Meditare per ponderare, scrivere per riflettere, guardare al passato tra le rimembranze per cogliere gli istanti magici di un cammino lungo un’intera vita. Ma niente ha senso, nulla brilla alla luce di una nuova vita senza la fede, la morte e l’amore.
Un intimismo riversato in un breve e sensibile “zibaldone”, per comprendere che se la felicità esiste essa è tutta interiore, scaturita quasi quasi da una specie di ripiegamento nei luoghi reconditi dell’anima, seguita ancora da una sorta di «autoespoliazione».
Quando si giunge a un’età avanzata, comunemente, la mente – e le considerazioni che essa genera – non dilaga su orizzonti lontani, ma si volge lievemente alle cose più vicine e, in maniera naturale, ci si accosta alla fede, una fede che attraversa i pensieri concreti, e ai dubbi, animati e vissuti con maggiore consapevolezza; e improvvisamente sembra che Dio risulti presente in ogni minimo dettaglio.
L’esistenza inoltre appare come un varco, un tramite che porta alla morte, e da qui alla vera vita, a quella sperata, luminosa, nella quale possiamo distinguere le “verità”, di pari passo al “ritorno”, promesso dal Dio morto per noi e risorto.
Luci del Tramonto di Luciano Radi (Postfazione di Leone Piccioni, Rubbettino, pp. 72, € 7,00) raccoglie i pensieri più intimi che riguardano la vita dell’uomo, in un tutt’uno con le meraviglie della natura di cui è figlio. Dal senso della vita, che «si comprende quando si è prossimi alla fine», al senso e valore delle cose che si afferrano «quando si stanno per perdere». Protagonista è dunque la memoria, in un passato dove i ricordi erano capaci di lasciare segni indelebili, in contrapposizione a quello di oggi: un passato che, ormai, sembra non riesca più a lasciare alcuna «traccia di sé».
Per uno sguardo proteso all’orizzonte...
Nell’epoca attuale gli uomini sembrano assuefatti dallo scorrere del tempo, appaiono assenti e confusi, pensano poco, attratti più dalla vana concretezza delle cose che dall’astrattezza delle emozioni. La “durata degli istanti” pare avanzare rapidamente, e solo di rado i momenti che concorrono ai giorni vengono assaporati. Ma nella realtà abituale siamo sicuri e seriamente convinti che i nostri inseguimenti siano figli di scelte fondate?
Stranamente, nonostante avvolti e viziati dal consumismo, nell’aria aleggiano sentimenti legati all’insoddisfazione: ma quale entità arcana – volendo colpevolizzare “qualcuno” o “qualcosa” esterni alla nostra anima – continua a muovere queste emozioni pervase da così timida oscurità? Radi – già parlamentare e uomo di governo per la Dc, oggi docente di Statistica ma soprattutto autore di numerosi volumi di Sociologia, Politica e Storia economica – in prima persona, lo chiede innanzi tutto a se stesso: «Mi domando perché abbiamo dentro di noi tanta fame di infinito, perché non siamo soddisfatti e ci consideriamo prigionieri in una capsula lanciata nel tempo». Ma chissà se ha in serbo una risposta adeguata a tale emblematica domanda...
Poche volte ci fermiamo dai turbolenti e caotici pensieri che inquinano l’energia, poche volte guardiamo a noi stessi con obiettività, e se lo facciamo, spesso ci lasciamo attrarre dalle cose che ci attorniano, perennemente estranee a noi stessi.
Malgrado la vita agglomeri diverse esperienze, e ne sappia trarre delle notevoli lezioni, dalle quali solo i più fortunati riescono a cadere in piedi, il più delle volte non riusciamo a comprenderla, o qualora questo accada, ne afferriamo il senso piuttosto tardi. Poi però, rivolgendo lo sguardo altrove, notiamo quasi con invidia che chi coltiva un barlume di fede, non difficilmente sa scorgere il bene anche «negli anfratti del male», dove esso sa celarsi «come un seme nelle fessure della terra arida», leggiamo tra le Luci del nostro scrittore.
La naturalità del paesaggio che è parte dell’uomo
I rimandi agli alberi, agli animali, alla natura in genere – di cui Radi armoniosamente si appropria nel suo testo – sono utili per comprendere, almeno in parte, il senso umano della ciclicità di cui noi stessi, appunto, facciamo parte.
Così come da un albero è facile notare «iniziativa, fantasia e capacità di adattamento che ne alimentano la speranza di lunga esistenza», dall’ebbrezza delle cicale, che dimostrano che la vita non è solo fatica, si può intravedere l’amore «che si trasmette da uovo a uovo, da seme a seme, da foglia a foglia, da radice a radice, e si rinnova per non morire».
