Anno XXI, n. 230
aprile 2025
 
La recensione libraria
L’esperienza e il dramma di un uomo.
Storia reale e narrativa: il ritratto
di un’Italia alle origini del male
Un letterato, vittima “colpevoleˮ del malaffare.
Un’opera sulla minaccia mafiosa, da Periferia
di Riccardo Ricceri
«Vivevano molti anni or sono, nel villaggio marinaro di C., dirimpetto allo Ionio, due sorelle: Teresa e Rosina. Rimaste orfane di padre e di madre fin dall’adolescenza e senza congiunti prossimi, avevano toccato, Teresa, la più grande, l’età di venticinque anni e Rosina poco più di venti. Non erano felici, perché la felicità è un mito anche per coloro che si stimano perfettamente felici; però trascorrevano i giorni lavorando in affettuosa armonia, fidenti nell’avvenire e rassegnate alla comune sorte dei mortali. […] i contadini portavano sempre in regalo olio, grano, legumi, formaggio ed altri prodotti della terra. Esse inoltre allevavano la capra e le galline, coltivavano l’orto con l’aiuto di un vecchietto del villaggio, e, tranne la pasta, la carne e le vestimenta, non compravano altro sulla piazza».
Inizia così, col tenero dipinto agreste di un paesino calabro, Matrimonio clandestino (Periferia, pp. 84, € 18,00), uno dei primi testi italiani a descrivere la natura del fenomeno malavitoso.
Era il 1942, soltanto un anno prima che Carlo Levi scrivesse il suo Cristo si è fermato ad Eboli, denunciando con forza l’arretratezza del Meridione, ma, soprattutto, delineando quell’immutabile commistione fra cristianesimo, antistatalismo e paganesimo che caratterizza le remote province del Sud. Levi portò con sé questo ritratto nel contesto di una cerchia di intellettuali, col risultato che, ben presto, si parlò di lui e del Meridione, della malaria, dell’analfabetismo e delle arretratezze tecniche e strutturali. Tuttavia il Sud manteneva in Levi un’altera dignità, nella sua immobile “a-storicità”, e la campagna, per gli intellettuali che al Nord vedevano l’avanzare rapido della città, splendeva quasi di auree esotiche e fatate. Nessuno aveva ancora descritto il malessere profondo che covava nelle regioni meridionali, un malessere per certi versi più grave dell’arretratezza stessa. Ancora prima della Regalpetra di Sciascia, uno scrittore calabro di nome Saverio Montalto trovò il coraggio di denunciare la malavita, le connivenze col potere, l’omertà e il grido inascoltato dei deboli.

La voce eclissata di un letterato
Prima di dedicarsi al suo testo più noto, La famiglia Montalbano, Montalto scrisse questo romanzo breve rimasto inedito fino al 2011 e, pertanto, quasi del tutto sconosciuto. Sconosciuto come lo era il suo autore che, a differenza di Levi, non poteva vantare cerchie di intellettuali cui portare il suo pensiero, né circoli importanti in cui farsi notare. Egli scriveva dal manicomio criminale di Aversa, che, ancora oggi, figura tra i sette ospedali psichiatrici giudiziari d’Italia che, stando agli ultimi sviluppi, dovrebbero chiudere definitivamente i cancelli l’1 aprile 2014. Saverio Montalto, pseudonimo di Francesco Saverio Barillaro, era infatti un veterinario la cui vita fu sconvolta da un evento tragico mai del tutto chiarito: nel 1940 uccise la sorella Anna, ferì il cognato Giacomo Armoni e la moglie Iva, sorella di Armoni. Pare che Montalto avesse deciso di uccidere la moglie e il cognato perché appartenenti ad una violenta famiglia malavitosa. Lo storico Giovanni Ruffo descrisse così la vicenda: «In giro si affermò che il veterinario, che godeva prestigio e rispetto presso i compaesani, esasperato dalle continue prepotenze del cognato, gli aveva sparato per ucciderlo. La sorella si era frapposta tra i due per impedire al veterinario di sparare, ma questi sconvolto dal risentimento non riuscì a frenarsi e colpì la sorella in piena gola forse troncandole la carotide. Visto cadere la sua amata sorella, il veterinario sparò al cognato ed alla moglie con la precisa intenzione di ucciderli».
Venne, quindi, processato, giudicato insano di mente e pertanto condotto al manicomio criminale. Qui passò ben cinque anni, durante i quali raccontò nei dettagli la sua triste storia in quello che poi divenne il Memoriale dal carcere, l’unica testimonianza che ci resta della vicenda.
I dettagli, tuttavia, poco ci importano. Quello che più occorre riconoscere all’autore è il gesto di ribellione verso un sistema corrotto che sempre più andava stabilizzandosi. Montalto era un professionista, un uomo stimato e rispettato; perché, dunque, a differenza di tanti altri, non girò il capo di fronte ai soprusi della malavita? Perché non seppe tacere, accettando colpevolmente quell’ordine sociale perverso che la malavita imponeva? Egli la ricorda bene quell’omertosa indifferenza dei «galantuomini», come li chiama lui, «il medico, l’avvocato, il capostazione, l’ufficiale di posta»; ricorda bene la solitudine dei vessati e degli impotenti perché fu sua quella solitudine, quella sofferenza.
L’omertà, tuttavia, si può anche comprendere, perché si nutre di paura. Ma Montalto si spinge ancora più in là, descrivendoci una società che non si limita a temere la malavita, ma che l’accoglie e la rispetta; il popolino che ne ammira il lusso e il potere; i baroni che vi scendono a patti perché ne riconoscono i membri quali loro pari. La vera forza della malavita si nasconde in noi, nel tacito consenso che le diamo giornalmente, nell’inconfessabile ammirazione che nutriamo per chi può permettersi di ignorare la legge dello stato o di dettarne una propria. E per l’appunto il sistema mafioso si configura come diritto alternativo a quello statale, parimenti rigido e gerarchico, che affonda le sue radici nella legge del più forte. In Italia è sempre vivo e in agguato, accanto al culto dello stato, l’amore per l’antistatalismo. Non a caso Gim, il “capo bastone” rientrato dall’America e protagonista di Matrimonio clandestino, definirà l’Italia il «paese da cui dipendiamo noi», come a rimarcare l’inconciliabilità dei diversi ambiti giurisdizionali e dando prova di quell’ipertrofia dell’Io che molti additano come base del sentire mafioso.
È vero, la malavita descritta da Montalto è pienamente rurale, ancora embrionale; si pasce di piccoli soprusi e quasi ci fa sorridere per la sua ingenua semplicità. Ma sbaglieremmo a sottovalutarla: si tratta di una malavita giovane, ma già forte e sicura di sé; dietro di essa si staglia netto un mondo ancora più vasto, gli Stati Uniti, i grossi commerci, l’alcool, la prostituzione. È una malavita già pronta a conquistare il mondo. Ma, nella provincia, a farne le spese sono innanzitutto gli indifesi, come le due giovani sorelle Teresa e Rosina, rimaste orfane di padre e madre sin dall’adolescenza.

