«Oreste! Non sono io il pazzo ma sei tu che ti preoccupi per me e non ti accorgi di essere uscito in mutande!» così esclama Norberto, vicino “di casa” di uno dei protagonisti, Oreste, uomo affetto da problemi mentali e chiuso in un manicomio che corre in soccorso del suo amico (in mutande) quando lo vede fare dei numeri da circense per strada.
L’uomo vuole andare sulla luna senza calpestare le aiuole di Salvatore D’Ascenzo (Erga Edizioni, pp. 96, € 13,00), più che un semplice libro, può essere definito come un piccolo viaggio, intenso e delicato ma al contempo incredibile e reale.
Si sogna o si è desti?
Il libro ha un titolo lungo, paradossale, apparentemente privo di senso e che può risultare addirittura fuorviante. Fuorviante almeno per quanti potrebbero aver avuto l’illusione di avere tra le mani un romanzo di fantascienza. Chissà perché poi: sarà per quella luna, oggetto del desiderio di chi vuole raggiungerla senza calpestare niente e nessuno.
Leggendo si ha, fin dalle prime pagine, l’impressione di cadere in un sogno vigile nel quale nulla è davvero come sembra. Un viaggio che si vive tutto d’un fiato grazie alla struttura del romanzo in brevi racconti che diventano piccole tappe verso vite e universi differenti: e allora si passa dall’angoscia del clochard che osserva un paesaggio metropolitano immerso in un’atmosfera natalizia tanto fredda quanto finta, al disagio di un giovane Ippolito alle prese col “vestito buono”, con gli auguri e gli “anche a te e famiglia” ripetuti all’infinito come un mantra a parenti sconosciuti durante uno stereotipato pranzo di Natale, dal quale desidera fuggire come da una casa infestata da ghignanti presenze vestite a festa per l’occasione e pronte a rivolgere a destra e a manca domande, sorrisi e affettuosi scappellotti di circostanza. Tutto senza aspettare nemmeno una risposta.
Si incontrano, strada facendo, personaggi strampalati e originali come Cesare, capace di essere recluso a Trani e contemporaneamente a Kathmandu o come Aldebrando, Cristaldo, Manila e l’odiato, taccagno e sinistro Torquato Meningite.
L’amarezza dell’immedesimazione
Si ritrovano echi calviniani in questi piccoli racconti che viaggiano parallelamente l’uno all’altro possedendo, tuttavia, un filo invisibile che li connette: il disagio degli ultimi, di coloro che la realtà, rigida, superficiale e conformista, taccia come perdenti, fuori dalle consuetudini e dai modelli imposti da una società che non li vede, non li comprende, non li integra; insomma che non li vuole.
Non solo. Tali ultimi, a dispetto dell’angoscia provocata dal loro non essere, non sentirsi o, addirittura, non voler essere parte di un tutto, hanno un’elevata sensibilità che il resto del mondo non mostra, troppo preso com’è a costruirsi identità basate su dogmi radicati ma allo stesso tempo paradossalmente effimeri. Quindi, con forte ironia, si mostra come siano loro, in realtà, dal margine in cui si trovano costantemente a vivere, a essere parte in maniera profonda del mondo: poter cogliere la bellezza di una margherita, sentire la sua “voce” o percepire i sentimenti di una pianta abbandonata sul ciglio di una strada trafficata e assolata, in cerca di aiuto e infine raccolta come se fosse un cucciolo sperduto. Solo loro riescono a vedere oltre: «La strada è la mia casa, tutto ciò che mi circonda è una risorsa… Uso le mani per mangiare e gli occhi per osservare».
Inoltre in questo sogno a occhi aperti lungo novantasei pagine – leggere e delicate anche nel descrivere situazioni più affini a un incubo – ognuno di noi può entrare in contatto con una parte di sé e sorriderne. Talvolta in modo bonario, talvolta invece in maniera più amara. Potrà, allora, identificarsi nei tristi desideri realizzati per metà di Manila, immedesimarsi nel disagio di una Marta che, intrappolata (o, meglio, imprigionata) nell’immagine che le restituisce uno specchio impietoso, in un corpo che il mondo reputa poco attraente, immagina per un momento di potersi liberare dal sentimento di inadeguatezza e poter finalmente volteggiare come una danzatrice professionista, anche se solo per un attimo e all’interno di un negozio, di fronte agli sguardi di un pubblico beffardamente stupito di cassiere e silenti manichini. Potrà sentire la stessa rabbia e la stessa frustrazione, trascinate sadicamente a un eccesso che nasconde in sé una vena di amara ironia, di Diego, in una catarsi che si realizzerà pagina dopo pagina, racconto dopo racconto. E, viene da chiedersi, in fondo, chi di noi almeno una volta nella vita non si sia sussurrato quel “posso farcela”, durante il Natale, che Ippolito si ripete.
Una scrittura piacevolmente disordinata
Lo stile dell’autore è schietto e diretto, caratterizzato da periodi brevi ed efficaci. La lunghezza dei racconti non è omologata e non esiste una vera e propria trama, rendendo al meglio l’idea dell’incostanza e incertezza della vita.
Un libro che ci forza piacevolmente a riflettere sui nostri atteggiamenti, oramai di seconda mano in una società che si appiattisce alla mediocrità, e che ci spinge a intingere con un po’ di colore e “pazzia” i nostri pensieri ingrigiti dal tempo. Ed è vero, alla fine. I protagonisti vogliono andare sulla luna ma stanno bene attenti a non calpestare nulla, nemmeno un’aiuola. Il tentativo, maldestro in alcuni casi, di emergere dev’essere fatto in silenzio, senza disturbare, con la discrezione di chi, in fondo, è abituato a essere l’ultimo.
Adriana Colagiacomo
(direfarescrivere, anno XV, n. 156, gennaio 2019)
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