti nel periodo della Repubblica di Caulonia.
L’alleanza “stato” - ’ndrangheta
Le lotte contadine, purtroppo, vennero represse nel sangue da uno stato sempre più in combutta con i “poteri forti” territoriali e con una ’ndrangheta sempre più vicina agli uomini di politica. Ammendolia racconta fedelmente i fatti di cronaca che portarono all’accrescimento del potere mafioso nel corso dei decenni.
Il saggio si conclude con una riflessione su quanto è avvenuto a Riace e con un’intervista all’ex sindaco Mimmo Lucano. L’accoglienza iniziata in maniera del tutto naturale all’interno del paesino calabro ha portato alla creazione di un progetto che si credeva irrealizzabile. Il “modello Riace”, ormai famosissimo, si basa sul recupero delle abitazioni abbandonate e delle terre incolte per ridare vita a un paese sul punto di disperdersi nel nulla. Una nuova forma di economia e di solidarietà si alleano per il bene degli oppressi. Un modello troppo scomodo, forse, per un potere mai stanco di umiliare gli indifesi.
A tal proposito bisogna sicuramente citare l’articolo del giornalista Carmine Fotia, Vista da Riace, presente sul numero de L’Espresso dello scorso 25 agosto. A Riace, una volta sconfitto Lucano e il suo progetto di “invasione” da parte di gente straniera, è stato eletto sindaco Trifoli. Il giornalista ne approfitta per parlare con gran favore del libro di Ammendolia, definendone l’autore come «uno dei coltissimi intellettuali che in questa terra disgraziata si oppongono a una lettura unidimensionale per cui ogni cosa viene ridotta a fenomeno criminale». Una recensione che dal libro passa alla casa editrice che viene definita come «raffinata». Un giusto riconoscimento, aggiungiamo noi, del fitto impegno editoriale che quotidianamente viene svolto dallo staff della casa editrice reggina e, in particolare, dall’accoppiata vincente costituita da Franco Arcidiaco e da Antonella Cozzocrea.
L’intervista finale a Lucano conclude degnamente un saggio che non vuole certo nascondere i demeriti di una terra che nel corso dei secoli non ha avuto abbastanza forza per ribellarsi a un destino che sembrerebbe segnato, ma ne evidenzia la caparbietà a voler lottare per un futuro migliore.
Rosita Mazzei
(direfarescrivere, anno XV, n. 165, ottobre 2019)
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