È accaduto a Locri, la mattina del 20 marzo 2017: «Don Ciotti sbirro» e ancora «Più lavoro, meno sbirri». Queste alcune delle scritte apparse, a meno di ventiquattro ore dalla visita del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nella cittadina calabrese, sui muri del Comune e dell’arcivescovado dove era ospite – in occasione della giornata in ricordo delle vittime di mafia – proprio il presidente dell’Associazione “Libera, don Luigi Ciotti. Le frasi e i luoghi scelti non sono stati casuali: si doveva lanciare un messaggio ben preciso a tutti quelli che si schierano a favore della legalità, agli “infami”, e ricordare che il lavoro ai giovani lo può dare solo la ’ndrangheta. La risposta della città è stata forte e si può riassumere in altre due frasi: la prima stampata su uno striscione del Comune –«Orgogliosamente sbirri per il cambiamento» – l’altra pronunciata dallo stesso don Ciotti –«Siamo tutti sbirri» – durante la manifestazione del 21 marzo 2017, che ha radunato in corteo 25 mila persone.
Perché ci sono uno stato e una chiesa che la criminalità organizzata – sia essa cosa nostra, ’ndrangheta, sacra corona unita, camorra – la combattono con le parole, le azioni e, purtroppo, spesso con il sacrificio di tanti che hanno scelto di schierarsi dalla parte giusta e di non restare a guardare. Ma ci sono, ancora, uno stato e una chiesa che preferiscono non reagire, girarsi dall’altra parte, tacere o peggio camminare a braccetto coi criminali. Il rapporto tra chiesa e criminalità organizzata è dunque estremamente ambivalente: questa dualità è ben spiegata dal saggio intitolato la ’ndrangheta davanti all’altare (Sabbiarossa edizioni, pp. 176, € 15,00), scritto a più mani dai giornalisti e scrittori Paola Bottero, Francesca Chirico e Alessandro Russo, dalla ricercatrice Romina Arena e dall’avvocatessa Cristina Riso e con i contributi del Pm Giuseppe Creazzo, don Pino Demasi, don Giacomo Panizza e don Ennio Stamile.
Ciò che emerge chiaramente dal libro è il fatto che la ’ndrangheta – come le altre organizzazioni criminali – abbia una “religiosità” tutta sua, fondata su riti e su interpretazioni del Vangelo piegate, di volta in volta, ai bisogni degli “uomini d’onore” e delle “famiglie”. In tal senso, risulta particolarmente efficace suddividere gli argomenti affrontati seguendo i dieci comandamenti: ciò mostra come i boss e gli affiliati alle cosche, pur professando di essere “bravi cristiani”, siano in realtà in totale opposizione rispetto alla parola di Dio e come, talvolta, la chiesa stessa vada nei fatti contro i dettami del Vangelo.
Il primo comandamento: non avrai altro Dio all’infuori di me
La ’ndrangheta, come tutte le altre organizzazioni criminali, fonda il proprio agire sull’esercizio del potere e la ricerca del consenso: il potere, in particolare, si autolegittima mediante le ambivalenze della stessa religione cattolica, giacché Dio – da un punto di vista teologico – è una figura amorevole ma al contempo vendicatrice. È per questa duplice valenza che i mafiosi non avvertono incompatibilità fra la loro “cultura” e mentalità e quanto affermato nella Bibbia. Anzi, i boss percepiscono il loro potere – in particolare quello sugli affiliati – come affine, in qualche modo, a quello che Dio esercita sugli uomini e per questo si sentono legittimati a disporre della vita e della morte; è per questo, infine, che con il rito del “battesimo”, quando l’affiliato brucia il santino di San Michele Arcangelo, viene sancita l’obbedienza al boss e alla “famiglia”.
Il boss e la sua volontà diventano il dio e la sua parola per gli affiliati. In questo modo, la chiesa può diventare – anche in modo inconsapevole – un mezzo per ampliare il potere nella comunità: quando tollera o non vede e, allo stesso tempo, quando non nega il perdono ai peccatori, consentendo ai mafiosi di “assolversi”.
Per fortuna non sono mancate negli anni delle prese di posizione dure da parte della chiesa nei confronti della mafia. In particolare la chiesa calabrese ha avuto un grande risveglio di coscienza, definendo la ’ndrangheta un “cancro” che uccide la vita e ne calpesta i valori e sottolineando la necessità di cambiare la mentalità – soprattutto delle nuove generazioni – affinché il mafioso non sia più percepito come modello da seguire. Affermare che la ’ndrangheta – e tutte le organizzazioni criminali – non ha nulla a che vedere con il Vangelo è dunque fondamentale; ma altrettanto importanti sono state le azioni di alcuni preti e vescovi che si sono rifiutati di celebrare i sacramenti per i mafiosi, che hanno negato il perdono prima di una reale conversione, fino alla scomunica.
