Anno XXI, n. 230
aprile 2025
 
La recensione libraria
Un caleidoscopio di emozioni e colori:
raffinate alchimie dei sensi si fondono
in un’elegante narrazione al femminile
Da Città del sole, un’antologia di racconti brevi
che attingono dalla quotidianità dell’esistenza
di Guglielmo Colombero
«Mio padre, con due tre colpetti sul fondo del pacchetto tirava fuori una sigaretta, l’accendeva con boccate profonde e la fumava con le spalle magre poggiate allo schienale, le gambe allungate e i piedi abbandonati sui talloni. Sembrava avesse gli occhi chiusi per quanto basso teneva lo sguardo: drenava la mente dai pensieri e il corpo dalla fatica che aveva accompagnato l’arco della sua giornata». Con poche, magistrali pennellate, Rossella Scherl, autrice del volume Racconti in tre tempi (Città del sole, pp. 224, € 10,00), fotografa il muto disagio di un uomo sfiancato dal lavoro, appartenente alla schiera dolente dei “vinti”, per dirla come il Verga dei Malavoglia.

Sadismo familiare e squallidi favoritismi in ufficio
Il bisturi della scrittura incide la crosta del sadismo familiare, quando descrive una punizione materna che non colpisce il corpo, ma la mente, sfregiando uno dei simboli della passione musicale della figlia, colpevole di trascurare gli studi per ascoltare i Pink Floyd. «Infilò le dita nella copertina e sfoderò il vinile, poggiando la custodia sulla scrivania. Senza togliermi gli occhi di dosso, iniziò con decisa lentezza a rigare il 33 giri con uno spillo da balia che le si era materializzato in una mano. Mi alzai di scatto. Il libro di storia si chiuse cadendo sul pavimento. Controllai l’istinto di saltarle addosso. Non mi mossi di un passo, ma non riuscii a frenare le parole e le urlai che non poteva farlo “Non è giusto!”. “Mi adeguo al tuo modo di fare: niente di giusto”. Ferì il disco a raggiera, lo rimise nella copertina e lo ripose tra gli altri. Individuò la seconda vittima, replicò il rituale voodoo: sapeva di farmi più male che se mi avesse preso a schiaffi».
Altrettanto corrosiva la descrizione di un funzionario costretto ad assumere una ragazza per meriti assai poco lavorativi, rimangiandosi la promessa data a un’altra, professionalmente valida ma non abbastanza carina e/o disponibile. «“L’azienda non può rinnovarle il contratto” “Ah!”. Cazzotto in piena faccia. Devo aver dato segni di sbandamento. “Tutto bene? Le faccio portare qualcosa?” “Grazie, no! Piuttosto, posso chiederle perché, visto che solo due giorni fa mi aveva garantito che sarei rimasta per altri tre mesi?” “Non sono io che decido”. “Valeva anche due giorni fa?” “Ha ragione. Non avrei dovuto sbilanciarmi”. “In questo mese l’ho tenuta d’occhio, sa. È un brav’uomo. Non allunga le mani, porta sempre la fede e non sa dire le bugie”. Mi sembrò che arrossisse, ma forse era solo il riflesso della copertina di una pratica che aveva sulla scrivania. “Mi dispiace”. “A me di più. Per me… e anche un po’ per lei: la puttanella del direttore che ha firmato il contratto ieri, le darà filo da torcere”. “Lo so!” Mi alzai. Si alzò. Ci stringemmo la mano e mi accompagnò alla porta. Non so, chi tra noi due, fosse il più avvilito».

Sprazzi di lirismo poetico e drammi di gente comune
Scherl ci regala qualche momento quasi fiabesco, in cui la fine cesellatura descrittiva sprigiona suggestioni non solo cromatiche, ma anche olfattive: «Non c’è musica nell’aria. Solo odore. Un odore selvatico di fiori di campo, gialli e rossi, di un terreno fuori città che resiste al cemento. Un trapezio scaleno dove i bambini corrono di giorno e gli amanti, senza fissa dimora, si amano di notte, sotto una pioggia di stelle che li bagna di luce».
Altrove, invece, pizzica impietosa i nervi scoperti della nostra società, che si rivela un po’ sadica, un po’ masochista e un po’ edonista: la tortura psicologica della dieta, la ribellione della casalinga che non riesce a infrangere i piatti di Arcopal, rigurgiti di xenofobia e di razzismo che intossicano un’aula scolastica fino a degenerare in un crescendo efferato. E anche un episodio di violenza bestiale fra le pareti domestiche, che irrompe dalle pagine lungo un filo di bava rabbiosa: «Non avevo un capello bianco e la mia carne odorava di fresco quando quella sera mi entrò dentro dopo avermi picchiata con più violenza del solito. Da due anni non gli davo figli. Brutta cagna, ti ammazzo. Ti ammazzo».

Fantasmi della memoria che rivivono
Scherl elabora le sue meditazioni esistenziali, spesso filtrate dalla lente deformante dell’ironia (come nello scorcio esilarante delle pantofole che si spostano da sole), con uno stile ellittico, denso di iperboli eleganti, di divagazioni sia tenere che amare sfumate di nostalgia e disincanto.
Lascia il segno, grazie a parole vibranti come una corda di violino, la struggente rievocazione del trauma della perdita del padre: «La voce continuava a rimbombarmi nella testa. “Che fine ha fatto papà?” e continuò e continuò fino a farmi urlare, per la prima volta, la terza persona singolare di quel verbo morire che mi ero sempre rifiutata di associare a mio padre. “È morto”, esplose come un tappo, liberando le lacrime che negli anni avevo soffocato per riempire il vuoto dell’assenza. In una sola notte le versai tutte, e a poco a poco l’immagine di mio padre si compose sul soffitto e tornò nitida, col suo bagaglio di ricordi. Mi tenne la mano, finché non presi sonno».

Guglielmo Colombero

(direfarescrivere, anno XI, n. 109, gennaio 2015)
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