Rafael Bernal, nato a Città del Messico nel 1915, possedeva una personalità poliedrica e affascinante. Romanziere, novellista, drammaturgo, sceneggiatore, editore, persino esploratore dell’Orinoco e, nel crepuscolo della sua esistenza, diplomatico della Repubblica messicana in America Latina, nelle Filippine e in Svizzera, dove si è spento prematuramente nel 1972. Aveva studiato Tecnica cinematografica a Parigi, e il gusto per l’immediatezza visuale dovuto a tale formazione emerge anche nella sua prosa dal ritmo incalzante, che ricorda i noir americani di James Cain, Raymond Chandler e Dashiell Hammett. Bernal scrive il romanzo a Lima, dove svolge le funzioni consolari, con le stesse modalità con cui un regista effettua il montaggio di un film, usando le parole al posto dei fotogrammi. Splendidamente tradotto dallo spagnolo da Andrea Ghezzi, Il complotto mongolo (Edizioni La Linea, pp. 256, € 16,00), pubblicato la prima volta nel 1969 dall’editore Joaquín Mortiz, ma riscoperto solo negli anni Settanta, dopo lo scarso successo iniziale, è unanimemente considerato il gioiello letterario di Bernal, autore tra l’altro di varie altre opere narrative, che spaziano dal poliziesco alla denuncia sociale. Umorismo nero e disincanto esistenziale sono due degli ingredienti più raffinati dello stile di Bernal, che inaugura così la prima novela negra ispano-americana.
Ma chi è Filiberto García, l’investigatore privato protagonista del romanzo? Ecco come ce lo presenta il suo creatore: «Il viso scuro era inespressivo, la bocca era come ingessata e conosceva il movimento solo quando doveva parlare. L’unico guizzo d’espressione animava i grandi occhi verdi a mandorla. A Yurécuraro, quando era piccolo, lo chiamavano il “gatto” e una donna, a Tampico, lo aveva apostrofato “la mia tigre mansueta”. Fottuta tigre mansueta! Benché gli occhi si prestassero all’impiego di un tale nomignolo, il resto del volto, in particolare la piega della bocca, non spingeva a tanto le persone». Come è facile constatare dalla lettura di questo brano, Bernal costruisce le descrizioni come inquadrature cinematografiche, in un découpage di forte impatto plastico e figurativo: ne emerge il tratto sornione di Filiberto, la sua glaciale noncuranza, il suo incedere guardingo da felino. E, in una specie di flashback letterario, riaffiorano anche reminiscenze quasi junghiane (i nomignoli che gli vengono affibbiati: “gatto” da piccolo, “tigre” da adulto).
Delitti insoluti e sordidi intrallazzi politici
Il tema della “sporcizia” morale trasuda da ogni pagina del romanzo: non dimentichiamo che in Messico la corruzione è un fenomeno endemico, mai estirpato. E, mentre in Perù Bernal scrive Il complotto mongolo, in Messico la protesta studentesca contro le istituzioni marce fino al midollo sta per essere soffocata nel sangue, il 2 ottobre 1968, nell’atroce massacro in piazza delle Tre Culture: vi assiste una giovane reporter italiana di nome Oriana Fallaci, che si becca anche una pallottola nella schiena mentre tenta di fotografare un elicottero dell’esercito che mitraglia i manifestanti. È in questo clima che a Filiberto viene commissionato un “lavoro sporco”: «Fottuto Colonnello! Non voglio morti, dice, ma fa chiamare me. E a me vengono a chiamare sempre per la stessa ragione, perché vogliono morti e vogliono anche che le loro manine ne escano pulite. È stato proprio per il ribrezzo dei morti che hanno decretato la fine del tempo delle pallottole e hanno inaugurato quello delle leggi». Ci sono di mezzo i servizi segreti cinesi, sovietici e naturalmente nordamericani: siamo al culmine della Guerra fredda, si spara in Vietnam e la “maggioranza silenziosa” negli Stati Uniti ha appena eletto presidente quel galantuomo di Richard Nixon, futuro responsabile dell’escalation in Vietnam e di operazioni “estere” sanguinarie come il golpe contro Salvador Allende in Cile. Ecco come Bernal descrive un agente dell’Fbi: «Aveva muscoli da pugile e faccia da coglione. Certo non un cattivo abbinamento, sempre che uno lo sappia sfruttare sul lavoro, e per questo gringo lo si potrebbe dire. Con i suoi occhialetti d’oro, il cappello dalla falda stretta e dal nastro colorato, assomiglia più che altro ad un agente viaggiatore. Fottuti gringo! Devono sempre fare teatro». Una scia di sangue sembra guidare Filiberto verso il progetto di un attentato contro la Casa Bianca, mentre, fra un cadavere e l’altro, conosce una ragazza di nome Marta e se ne invaghisce: «Si fermò a guardarla. Respirava a intermittenza, lentamente. In silenzio si tolse la giacca e la fondina della pistola. Non voleva tenerla sul cuore. È ora di infilarmi a letto, vicino a lei. Approfittare del suo sonno. Penso di non aver mai visto una donna che dorme, certo non una così bella. In generale quando si mettono a dormire me ne vado».
Furore per una morte di troppo
L’epilogo del romanzo ha la cadenza di una tragedia elisabettiana, anche se il sottofondo caustico continua a stemperare le morti in una specie di danse macabre. Tutto viene rimesso in discussione e i gelidi ingranaggi del Potere alla fine s’inceppano a causa dall’immancabile granello di sabbia, incarnato da Filiberto, ormai scheggia impazzita di un incubo per metà machiavellico e per metà kafkiano: «Il volto immobile sembrava una pietra di dolore. Teneva le mani giunte sulle ginocchia. L’odio cominciava a bruciargli gli occhi». E anche il momento della vendetta emana i miasmi di un sarcasmo acido: la pallottola «gli sconvolse il volto togliendogli, insieme agli occhiali, l’aspetto di uomo importante e rispettabile».
Il complotto mongolo di certo sarà piaciuto al grande Jorge Luis Borges, narratore attratto quasi morbosamente dalle strutture labirintiche, dai meandri di parole che sono il corrispettivo letterario dei vertiginosi abissi architettonici alla Piranesi: piccante come il chili dello Yucatán, questo noir messicano è una prelibatezza da gustare lentamente, magari sorseggiando un bicchierino di tequila bum bum.
Guglielmo Colombero
(direfarescrivere, anno IX, n. 88, aprile 2013)
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