Anno XXI, n. 230
aprile 2025
 
La recensione libraria
Amore e pregiudizi a fine Ottocento.
La storia di una donna del Sud
tra sentimenti e convenzioni sociali
Un romanzo storico prezioso nella scrittura,
accurato nella ricostruzione. Da Vertigo
di Francesco Cento
La prima fatica letteraria di Antonella Cosentino è un romanzo storico breve, caratterizzato da una scrittura suadente e intima; di una intimità espressa con parole calibrate e dirette, dal sapiente linguaggio evocativo.
Un lavoro di scrittura scaturito, e si sente, da una ponderazione profonda, lontana, arcaica, lungamente meditata prima di essere messa sulla carta.
Dalla mia finestra si vedeva il mare (Vertigo, pp. 96, € 12,90) è il racconto in prima persona di un’epopea familiare che si svolge tra la fine dell’Ottocento e la Seconda guerra mondiale.

Personaggi, simboli e stile narrativo
Attorno a Grazia, protagonista e voce narrante, ruotano numerosi personaggi trattati tutti con la stessa attenzione e con la stessa cura: i genitori, dai quali presto si separerà per seguire un uomo, un medico chiamato al capezzale del fratello malato, che la usa semplicemente come “fattrice di figli” e la tratta come una mantenuta; la serva-governante, che la assiste in tutte le faccende domestiche e la protegge da chiunque; i figli, che Grazia difende soprattutto dal padre stesso; Pietro, l’amore vero, vissuto questa volta con consapevolezza; e infine la comunità, verso la quale Grazia si apre, dedicandosi come insegnante (prima ancora che come “signora”), ovvero redattrice di lettere per i soldati al fronte, ed è in questa veste che viene, finalmente, accettata.
Questa, per larghe campiture, la sinopia del romanzo sulla quale interviene la malta frescante della natura (innumerevoli scorrono le descrizioni ambientali) e della Calabria ogni ora presente, simili a personaggi muti e dolenti. In ogni momento il fluire della vita diventa eroico, favoloso: dalla seduzione alla nascita dei figli; dall’abbandono della casa paterna alla lontananza e all’impossibilità di tornare; dalla scoperta dell’amore vero alla morte.
Una narrazione che si snoda secondo un ritmo cadenzato e sorprendente di rivelazioni affettive latenti, che si svelano in tempi diversi o non si svelano affatto (come l’amore del padre della protagonista troppo soffocato dalle convenienze).
La mancanza di dialoghi esalta, poi, la compattezza dello scritto, lasciando il lettore in una ammaliante fascinazione.
Alcuni simboli sottolineano la complessità dei sentimenti. Il gioiello («era un pendente di granate, un piccolo sole scuro che mia madre non si toglieva mai dal collo, per nessuna ragione al mondo»), forse lasciato dalla madre che segue da lontano la figlia cacciata di casa, simboleggia l’amore materno che va oltre le convenzioni sociali, oltre la storia stessa, sottolineando un altro aspetto dell’amore di cui questo romanzo è intriso.
Ancora, l’anello di Pietro (il grande, vero amore della protagonista), che Grazia mette al dito solo dopo la sua morte, ci regala uno dei tanti momenti lirici: «Tirai su la scatolina con mani tremanti. Dentro c’era un oggettino che non sapevo individuare al tatto, poiché era accuratamente avvolto con della carta. Lo tenni per qualche minuto nelle mani, quasi a risentire ancora una volta il calore delle mani di Pietro, poi lo scartai lentamente: c’era una sottile fede d’argento zigrinato che terminava nella parte superiore con un piccolo nodo d’amore. La misi all’anulare sinistro e chiusi gli occhi. E Pietro fu là, accanto a me, con il suo sorriso luminoso e gli occhi scuri ridenti, a ripetermi ancora una volta, supplicante: “Mi vuoi sposare, Grazia?”. Questa volta, però, gli risposi di sì».

Un romanzo prezioso come una collana di pietre
Il lettore di questo romanzo forse non si accorgerà, vista l’esiguità del corpo cartaceo (con l’intrigante copertina), di avere tra le mani un gioiello. Un gioiello fatto di carta, sicuramente, ma che possiede le finezze e la pregevolezza d’una collana di pietre preziose.
La prima pietra è senz’altro un rubino, rosso come l’amore che traspare ovunque, in questo romanzo, e che caratterizza Grazia, come il rubino vitale e fedele verso chi la ama.
Uno smeraldo, che dona giovinezza e intima felicità, è Pietro, colui che aiuterà Grazia a rivalutare se stessa come donna, dopo la deludente esperienza con il suo primo uomo (il dottore già citato che lei chiamerà sempre e solo «padre dei miei figli»).
Gli zaffiri, le pietre più belle del gioiello, rappresentano i figli. Desiderati sopra ogni cosa, costano a Grazia l’allontanamento dalla famiglia, poiché la nascita di bambini al di fuori del matrimonio non può essere sopportata, per le ottuse convenzioni sociali di fine Ottocento, periodo in cui è ambientata la prima parte del romanzo.
Il padre di Grazia, un granito duro ed inscalfibile (così come la terra calabra, che «ha il mare da tutte le parti, ma il suo cuore è di pietra e non puoi nemmeno scalfirlo»), è una figura tratteggiata con pochi tocchi e apparentemente negativa. L’autrice, tuttavia, dedica momenti di vera partecipazione alle ambasce del personaggio quando scrive: «Non aveva la voce adirata di chi vede la sua maestà violata, ma una stanchezza antica, senza ribellioni» e qui condanna ed esalta, nello stesso tempo, quest’uomo schiacciato dalle convenzioni che gli impediscono di amare ed accettare la figlia che sta per dargli un nipote (che non vedrà mai). Allo stesso modo, non cederà neanche quando a supplicarlo di vedere per l’ultima volta la figlia e i nipoti sarà la moglie ormai malata.
La madre della protagonista è una pietra di luna che porta alle cose concrete, come la decisione di far studiare le figlie (di nascosto dal padre). Quando Grazia andrà via di casa, la seguirà da lontano e le farà avere, in qualche modo, il segno della sua presenza.
Di ametista è Eleonora, la moglie di colui che ha sedotto Grazia. Eleonora ha, infatti, la prontezza, la perseveranza e l’umiltà di capire la situazione dell’incolpevole giovane, capitata nelle grinfie del marito, e di placare il suo immaginabile orgoglio di moglie ufficiale, con la riflessione e l’introspezione.
Di ematite, infine, è la figura innominata della «mia donna» ovvero Cerbero, come la chiama affettuosamente Grazia, figura umile e servizievole d’una governante popolana (che sarebbe riduttivo chiamare serva), ma categorica, assoluta, che la seguirà sempre, dal suo arrivo nel nuovo paese fino al termine del romanzo.
Tutte queste pietre, levigate alla mola abrasiva dell’amore per la Calabria e mediate dal liquido di una scrittura sincera e appassionata, compongono il nostro gioiello. Un gioiello che si legge, che si porta facilmente addosso, che si lascia ammirare. Un gioiello da indossare in occasione d’una cerimonia importante. In questo caso al matrimonio tra vita vissuta e storia, epica e favola, poesia e prosa, insomma letteratura della più bell’acqua.

Francesco Cento

(direfarescrivere, anno IX, n. 93, settembre 2013)
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