C’è un pensiero ormai abbastanza comune e ricorrente nel mondo dell’editoria ed è quello che “i racconti non si vendono”.
Le ragioni sembrano essere sconosciute; forse la paura che possa esserci un probabile calo dell’attenzione da parte del potenziale lettore nel ritrovarsi una serie di storie non legate tra loro, forse la smania degli autori di essere in dovere di fronteggiare qualcosa di più “grande”, dove l’aggettivo di solito va a colmare solo la definizione di lunghezza, senza però che essa vada a tradursi automaticamente in termini di qualità.
Tuttavia, nonostante questi timori (più che legittimi), sono tanti quelli che scrivono racconti e sanno farlo anche bene.
È il caso di Massimiliano Bellavista e di Anatomia dell’invisibile (Edizioni Tabula Fati, pp. 168, € 13,00); una raccolta di diciannove storie, un numero che sembra volutamente imperfetto: un po’ come imperfetti sono gli uomini, come lo è la vita.
Storie di tutti per tutti
Ed è proprio di questo che parlano questi racconti, delle gioie e delle difficoltà che si possono incontrare tutti i giorni, che si tratti di una donna vedova che trova la sua seconda possibilità – e, perché no, un po’ di compagnia – in un uomo più giovane o di un musicista che cerca di combattere la sua solitudine in tutti i modi, a tutti i costi, oppure di coppie che cercano di capire, con la presenza o l’assenza, quel sentimento misterioso chiamato amore.
Sono sicuramente personalità con le loro caratteristiche precise, a cui l’autore ha donato, tramite la sua scrittura, un’anima e un cuore; tuttavia possono comunque rivestire un valore universale perché le situazioni con cui si rapportano possono accadere a chiunque.
Ogni lettore si può riconoscere nei sentimenti e nelle paure descritte; un esempio lampante è rappresentato dalle figure genitoriali, soprattutto da padri che, ognuno a modo loro, cercano di sostenere i figli e di proteggere i loro progetti e i loro sogni, piccoli o grandi che siano, arrivando perfino a rifugiarsi nel loro mondo popolato da fate ed elfi.
Lo stile
Questo coinvolgimento è possibile anche per la modalità che l’autore ha scelto di utilizzare; i personaggi si rivolgono spesso a un “tu” immaginario rendendo quindi il lettore una parte fondamentale della vicenda, uno specchio in cui tutta la storia può convergere riflettendo le emozioni. Lo stile inoltre è semplice ma non per questo superficiale; infatti Bellavista ha la straordinaria capacità di comprendere quando può utilizzare delle parole più ricercate o specialistiche senza però diventare ostico o illeggibile. A volte è sfruttata anche la tecnica delle scatole cinesi – una storia all’interno dell’altra – e nella quale si comprende quanto la struttura di questi racconti sia solida e quanto le conoscenze dell’autore siano varie, permettendogli di diventare i suoi personaggi, spaziando dalla musica alla filosofia, fino ad arrivare alla cultura irlandese e al giardinaggio.
È interessante poi l’utilizzo che fa del materiale più “moderno” – come le definizioni in svedese dei diversi mobili di una nuova osteria – o della similitudine di cui possiamo ammirare un esempio in queste parole:
«Il gufo forse non sapeva cantare, e la fenice conosceva a menadito l’armonia, ma il gufo aveva dalla sua il ritmo, con esso la melodia e il suo più potente alleato, il tempo […] il gufo è l’uccello della sventura ed è vero, anche del silenzio. Ma si scordava che chi conosce il silenzio conosce la musica. Quella melodia, composta di suoni sgradevoli se presi singolarmente, era in grado di catturare lo spirito di chiunque, proprio come la sequenza di semplici amminoacidi di una catena di DNA può generare un virus letale capace di impadronirsi di un corpo. […] No, non c’è una morale, c’è solo la voglia di trattenerti. Io sono il gufo e so solo gridare ma valgo ancora e forse più di qualunque altro essere scintillante e appariscente che ti attende là fuori».
Il filo conduttore
Leggendo tutto d’un fiato questa raccolta potrebbe sembrare che non ci sia un tema specifico che leghi istantaneamente queste storie, questi personaggi.
Invece il filo conduttore c’è, anche se può non essere di immediata percezione, ed è presente in ogni pagina, a cominciare dal titolo che evidenzia qual è il fine ultimo dell’autore: quello di analizzare, in maniera quasi scientifica, la struttura di un qualcosa di non meglio definito, dell’“invisibile” appunto.
Ma cosa sarà mai questo invisibile? Sono le emozioni che proviamo nei confronti di una persona amata, il bagaglio di dubbi e fallimenti che ognuno di noi si porta dietro, il bisogno per un pittore della sua arte e della ricerca di una musa che possa ispirarlo. Un qualcosa che non si può definire, o che al contrario può avere molti nomi; qualcuno potrebbe chiamarlo “anima”, qualcun altro “cuore”, altri ancora potrebbero dire che è la speranza che alberga in ognuno di noi e di cui questo libro si fa stendardo.
Il bello è che non deve esserci necessariamente una risposta giusta o una sbagliata; ognuno leggendolo può esporre il suo punto di vista, ritrovarsi in queste storie e, magari, poter trovare anche le risposte per la sua personale storia.
Maria Chiara Paone
(direfarescrivere, anno XIII, n. 143, dicembre 2017)
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