Il secondo comandamento: non nominare il nome di Dio invano
La ’ndrangheta utilizza la religione e i suoi riti, sfruttandone i riferimenti, come fattore d’identità ed elemento per ottenere legittimazione sociale inserendosi nelle celebrazioni come nelle feste popolari – anche finanziando questi eventi – per rafforzare il controllo sul territorio e il proprio dominio; oppure sfruttando i sacramenti per stringere alleanze e rafforzare i legami tra le “famiglie”. Tutto questo contribuisce a confermare l’idea che la ’ndrangheta sia «un’inevitabile componente nella società calabrese»; al punto che essa si sente autorizzata a usare un santuario come quello della Madonna di Polsi, nella Locride, come sede per gli incontri annuali, durante i quali i boss decidono come si svilupperanno “gli affari delle famiglie”.
Ma cosa può e deve fare allora la chiesa? Certamente denunciare questi atti e pronunciarsi a favore della legalità, ma soprattutto agire; agire e testimoniare la giustizia perché se il popolo di Dio trova un padre che li guida riscopre la forza di reagire per «trasformare le terre di Caino in terre di Abele».
Il terzo comandamento: ricordati di santificare le feste
Il tema delle feste religiose rappresenta una questione fondamentale quando si parla di ’ndrangheta e criminalità organizzata in generale. Radunarsi in un santuario in occasione della festa della Madonna o portare a spalla i Santi in processione diventa atto dimostrativo della forza della ’ndrangheta nei confronti dell’intera comunità e rappresentazione della propria gerarchia criminale: diventa un appropriarsi del significato delle festività per piegarlo alla propria volontà di dominio e potere.
Lo diventa ancor di più, se si pensa che i posti come portantini vengono assegnati – come degli appalti – in base alle offerte in busta chiusa e che è proprio durante le festività che avvengono la maggior parte dei delitti e dei regolamenti di conti, in modo che sia più facile ricordarli perché legati a una ricorrenza. In questo ambito chiesa e collettività dovrebbero agire insieme, nell’intento comune di riappropriarsi del reale senso delle festività: la chiesa negando alle “famiglie” la possibilità di occupare i posti sotto i Santi e dirigere le processioni; la collettività ritrovando il coraggio di rivendicare posizioni che spettano di diritto ai fedeli.
Il quarto comandamento: onora il padre e la madre
Uno degli aspetti più contraddittori della ’ndrangheta – e di tutte le organizzazioni mafiose – è il rapporto con la famiglia di provenienza in relazione a quello con la “famiglia”. Per gli uomini di mafia, con il battesimo si rinnega la famiglia di provenienza per onorare solo ed esclusivamente la nuova “famiglia” e questa appartenenza implica anche la possibilità di eliminare i propri consanguinei se diventano di ostacolo alle attività mafiose.
L’esempio più eclatante riguarda i testimoni di giustizia, i pentiti, che devono essere eliminati per restituire “onore alla famiglia”; aspetto questo che non esclude le donne: uccise o portate al suicidio devono comunque essere eliminate per evitare il disonore. La contraddizione è evidente soprattutto in relazione alle donne: se l’uomo “d’onore” deve obbedienza alla “famiglia”, le donne legate a un boss o un affiliato devono assoluta obbedienza a questi uomini e non sono libere di decidere nulla, devono solo rispettare il padre o il marito e le decisioni che essi prendono per loro.
In questo caso specifico quindi, a seconda degli attori, il codice d’onore della ’ndrangheta viene declinato in maniera diversa e lo stesso dicasi per il quarto comandamento. Ma cosa dovrebbe fare la gerarchia ecclesiastica quando il figlio di un boss intende onorare il padre chiedendo la celebrazione dei funerali religiosi? Ci sono preti che non negano i funerali cattolici ai mafiosi, perché, come ha affermato Piero Sansonetti quando era direttore del quotidiano Calabria Ora, «anche un boss ha diritto a un funerale pubblico». Ci sono invece preti che, pur non esprimendo un giudizio sul defunto, hanno il coraggio di negare i funerali solenni ai mafiosi per dare continuità all’impegno nella lotta contro la criminalità organizzata; soprattutto se questo impegno è in linea con una decisione preventiva degli organi di stato. In questo senso quindi, certe decisioni diventano la prova di una volontà comune di stato e chiesa nel combattere la mafia.
