La violenza e la criminalità non conoscono confini, non conoscono paesi, non conoscono lingue. La violenza e la criminalità sono una confusione di gesti che oltrepassa spazi e confini nazionali per arrivare a un obiettivo più grande. Un obiettivo che perentoriamente evoca pene patite sulla pelle di innocenti. Potremmo parlare della nuova tratta degli schiavi, ovvero della tratta delle prostitute, o meglio delle bambine e delle donne strappate alle loro famiglie per essere trasportate ‒ come merce da cui trarre lucro ‒ in Europa. Una situazione, questa, da cui è difficile uscire o nella quale scovare barlumi di speranza. Ma grazie a Sonia Savioli, scrittrice e fotografa milanese, ciò che succede alle ragazze rumene prima di giungere in Italia e la loro condizione di emigrate nel nostro paese diventano romanzo con Il viaggio di Bucurie (Iacobelli editore, pp.192, € 12,00). Elena è la protagonista che accompagnerà i lettori in realtà sconosciute a chi solitamente osserva da lontano, e spesso con disgusto, prostitute, immigrati, bambini e bambine persi per il mondo.
Bucurie e Elena
Chi è Bucurie? Chi è Elena? La prima è la principessa del «paese verde e azzurro tra i monti», in Transilvania, figlia del re Bonaccione e fidanzata del principe Pastore. La seconda è una bambina che vive insieme ai suoi teneri genitori e al suo fratellino a Pascua Alta, in Romania.
Elena ama a tal punto la fiaba di Bucurie, da identificare la sua vita con la storia della sua eroina. Si fa chiamare Bucurie e il romanzo è strutturato in modo tale che il lettore faccia lo stesso: ogni capitolo apre con le vicissitudini della principessa, il cui scopo è salvare il suo amante dalle grinfie di chi l’ha rapito.
Elena e chi legge non sbagliano ad associare le due esistenze, una fantastica e una reale, poiché dopo poche pagine la protagonista ‒ che alla fine della storia ha tredici anni e vive d’amore ‒ racconta del rapimento subito nel suo paese. Elena comincia a vivere un incubo, strattonata con violenza e obbligata a salire in una macchina, con la quale due malfattori la trasportano in Italia, in un istituto per bambini orfani a Verona, e successivamente la consegnano a una famiglia in cambio di soldi. Dal suo «paese verde e azzurro tra i monti», Elena si ritrova lontana dalla sua terra e dagli affetti dell’infanzia.
L’opera è suddivisa in cinque capitoli e ognuno di essi ha una struttura che si ripete. Ne emerge così una scrittura meditata e armoniosa. Vi si ritrovano l’elemento fiabesco ‒ come accennato sopra ‒ e reminiscenze di una vita che sembra non esserci più, cui fa da contraltare il racconto di ciò che è successo: rapimento, viaggio in macchina verso l’Italia, arrivo a Verona, fuga dall’istituto e dall’Italia, incontro con Rosalia costretta a usare il suo corpo, o con Samira e Aziz, prelevati come lei con ferocia dalle loro famiglie, rispettivamente gitana e marocchina. Tutto – neanche una parola sfugge – è ammorbidito da un’evidente emotività. Elena dissemina il racconto di sensazioni. Ma l’aspetto innovativo riguarda come riesce a farlo e il merito va a Sonia Savioli, che in buona parte del romanzo si focalizza sulle sensazioni tattili, olfattive, visive dei personaggi: «Un corridoio col pavimento di piastrelle azzurre e piastrelle color crema e con pareti celesti ma con sfumature più chiare e più scure; una piccola scala coi gradini di pietra chiara, che ebbi paura di sporcare; una porta di legno massiccio, un po’ lucido ma non molto, così liscia che non sembrava neanche di legno; una stanza con il pavimento di piastrelle color acqua di mare; due divani color oro e acqua di mare». O ancora: «Sono odori verdi e azzurri e violetti, qualche volta sono odori color miele e color oro».
Poi, si legge di divagazioni che, in un contesto poco felice, s’impongono in maniera decisa: «La mia città più bella del mondo aveva le case bianche, ma sui muri c’erano delle strisce dipinte o dei fregi scolpiti con figure di animali e bambini, con foglie e fiori e con le stelle, il sole e la luna. Le case avevano balconi da cui scendevano o salivano i rampicanti, e avevano tende colorate. Nelle strade non c’era l’asfalto ma l’erba, e dei viottoli di pietra per non calpestarla troppo […]; c’erano file di alberi lungo ogni strada, tigli che profumavano e alberi da frutto, e tutti potevano raccoglierne i frutti per mangiarli, ma non di più di quelli che potevano mangiare in quel momento».
Le battaglie vinte
La principessa Bucurie riesce a salvare il suo principe Pastore rapito. E Elena? La piccola riuscirà anche lei nell’impresa di riabbracciare i suoi cari. Ritorna a Pascua Alta, ai suoi prati, ai suoi pascoli e soprattutto ai sorrisi che l’hanno vista crescere e le hanno permesso di essere un’eroina. Lei, che, prima della sua avventura, conosceva solo spensieratezza e naturale semplicità, dopo è costretta a confrontarsi con l’orrore e il viscidume della criminalità. Ma dalla grande pozzanghera di schifo e ingiustizia la nuova Bucurie esce salva, pronta a osservare il cielo con gli stessi occhi di prima: «Anche Constantin mi chiama Bucurie, quando parlo coi lupi, o quando gli racconto storie fiabesche sulle stelle cadenti, mentre noi stiamo distesi sul prato nelle notti d’estate: il cielo allora è così vicino che ci sentiamo stelle anche noi. Forse le stelle ci guardano dai loro immensi prati blu e si sentono bambini. Chi può dirlo?».
Francesca Ielpo
(direfarescrivere, anno IX, n. 90, giugno 2013)
|