«Lalla respira piano, sembra più una bambina che una donna adulta, non dice di no, anzi desidera il contatto delle labbra di lui sul suo collo, lui la sfiora, le mordicchia il lobo. Lalla gira impercettibilmente il viso, Estro la cerca e si mescolano fragranza parigina con sudore per la legna spaccata. Lalla ha gli occhi chiusi e sa che di nuovo non può resistere a quel richiamo della foresta. Estro si gira facendo perno sui piedi, trascina Lalla che continua a restare avviluppata dall’abbraccio di lui. Estro la spinge delicatamente contro il muro della baita».
Quello appena citato è uno dei brani più caldi e sensuali di L’antro dell’Orco (Wlm edizioni, pp. 168, € 13,90): un romanzo del torinese Carlo Crovella che, sin dal primo approccio, si rivela alquanto accattivante. Si tratta del capitolo più recente di una trilogia sull’Eterno Femminino inaugurata dall’autore due anni fa con La mangiatrice di uomini, proseguita l’anno scorso con Ladri di anime ed approdata ora alla protagonista della storia, Lalla.
Il lupo solitario incontra la femmina predatrice
Alcune reminiscenze cinematografiche affiorano da questa figura femminile, che con la sua tenera quanto vorace sensualità ricorda molto il cinema di Marco Ferreri. Con uno stile eclettico e, visivamente parlando, molto vicino alla nouvelle vague francese e ai teoremi sull’incomunicabilità enunciati da Michelangelo Antonioni, Carlo Crovella incastona nelle pieghe di un ricamo narrativo sobrio e minimalista un sapiente intreccio di passioni e di emozioni. Senza mai però discostarsi da un solido ancoraggio alla realtà quotidiana: una Torino catturata in rapidi scorci tutti da assaporare, a metà strada fra la cartolina turistica e la pittura naif, che fungono da cornice ai dialoghi “metropolitani” dei personaggi. E, con una scansione solo in apparenza casuale, ma in realtà frutto di una studiata alchimia, si alterna all’incombere muto e perenne delle montagne dell’alta Val di Susa. Gli snodi decisivi della trama, infatti, come pure le confessioni più intime e sofferte dei personaggi, emergono dal rifugio ascetico in mezzo alla natura incontaminata che Estro, il protagonista maschile, ha scelto come incubatrice ideale per la sua ispirazione letteraria.
L’Orco di pietra che ingoia chi osa sfidarlo
Il titolo del romanzo riveste un forte valore simbolico: l’Orco, infatti, è la famigerata parete nord dell’Eiger, una specie di mortifera caverna che ha risucchiato le vite di numerosi alpinisti come un’enorme pianta carnivora di roccia. Nella memoria iconografica degli appassionati di alpinismo, il mito della vetta-Moloch divoratrice di scalatori rivive nei primi anni ’70 in una delle migliori regie di Clint Eastwood, Assassinio sull’Eiger, da abbinare idealmente al successivo Grido di pietra di Werner Herzog, ambientato sul Cerro Torre, altra montagna-cannibale. La donna, personificata qui da Lalla, è l’intrusa che tenta di infrangere il connubio fra Estro e la natura, che lo abbraccia come un’amante silenziosa. In altre parole, Lalla si sforza di addomesticare il lupo solitario racchiuso in Estro, fondamentalmente misogino ma anche affamato d’amore. I passaggi più suggestivi del romanzo, infatti, sono soffusi di un respiro inconfondibilmente panteista, che si nutre di sole, di vento, di neve, di ghiaccio.
Un racconto che si addentra nelle pieghe emotive
La prosa scarna ed essenziale di Crovella, che nei discorsi in città scivola volutamente nel bozzetto di costume, sulle altitudini vibra invece di accensioni quasi liriche e coinvolge emotivamente il lettore evocando i turbamenti scaturiti da dilemmi esistenziali ai quali è difficile, quasi impossibile, fornire una risposta. Il mosaico di pensieri e di parole tratteggiato da Crovella è complicato, talvolta inestricabile: ma ogni tassello emerge con vivace immediatezza, e il lettore, una volta varcata la soglia del suo microcosmo, ne resta avviluppato come in una ragnatela. All’erotismo, condensato in alcuni momenti incandescenti senza mai cadere nel pruriginoso, si abbina il tormento interiore di un malessere inguaribile. Le pulsioni fideistiche sprigionate dal vivace personaggio di don Pino si stemperano nello scetticismo agnostico di una generazione disillusa; l’attrazione emanata dal fascino selvaggio della montagna entra in rotta di collisione, attraverso il filtro di un sarcasmo acido e denso di umori corrosivi, con le stratificate abitudini urbane di un ceto medio in crisi d’identità che si rifugia nell’effimero e si culla nel feticismo delle mode imperanti. La chiave di lettura de L’antro dell’Orco appare, quindi, come un prisma dalle molteplici sfaccettature: Crovella lascia libero chi legge di scovarne una propria e questa sua fluida elasticità nel raccontare è un pregio che indubbiamente vale oro colato per chi ama la narrativa che, insofferente verso certi schemi precostituiti, come i sedicenti “generi letterari”, si dispiega liberamente verso orizzonti di libertà espressiva ossigenata come l’aria pura delle vette.
Guglielmo Colombero
(direfarescrivere, anno X, n. 102, giugno 2014)
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