Il quinto comandamento: non uccidere
È in assoluto il primo dei comandamenti a essere completamente capovolto dai mafiosi quando giurano fedeltà alle “famiglie”. Dimostrare la propria prontezza a uccidere, senza fare domande o avere ripensamenti, è il primo atto che uno ’ndranghetista deve compiere per poter essere chiamato “uomo d’onore”. Questa prontezza non deve venire meno neanche quando l’ordine è quello di uccidere un sacerdote: è successo con don Giuseppe Diana e don Pino Puglisi, perché con le loro azioni stavano cambiando lo status quo nelle loro città; ma è successo anche con altri preti che invece avevano un altro tipo di frequentazioni e, per questo, sono stati considerati esponenti di qualche “famiglia” ed eliminati nelle faide.
Ma non mancano episodi piuttosto controversi, di sacerdoti pubblicamente antimafia che poi vengono indagati come soggetti vicini alle cosche e da queste avvicinati per organizzare degli agguati. Sacerdoti che, dunque, pur conoscendo le intenzioni omicide dei mafiosi, scelgono di non denunciare. Elemento questo totalmente stridente con le posizioni dichiaratamente antimafia espresse dalla chiesa e soprattutto con le parole contenute nel Vangelo, parole pronunciate con forza nel 1993 da Papa Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi ad Agrigento: «Dio ha detto non uccidere! Non può l’uomo calpestare questo diritto santissimo di Dio!».
Il sesto comandamento: non commettere atti impuri
Anche in questo caso emergono con forza le contraddizioni mafiose, che piegano il significato di questo comandamento a proprio uso e consumo. L’apparenza in questo caso è tutto: gli uomini di mafia in privato possono fare ciò che vogliono con le donne, l’importante è che questo non diventi di dominio pubblico, che non si venga a sapere e che non vengano messe in giro voci in merito. Inoltre, se un membro della “famiglia” viene tradito, deve riprendersi l’onore eliminando i peccatori: la moglie e l’amante. Questo atteggiamento vale anche nei confronti delle altre donne della famiglia, siano esse figlie, nipoti o cognate; l’importante è regolare i conti.
Poco conta poi l’ipocrisia nello sfruttare il sesso e le donne per arricchirsi, con i night club, le escort e la prostituzione in strada. O, peggio, usare la violenza sessuale per imporre il potere maschile sulle donne o come minaccia.
E la chiesa come si pone nei confronti di questo comandamento? Ci sono uomini e donne di chiesa in Calabria che ogni giorno sono in prima linea per aiutare chi ha subito violenze e abusi; un aiuto che si concretizza non solo nel sostegno per denunciare, ma anche per riprendere in mano la propria vita, diventando testimoni di amore universale, sulle orme di don Andrea Gallo che era prete fra quelli che vengono considerati “ultimi” dalla società. Purtroppo non mancano esempi di preti che non si sono lasciati frenare né dalla legge terrena né da quella divina commettendo atti impuri, dalla violenza alla pedofilia, e cercando di nascondersi dietro l’abito talare e minacce di tipo mafioso.
Il settimo comandamento: non rubare
Se da un lato la ’ndrangheta ruba vite, denaro e soprattutto futuro, dall’altro c’è anche una chiesa che decide di rubare i giovani e i disoccupati alla ’ndrangheta per inserirli in un percorso lavorativo e di impegno, soprattutto nel sociale, in modo da dar loro una nuova prospettiva, affinché comprendano che può esistere un futuro diverso, senza lasciarsi intimorire dalle minacce. È una chiesa che decide di riappropriarsi dei beni confiscati alla criminalità organizzata per restituirli alla comunità con progetti sociali legati all’agricoltura o alle cooperative, come fa da anni l’Associazione “Libera” istituita da don Ciotti.
Ma la chiesa non è purtroppo immune alle logiche del potere e all’avidità: non mancano infatti nelle sue fila figure che si sono arricchite o hanno sfruttato i più deboli per dare sfogo alle proprie passioni personali, spesso con la collaborazione di una politica corrotta. Anche per questo motivo papa Francesco sta cercando di attuare una profonda rivoluzione in seno alla chiesa, affinché diventi davvero una «chiesa povera, vicina ai poveri».
L’ottavo comandamento: non dire falsa testimonianza
Per la ’ndrangheta il tema della falsa testimonianza si pone su un doppio binario: quello che il suo stesso codice definisce della “politica” e della “falsa politica”. Nel primo caso si intende il linguaggio interno alle “famiglie”, quello che permette ai boss e agli affiliati di comunicare tra loro; nel secondo caso invece si intende invece ciò che viene comunicato all’esterno, ai poliziotti e agli “indegni” per proteggere le cosche e i loro affari.
