Anno XXI, n. 230
aprile 2025
 
La recensione libraria
Un’accurata analisi della figura
dell’imperatore Diocleziano
in un gioco di affetti e politica
Da Città del Sole, il terzo volume della raccolta
incentrata sulla storia dell’Impero romano
di Stefania Ciavattini
Gerardo Passannante è uno scrittore di altissimo livello. Dopo una ragguardevole produzione letteraria che spazia dal romanzo al saggio e alla poesia, ha iniziato la pubblicazione de Il declino degli dèi, di cui l’Elogio della menzogna (Città del Sole Edizioni, pp. 195), è il terzo dei dieci volumi che costituiranno l’intera raccolta.
Il periodo considerato dall’autore è quello tra il III e IV secolo d.C., durante il quale l’Impero romano e i suoi principi istitutivi cominciano a sfaldarsi, non solo per la vitalità di nuove popolazioni, che forzano i suoi confini, ma anche per il corrompersi dei suoi costumi sociali e il diffondersi del Cristianesimo.
Intere generazioni di studenti hanno guardato a questo periodo focalizzando l’interesse sulle persecuzioni che tanti santi e martiri hanno prodotto all’epopea cristiana; qui l’ottica è rovesciata.
Come molti storici, da Gibbon a Mazzarino, che hanno restituito dignità e parola agli sconfitti, Passannante si pone dal punto di vista di Diocleziano e del suo fallimentare tentativo di puntellare, con la tetrarchia, l’Impero.

Il linguaggio
Il linguaggio con cui l’autore si esprime in questo romanzo storico non è appesantito da citazioni documentaristiche, come ha invece scelto di fare l’altra grande interprete di una figura imperiale, la Yourcenar, nella sua storia di Adriano.
La cultura storica viene lungamente rielaborata da Passannante, che ci immerge immediatamente nel contesto del tempo e nell’anima dei personaggi. Il suo è un linguaggio alto e raffinato, ma assolutamente non “elitario”, uno stile classico, al di là delle molte parole nuove utilizzate, denso e mai sovrabbondante. L’espressione fluida e orecchiabile sembra sorretta da qualche forma di metrica e, forse, l’esperienza poetica dell’autore non è estranea alla sua riuscita.
Grazie a questo equilibrio la scrittura si presenta perfettamente aderente ai grandi temi che tratta, nei quali l’uomo si dibatte fin dalla sua comparsa terrena, ma è anche assolutamente in grado di farsi leggera e ironica, come nella digressione sul Diavolo: un passo di estrema piacevolezza, in cui lo scrittore sembra ammiccare al lettore, presentando le varie trasformazioni subite da Lucifero, “il portatore di luce”, dipinto con tratti positivi che vengono via via annullati da chi detiene il potere religioso.

