«Gerusalemme (o Uhrushalim o Al Quds), questa antichissima città cananea, costruita a circa 700 metri s.l.m. dai getusei, su una collina in cui crescevano olivi e cedri, carrubi, pistacchi e mandorli, poi conquistata dagli ebrei, poi dai babilonesi, quindi da Alessandro Magno, poi passata ai tolomei, ai seleucidi e infine ai romani – solo per fermarci all’antichità – è qui, a dimostrare che gli umani utilizzano scienza e violenza come fedeli ancelle del Potere, non antagoniste tra di loro come potrebbe credersi, ma concilianti l’una verso l’altra se non addirittura alleate, con poche anzi pochissime eccezioni». Così a Gerusalemme, in pieno agosto, una visitatrice occidentale riflette sul legame fra l’accelerazione della tecnologia e il persistere dell’ancestrale desiderio di uccidere nel genere umano: purtroppo, la recente escalation del conflitto fra Israele e Hamas nella striscia di Gaza giustifica in pieno l’amaro pessimismo annidato nelle pagine di Vagando di erba in erba. Racconto di una vacanza in Palestina (Città del sole edizioni, pp. 312, € 15,00). L’autrice è Patrizia Cecconi, giornalista e scrittrice: ha pubblicato con Città del sole il saggio Lessico Deviante (2013), e con Chimienti Belle e Selvatiche. Elogio delle erbacce (2008). Vive a Roma e dal 2009 è presidente dell’Onlus “Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese”.
Le secolari cicatrici di Gerusalemme
«Come un antico tronco d’ulivo, secolare e contorto, in parte cavo, corroso dalla carie, in parte nodoso e forte, mostra a tutti la sua sofferta bellezza e la sua straordinaria resistenza agli attacchi esterni. È così che la Città Vecchia si mostra al visitatore: bella nelle sue ferite e nelle sue ricostruzioni. Addirittura splendente da lontano, come la Cupola d’oro della Roccia. Quella roccia che, secondo la tradizione islamica, avrebbe testimoniato l’assoluta obbedienza di Abramo, disposto a sacrificare suo figlio». Scrittrice che possiede un’intensa sensibilità ambientale, Patrizia Cecconi, con poche pennellate, riesce a creare non solo una squisita metafora letteraria (la bellezza ferita della Città Vecchia di Gerusalemme, paragonata a un ulivo centenario che resiste alle offese del tempo), ma anche un’atmosfera, una panoramica, un flash. Sul solco di una tradizione che rischia di estinguersi, quella del giornalismo in prima linea dell’Hemingway di Caporetto e della Guerra di Spagna.
L’orticello di Mazen presso Betlemme
A Beit Jala, nel distretto di Betlemme, Patrizia è ospite di un agricoltore palestinese, Mazen. «Facciamo una passeggiata in questa bellissima macchia selvatica, dove c’è tutto quello che serve per vivere, come dice Mazen, anche quando gli scaffali sono vuoti. Ci sono i pistacchi, i mandorli, i noci, gli olivi, gli agrumi, le nocciole, le more, i melograni e i carrubi che crescono da soli, poi c’è l’orto, che invece viene attentamente coltivato e poi c’è qualcosa cui non avrei mai pensato, una sorta di stagno o piscinetta in cui nuotano le carpe. In mezzo agli alberi che danno frutta ci sono anche lentischi e terebinti, querce palestinesi e un gran numero di cespugli». Lo spettro sanguinoso della guerra incombe su uno scenario quasi idilliaco, dove l’antica sapienza contadina di uomini come Mazen, tramandata di generazione in generazione, produce ancora meraviglie, sia pure nel bel mezzo di tragedie collettive e orrori quotidiani.
I melograni purpurei di Yatta
«Eccoci a Yatta. Facciamo un giro per vedere le vecchie abitazioni bizantine e poi entriamo in un piccolo locale dove preparano succhi di “rumman”, cioè di melagranata. Mai andare in Palestina e non bere il succo di rumman, se il periodo lo consente, ovviamente! La sua bontà è pari alla sua carica di vitamine e di antiossidanti. D’estate è una risorsa straordinaria contro la perdita di energie fisiche dovuta al grande caldo. In agosto i frutti sono già pronti e poi seguiteranno a maturare per tutto l’autunno. L’albero di melograno è bellissimo sia quando è in fiore che quando porta i frutti, forse per questa sua bellezza ha dato vita a tante leggende nel corso dei millenni». Qui Cecconi mette in risalto il fascino arcano del melograno, frutto fragrante dai chicchi di un vermiglio scintillante, da millenni considerato simbolo di fertilità. Anche il suo succo, vero e proprio nettare rigenerante, si diffonde nelle vene e apporta benessere. Una piccola oasi di ristoro nella calura opprimente di un paese ancora senza pace.