In tal senso, quindi, la falsa testimonianza è per la ’ndrangheta quella dei testimoni di giustizia, di coloro che denunciano, dei pentiti che raccontano allo stato come avvengono le trattative e fanno i nomi delle persone coinvolte. Secondo il codice della ’ndrangheta, chi testimonia diventa traditore e il tradimento deve essere punito con la morte.
Questa dicotomia tra pubblico e privato, tra “politica” e “falsa politica” contribuisce purtroppo a rafforzare anche l’omertà delle comunità, elemento da cui non si possono escludere neanche i sacerdoti e, purtroppo, su più fronti: da quelli che hanno testimoniato a favore di mafiosi perché considerati “bravi cristiani”, a quelli che fingevano di non sapere di sequestri o regolamenti di conti, fino a negare l’evidenza.
Un ulteriore aggravante risiede nel fatto che spesso i mafiosi comunicano e si vanno a “lavare la coscienza” nel confessionale e i preti, legati al vincolo della segretezza, ne coprono l’operato. Questo aspetto favorisce purtroppo le cosche, rendendo i sacerdoti degli “affiliati” anche senza la formalità del rito.
In Calabria però ci sono anche tanti religiosi “di trincea” che non tacciono, che durante le omelie raccontano fatti e fanno nomi, che negano la confessione agli ’ndranghetisti e che sono sempre al fianco di chi decide di denunciare: sono preti che hanno scelto di essere non solo ministri di Dio, ma anche – e soprattutto – cittadini dello stato, consci che l’omertà non è insita nelle persone e che è necessario sostegno per ritrovare il coraggio di testimoniare. Sono sacerdoti come don Ennio Stamile e don Giacomo Panizza.
Il nono comandamento: non desiderare la donna d’altri
Le radici culturali sulle quali si innesta il codice d’onore della ’ndrangheta sono profonde e particolarmente legate alla religione. La chiesa cattolica infatti condanna l’adulterio e, nel Meridione, ciò ha assunto una connotazione morale molto forte nelle diverse comunità: è infatti su questo elemento che si fonda la mentalità mafiosa.
Per la ’ndrangheta il vincolo di fedeltà che lega una donna a un “uomo d’onore” deve essere rispettato ciecamente, altrimenti si compromette reputazione di quest’ultimo: se disonorato, l’uomo deve infatti uccidere la donna adultera, per ripristinare il proprio onore. Va certamente sottolineato come questo vincolo si estenda a qualunque donna appartenente alla “famiglia”, anche se vedova. Non importa che tipo di parentela ci sia, se una donna della “famiglia” tradisce il proprio uomo, anche se defunto, deve essere eliminata per restaurare l’onore del clan.
In tal senso, la chiesa non si è ancora pronunciata in modo netto. Essa condanna fermamente gli omicidi, ma più complessa si fa la strada quando si parla di donne infedeli, dal momento che, secondo la prospettiva cristiana, l’infedeltà rimane comunque un peccato; poco importa se si tratta di un modo per lasciarsi un cruento passato alle spalle.
Il decimo comandamento: non desiderare la roba d’altri
È cosa nota come il potere e la sua visibilità si fondino molto spesso sul possesso di beni: più beni si accumulano più si è ritenuti potenti e, quindi, rispettabili. Su questi assunti si basa l’atteggiamento mafioso: è fondamentale infatti accaparrarsi i beni altrui, a cominciare dai terreni, espropriandoli con metodi criminali.
In Calabria, la terra è il primo bene che denota lo status sociale e il prestigio: più se ne possiede e più si è temuti. Ma la sete di potere va oltre il mero possesso di beni materiali: essa per la ’ndrangheta è diventata ha portato a un’appropriazione diretta delle cariche politiche, non solo sul territorio calabrese. Controllare la politica – scegliendo di volta in volta i candidati più utili ai propri scopi, senza alcun riguardo a valori o ideologie – significa appropriarsi della “cosa pubblica” per pianificare le proprie strategie e i propri affari in totale libertà.
Anche certa chiesa non è immune al fascino del potere: non mancano infatti esempi di prelati che hanno curato i loro loschi interessi, riducendo le diocesi a veri e propri feudi personali, ponendo nei posti giusti persone in grado di garantire continuità ai loro progetti, sino a creare delle vere e proprie reti clientelari. Per fortuna, viene da dire, esiste ancora una chiesa che, invece, della “roba d’altri” non sa cosa farsene, che comprende la necessità di creare lavoro onesto per evitare il clientelismo e per dare alla gente l’opportunità di riflettere e attivarsi per il cambiamento.
Una chiesa che, talvolta, deve andare contro le gerarchie della chiesa stessa per poter fare la cosa giusta.
Elisa Barchetta
(direfarescrivere, anno XIII, n. 138, luglio 2017)
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