La novità di Matrimonio clandestino
La scrittura di Montalto è indubbiamente lontana dai picchi stilistici cui Verga ci ha abituato, la sua prosa non può vantare analoghe finezze espositive né gli stessi variegati registri. Talvolta indugia nel descrivere abiti o ambienti con minuzia persino eccessiva, ma ci colpisce al cuore coi suoi rapidi ritratti psicologici, capaci di cogliere sottili sfumature con profonda sensibilità. Non c’è parola che non trasudi un dolore palpabile e un disperato senso di solitudine. Montalto scrive con la voce dell’umiliato, dell’offeso che cerca timidamente di alzare la testa. La sua scrittura rapisce, la narrazione corre svelta verso l’inevitabile epilogo che già tutto sembra preannunciare; su di essa grava la sensazione di un crudele e ineludibile destino.
Matrimonio clandestino è una storia semplice ed elementare che, tuttavia, denuncia con coraggio il fenomeno malavitoso e la pericolosità della sua diffusione endemica, proprio negli anni decisivi per la sua affermazione. Ricordiamo che nel ’42 muore quello che era stato il nemico numero uno della mafia, l’ex prefetto di ferro Cesare Mori, ma è soprattutto l’anno in cui la mafia intesse con scaltrezza i suoi rapporti internazionali, anche grazie al ruolo decisivo giocato nello sbarco in Sicilia, come ci ricorda lo storico Alfio Caruso: «Prima di questi eventi la mafia era un’organizzazione malavitosa regionale. È lo sbarco alleato che le permette di fare il decisivo salto di qualità. La mafia si conquista sul campo la fiducia degli americani e si trasforma subito in una temibile organizzazione nazionale e internazionale».
In questi anni convulsi e drammatici, Montalto ci lancia un invito alla riflessione interiore sul senso dello stato, della comunità e, perché no, sul senso stesso del bene e del male. Per tutto questo il tempo gli riconoscerà i giusti meriti, se è vero, come cantava Foscolo, che «a’ generosi / giusta di glorie dispensiera è morte».

Riccardo Ricceri

(direfarescrivere, anno X, n. 100, aprile 2014)
invia commenti leggi commenti  

Segnala questo link ad un amico!
Inserisci l'indirizzo e-mail:

 


Direzione
Fulvio Mazza (Responsabile) e Mario Saccomanno

Collaboratori di redazione
Ilenia Marrapodi ed Elisa Guglielmi

Direfarescrivere è on line nei primi giorni di ogni mese.

Iscrizione al Roc n. 21969
Registrazione presso il Tribunale di Cosenza n. 771 del 9/1/2006.
Codice Cnr-Ispri: Issn 1827-8124.

Privacy Policy - Cookie Policy