La tenace vitalità dei capperi di Hebron
A Hebron, in mezzo a duecentomila palestinesi, si sono incuneati cinquecento coloni ebrei ultraortodossi, e la tensione è palpabile nell’aria. «Hebron mantiene il ricordo della bellezza tipica delle città su cui la storia ha lasciato tracce indelebili: dall’Haram che contiene le tombe dei Patriarchi e le altre costruzioni sacre al suo interno, a quel che resta degli antichi palazzi mamelucchi e ottomani, alla chiesa ortodossa russa. Perfino il vecchio suk – che è un monumento vivente al sopruso e all’illegalità, con le sue reti per fermare immondizia e pietre lanciate dall’alto dai coloni – ha il suo fascino». Cecconi scopre un’altra goccia di serenità in una marea di acredine: «Uscendo ci voltiamo a guardare dal basso le mura possenti dell’Haram e faccio notare ai miei amici alcune bellissime piante di cappero che, nonostante il calore di un sole ustionante che neanche i 900 metri s.l.m. riescono a mitigare, stanno lì, addirittura con qualche splendido fiore aperto, incuranti sia del caldo che delle follie sanguinarie prodotte dalle ingiustizie umane». Un’altra piantina emblematica in Palestina, la senape: «sui bordi della strada ogni tanto appare lei, la pianta dai fiori gialli, alta più di due metri, quella che il Vangelo prendeva a esempio come il granello piccolissimo capace di generare una pianta così vigorosa che dà riparo agli uccelli del cielo: la senape palestinese. Resistente e irriverente seguita a crescere dove vuole. Nonostante tutto. Come il desiderio di libertà».
I fichi di Aboud e l’albero di Giuda a Beit Sahour
«Se girate in tutta la Palestina storica ogni tanto trovate un Saber che spunta dal terreno. Dovunque c’è un Saber c’era un villaggio arabo». Ad Aboud, presso Ramallah, Cecconi è ospite del parroco cristiano, Abuna Yousef: quasi metà del territorio è stato divorato dagli insediamenti di coloni israeliani, autorizzati dal governo nonostante il divieto dell’Onu. Saber è il nome palestinese del fico d’India, proveniente dalle Americhe, che si è adattato al clima locale. Cecconi scopre ad Aboud un gioiello naturale più unico che raro: un boschetto di calamo aromatico. Nel sito archeologico di Beit Sahour, invece, s’imbatte in una pianta alquanto singolare: «Credo che presto verrà estirpato come tutti gli altri cresciuti nel posto sbagliato, per non danneggiare i reperti archeologici, ma immagino che se resisterà fino alla prossima primavera il siliquastro regalerà la bellezza rosa intenso dei suoi rami, che fioriranno prima ancora di mettere le foglie. Il siliquastro infatti fiorisce direttamente sulle parti legnose che si trasformano in una bellissima nuvola rosa-lilla o qualche volta bianco-rosata». La tradizione evangelica indica il siliquastro come l’albero al quale s’impiccò Giuda Iscariota, tormentato dal rimorso per aver tradito Gesù. A Jenin, infine, campo profughi martirizzato dai bombardamenti, Cecconi ricorda la figura di Juliano Mehr Khamis, fondatore del “Freedom theatre”, figlio di madre ebrea e padre palestinese, assassinato nel 2011 forse da fondamentalisti islamici perché tentava di favorire il dialogo fra le due etnie: «come quelle piantine che spuntano nei posti più impensati a testimoniare la forza della natura, così le idee seminate sul terreno giusto germogliano e infatti Juliano non c’è più ma il Freedom theatre esiste, resiste e produce arte di qualità». L’itinerario prosegue nella seconda parte del libro: Kufr Ein, Taybeh, Qalqilya, Tulkarem, Nablus, Kufr Qaddun, Sabastyia, Gerico, Wadi el Qelt sul Mar Morto. Tappe altamente suggestive, ricche di echi storici (Erode il Grande e suo figlio Antipa, Giovanni Battista, il Califfo Omar), che ogni lettore potrà gustare con la debita attenzione. Patrizia Cecconi ci regala un diario di viaggio costellato di stimoli dolorosi, ma anche di tenui barlumi di speranza.
Guglielmo Colombero
(direfarescrivere, anno XI, n. 111, marzo 2015) |