Per l’autore l’albero dona alla vita un clamoroso esempio di sussistenza, comune a tutti i mortali. Infatti così come l’albero rispetta il proprio corso naturale, quello di nascita-vita-morte, nel suo comportamento di evoluzione “afferra” sempre qualcosa di imprevedibile che ne distingue il cammino. Ogni elemento che in esso agisce, infatti, dall’«ombra che lo investe» a «ogni vento che spira», da «ogni pioggia che cade» a «ogni parassita che si abbarbica al suo tronco», lascia una notevole impronta.
E procedendo su questa via, l’autore con fermezza rimarca: «Gli alberi sono in comunione con noi per ricordarci che la rassegnazione alle avversità non è viltà, ma virtù per resistere e vincere».
Possano queste parole incoraggiare tutti quelli che credono, ma che per qualche motivo non riescono a camminare coi propri passi, non sono capaci di distinguere la vita nei meandri delle proprie fondamenta, non riconoscono che la quiete da raggiungere non sta nel fine teso al successo tipico «della nostra celebrata civiltà occidentale», ma nella consapevolezza di ciò che nella realtà siamo, nella sfera più intima dello spirito della ragione. Ricordiamoci che è pura «illusione avere il controllo della situazione, fissare i tempi e i modi del nostro futuro, presumere di poter dare una risposta ad ogni interrogativo». In fondo se svelassimo tutti i misteri della vita cosa resterebbe da inseguire nella nostra esistenza? Per quale altro motivo saremmo spinti a procedere nel cammino?
Un passato da cui trarre sorgente per il presente
L’autore, contemplando gesti, parole, con un faccia a faccia con se stesso e il passato che lo riguarda, sostiene audacemente che «gli errori commessi aiutano a vivere» e che «l’insoddisfazione genera le energie necessarie per risollevarsi». Però, a volte, anche la memoria sa essere bizzarra: «alcune ferite, anche gravi, le sana, altre minori lascia impietosamente che continuino a mordere, a sanguinare».
Si riferisce forse ai rimorsi? Ai rimpianti? Oppure agli inabissamenti ingenui per i quali ogni tanto si precipita «nella rete ammaliatrice del male»?
Probabilmente, come egli stesso afferma, ogni sintomo può essere «la condizione per restare desti», perché «l’indifferenza porta alla perdizione, la sofferenza al pentimento e alla redenzione».
Tra le righe del libro è possibile avvistare frammenti di fiducia, che traspaiono anche dalle parole più tristi, uno spiraglio luminoso nel quale scorgere i tanto attesi semi di speranza, che sebbene i timori, nonostante il male sembra essere sempre in agguato e teso a sconfiggere il bene, malgrado a volte persino il sole sembra tramontare per sempre... essi crescono, maturano e, seppur piccoli granellini, invadono il cuore traboccante di vuota esistenza. È facile cadere «nell’abisso del nulla», occorre solo pianto e disperazione, trampolini di lancio, futili esempi di confine.
Mai però perdersi d’animo: se imparassimo a distaccarci dalle cose che ci tengono prigionieri, scopriremmo di essere capaci di volare verso «orizzonti più vasti», riusciremmo a liberarci dai «tormenti del tempo» che spesso ci vincolano più di qualsiasi altra forza. È importante in questo caso restare vigili, senza mai liberarsi delle proprie radici come metodo per fuggire da se stessi. La prigione costruita dall’uomo sta dentro il suo cuore. Secondo il nostro autore persino «gli oggetti legati alla vita degli uomini sono libri preziosi da conservare e da leggere».
Un “inno al silenzio”
Nel testo, oltre a care riflessioni – che sembrano appartenere a tutti quelli che si affacciano nella sfera esistenziale dello spirito – Radi narra alcuni eventi legati ai ricordi della sua esperienza personale.
E spesso tra le righe pare di scorgere una sorta di “inno al silenzio”, quale momento di raccoglimento. Purtroppo, alle volte, questo medesimo “inno” viene male interpretato dai giovani di questo tempo, intrappolati come sono da sensazioni tetre, quali «il nulla, la fine», e la noia che spesso li assale, identica a una malattia che sa anche essere un’«agonia».
L’autore chiude le sue riflessioni con una specie di invocazione al passato. Le emozioni, gli affetti, gli amori che lo hanno salvato dalla disperazione sono ora in procinto di tacere solo perché «ALTRO ora deve parlare». A lui, per il momento, «non rimane che spegnere la lampada del leggio e chiudere la porta».
E per finire un’esortazione, estrapolata dalle righe delle Luci, da rivolgere a chi legge e a chi ha creato nel proprio cuore un posto per scampare dalla propria prigione: «Sii come l’uccello che, pur sentendo tremare il ramo continua a cantare sapendo di avere le ali».
Maria Gulino
M. G. si interessa attivamente di Letteratura, Musica e Religione. Esperta di editing, collabora con varie riviste culturali, tra cui www.scriptamanent.net e Rnotes.
(direfarescrivere, anno II, n. 4, maggio 2006)
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