Il racconto
La parte principale del romanzo ci presenta dunque Diocleziano nel suo duplice aspetto di statista e uomo privato; ma non si tratta già più dell’imperatore di grande equilibrio e tolleranza, doti che lo avevano portato al successo. Paragonato a Massimiano, l’augusto che lui stesso ha scelto, e a Galerio, a cui ha deciso di conferire lo stesso potere, certo Diocleziano emerge per intelligenza politica e conoscenza umana, ma l’autore suggerisce che qualcosa di profondo sta cambiando in lui. Lo fa attribuendo all’imperatore un’eccessiva fretta nell’agire, quel tipo di fretta che assumiamo quando capiamo di essere in pericolo.
L’altro indizio si coglie nella risolutezza con cui Diocleziano ritiene di poter sconvolgere la vita affettiva di chi dovrà servire la causa dell’Impero: Costanzo è costretto a lasciare al più presto la sua concubina per sposare la figlia di Massimiano; Galieno dovrà ripudiare la moglie e sposare la figlia stessa di Diocleziano.
Attraverso la storia di alcuni di questi personaggi improvvisamente chiamati a stravolgere le proprie aspettative, l’autore ci offre un quadro della natura umana davvero dettagliato e toccante.
Il legame tra Costanzo ed Elena, così intriso di passione e di interesse, ci porta nel groviglio dei nostri sentimenti, mentre all’amarezza di Aureliano per la perdita tragica della moglie Lucrezia e di Valeria è negata persino la consolazione del ricordo, a sua volta evanescente.
Ancor più grave è la perdita d’intesa fra Diocleziano e la moglie Prisca, intrinsecamente legata alla perdita di lucidità politica dell’imperatore. Difficile stabilire quale aspetto venga prima; l’amore e l’ammirazione per il suo “Diocle” erano una sola cosa per Prisca e questa unità consentiva a lui di non avvertire la pesante solitudine del potere. Finito il periodo magico del pieno vigore, Diocleziano, nonostante l’apparente risolutezza, cerca un rifugio che dia senso alla sua vita, e la durezza con cui si impone di relegare Prisca in un angolo remoto del Palazzo e insieme della sua mente, ci rivela tutta la sua debolezza.
L’autore, in una delle digressioni che interrompono il racconto, ma che pure ne costituiscono parte integrante perché ci danno importanti chiavi di lettura dei personaggi e dell’umanità, aveva già messo in luce come la religione e l’arte fossero creazioni dell’uomo, nel suo tentativo di continuare in qualche modo la propria vita dopo la morte. Diocleziano affida tutto se stesso alla “religione” dell’Impero, quasi potesse, ancora in vita, stabilire per sempre lo strumento organizzativo in grado di renderlo eterno.
È il male della mente, odierna versione del vecchio diavolo di cui al capitoletto già citato, che incombe su Diocleziano e ne detta, da questo momento, sempre più le azioni.
Il frequente rimando a grandi autori del passato, tra tutti Tolsoj, e a fatti storici diversi eppure simili, come il nazismo e il conseguente olocausto, ci riporta continuamente all’evidenza che, artisticamente, sotto i personaggi che via via incontriamo, c’è l’uomo, ci siamo noi nella nostra perdurante limitatezza.
L’altra importante digressione riguarda appunto questo aspetto.
Nell’Encomium mendacii si comprende come, per menzogna, l’autore non si riferisca a singole coscienti bugie, ma a una condizione più generale, a quella “penuria di assoluto” in cui avevamo visto già deperire l’idea di un amore persistente, alle molte maschere che indossiamo nella vita di relazione, finendo “con l’assumerle come una seconda pelle, la più autentica” e attraverso le quali, “così perfettamente allineati al passo con il ritmo dell’esteriorità e dell’apparenza, riprendiamo il commercio umano con legittima ipocrisia, altrimenti detto, con legittima menzogna”.
Eppure la vita non potrebbe procedere altrimenti, i politici non potrebbero governare, gli scienziati non potrebbero portare avanti le loro scoperte, spesso poggianti su assunti convenzionali, gli storici non potrebbero ricostruire il passato, cosa che fanno poggiando su una scelta di fonti spesso interessata alla convalida di personali ipotesi. Perdere la consapevolezza dei nostri limiti non può che portare a progetti folli, e tale si rivelerà quello di Diocleziano.
Riunito il Consilium che lui stesso tende ora a ridurre a organo di convalida delle sue decisioni, l’imperatore offre ancora una volta la sua competenza per la soluzione dei problemi volti alla sua attenzione, ma il suo disinteresse per le reazioni dei presenti e, ancor più, il risentito colloquio con Doroteo, a cui affida il compito di comunicare alla figlia Valeria che sposerà Galerio, lasciano trasparire che l’indurimento del carattere ha già fatto passi da gigante.
Anche l’atteggiamento nei confronti dei cristiani è irrimediabilmente cambiato.
Se nei suoi periodi migliori li aveva tollerati, purché non creassero problemi, se ancora nell’esame delle ultime sentenze pronunciate nei loro confronti era stato in grado di discernere tra giustizieri sommari e chi seguiva le procedure, con Doroteo arriva a una irrisione insolita per lui.
Nonostante il testo si avvii da questo momento ad un tragico epilogo, Passannante, prima della fine, ci regala ancora un affresco meraviglioso dei costumi romani. Il matrimonio della figlia dell’imperatore segue i riti sfarzosi e coloriti della romanità, mescolando momenti sacri a momenti popolari e ludici, riuscendo a volte a distrarre la stessa sposa con i suoi canti. Alla fine però il gesto con cui Galerio scioglie la cintura della veste nuziale di Valeria per possederla ci riporta alla triste realtà di un matrimonio sacrificale.
Con il sacrificio di Valeria si conclude il racconto vero e proprio.
Le pagine successive riportano le amare riflessioni dell’autore sul suo personaggio principale.
“Come poté un uomo già tanto compenetrato dal fatale scorrere del tempo, osare l’insania di fermarlo... per costruire un progetto visionario?” Proprio Diocleziano, che aveva sempre contrastato la commistione di pubblico e privato, finisce, e sembra una beffa, col riversare il suo ormai carente vissuto affettivo sulla sua visione politica; l’idea della tetrarchia non avrebbe potuto nascere se non negando la varietà e la mutabilità degli uomini e le loro passioni. Diocleziano, morto negli affetti, tralasciò di capire quanto i futuri augusti avrebbero potuto essere diversi da lui e tra loro.
Ma a parte questo, la Storia, ci dice ancora l’autore, volgeva ormai altrove e Diocleziano non poteva certo governarla.
La sua illusione ci riporta alla limitatezza umana e al soccorso richiesto contro la paura della morte.

Stefania Ciavattini

(direfarescrivere, anno XIII, n.136, maggio 2017)
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