Una straordinaria partecipazione di pubblico ha accompagnato il convegno Donne IT manager, opinioni ed esperienze a confronto, svoltosi mercoledì 9 marzo 2011 presso la sala meeting della Scuola di amministrazione aziendale di via Ventimiglia 115, a Torino. Il merito di averla organizzata spetta al Club dirigenti di Informatica, presieduto dal dottor Paolo Paganelli. Sei donne perentoriamente affermate nel mondo dell’impresa, e non da ieri – Maria Cristina Bonino della Consoft, Paola Bruschi della BasicNet, Silvana Candeloro dell’Aizoon, Antonia Casamassima della Fiat, Rossella Panero del Gtt, Patrizia Tedesco della Lavazza – hanno raccontato il loro percorso, non sempre agevole e facilitato, in un universo imprenditoriale dove il secolare predominio maschile si fa ancora parecchio sentire. Questo saggio è dedicato a loro e a tutte le donne che, lottando contro terribili difficoltà e sacrificando spesso i loro più preziosi affetti familiari, hanno dimostrato e tuttora dimostrano che anche l’altra metà del cielo può offrire lavoro e produrre ricchezza in una società tecnologicamente avanzata ma culturalmente ancora legata ad un becero modello patriarcale ormai obsoleto e agonizzante, del quale buona parte dei vertici politici ed economici italiani non riescono ancora a liberarsi.
Hatshepsut, la signora dell’incenso
Punt era l’antico nome dell’attuale regione compresa fra Gibuti e Capo Guardafui, affacciata sul golfo di Aden, che oggi include l’ex Somalia britannica, l’ex Somalia italiana e l’Ogaden etiope. Una terra costellata di alberi d’incenso, ricca di gomme e di resine, ma anche di ambra, mirra, avorio, lapislazzuli, agata verde e cannella. Dalla costa orientale dell’Africa, i mercanti marittimi fenici e i cammellieri arabi e siriani trasportavano tutte queste merci pregiate verso l’Egitto, attraverso il porto di Touaou.
Siamo attorno al 1500 a.C.: per la prima volta la doppia corona dell’Alto e del Basso Egitto è portata da una donna. Si chiama Hatshepsut, è la figlia maggiore del faraone Tutmosi I. In ossequio alla tradizione dinastica egizia dell’epoca (che ovviamente ignorava i disastri genetici scatenati dalle unioni fra consanguinei), Hatshepsut è andata in sposa al fratellastro Tutmosi II: non avrà figli, ma sarà la tutrice del figliastro Tutmosi III, il futuro vincitore della battaglia di Megiddo, che sancirà l’egemonia dei faraoni su tutto il Medio Oriente.
Hatshepsut, approfittando di un lungo periodo di pace interna, allestisce cinque navi mercantili e organizza, con audace spirito imprenditoriale, una spedizione commerciale nel Punt: per volontà del dio Amon, ovviamente. L’imperialismo dei faraoni radicava i propri “inevitabili destini” nella teologia, senza però trascurare le esigenze concrete: la regina, infatti, ordina di trasportare in Egitto non solo il prodotto finito, ma anche intere piante di incenso da far crescere e fruttificare nei giardini della sua dimora. Le sue navi ritorneranno cariche d’incenso, di rarissimo ebano scuro, di varie resine odorose e soprattutto di opoponax, la mirra dolce dalla fragranza morbida e vellutata. Le essenze predilette da Hatshepsut sono custodite nei magazzini reali, in pregiati flaconi di filigrana, e vendute alle ricche signore della nobiltà egizia a prezzi esorbitanti. Un ottimo affare per la regina, la quale, in vent’anni di potere, accumula un patrimonio colossale.
A causa dell’avversione nutrita nei suoi confronti dal figliastro Tutmosi III, dopo la morte (provocata, pare, da una combinazione di artrite e obesità) Hatshepsut subisce una vera e propria damnatio memoriae: il suo nome viene cancellato dalle iscrizioni, le sue statue quasi tutte demolite, e ai sudditi viene proibito persino di pronunciare il suo nome. Ma l’incenso che lei aveva importato dal Punt continua nei secoli successivi, fino all’epoca di Cleopatra, a profumare la pelle delle nobildonne egizie, non solo per lasciare una scia ipnotica al loro passaggio, ma anche per difendere la loro delicata carnagione dalle scottature solari…
La regina di Saba e Salomone: fashion & business
Storia e leggenda si confondono nella figura di Bilquis (per gli etiopi Macheda), la mitica regina di Saba. Narra la Bibbia, nel Primo Libro dei Re (10,1-12) che la regina di Saba «entrò in Gerusalemme con numeroso seguito e cammelli carichi di aromi, di oro, in grande quantità, e di pietre preziose», e che offrì in dono al re d’Israele Salomone «centoventi talenti d’oro, gran quantità di aromi e pietre preziose: non furono mai portati tanti aromi quanti ne offrì in dono a Salomone la regina di Saba». E, per contraccambiare, il sovrano ebraico «offrì in dono alla regina di Saba tutto ciò che ella manifestò desiderio di avere e chiese, oltre a quanto le donò con magnificenza regale, degna di lui. Poi ella se ne partì e tornò con i suoi servi al suo paese». Una transazione commerciale elegantemente camuffata da scambio di doni dal narratore biblico. Il fiuto per gli affari di Salomone era infallibile: per costruire il Tempio che lo rese celebre, stipulò un vantaggioso trattato commerciale con il re fenicio di Tiro, Hiram, che gli garantì un’ingente fornitura di travi di cedro e di cipresso. In ambito economico la regina di Saba poteva sicuramente competere con lui: ma chi era veramente Bilquis/Macheda, considerata dalla tradizione etiope la capostipite dei negus abissini, l’ultimo dei quali fu Hailé Selassié? E dove era situato precisamente il suo regno?
La storiografia prevalente lo colloca nell’attuale Yemen: l’antica capitale, Marib, sorgeva in mezzo al deserto, a un centinaio di chilometri da Sana’a, e la sua posizione la rendeva un crocevia strategico per il tragitto delle carovane che portavano l’incenso verso il Mar Rosso. L’incontro fra la regina di Saba e Salomone è databile attorno al 950 a.C., un’epoca di pace e di prosperità, dato che la minaccia del brutale imperialismo assiro era stata disinnescata dalle incursioni dei nomadi aramei (i siriani arcaici) e dalla rivalità con il contiguo regno di Urartu (patria dei bellicosi antenati degli armeni). Il clima arido dello Yemen non ostacolava minimamente gli ambiziosi progetti di Bilquis/Macheda.
Il testo biblico sorvola elegantemente su una probabile relazione sessuale fra lei e Salomone: nell’alcova gli affari si trattavano meglio, specie fra due sovrani spregiudicati come loro. Del resto Salomone seguiva le orme paterne, e le scarne cronache del tempo lasciano comunque intuire che fosse un discreto sciupafemmine. Quanto alla regina di Saba, i costumi della sua gente erano tutt’altro che puritani: per cui è assai verosimile che Bilquis/Macheda non si sia limitata a mettere alla prova la saggezza del sovrano ebraico, ma abbia voluto anche sperimentare di persona la sua tanto declamata ars amatoria.
Ma quali prodotti offriva la regina di Saba? Sicuramente l’opobalsamo (in botanica commiphora kataf), una gomma fragrante i cui semi infatti Salomone trapiantò nei giardini di Gerusalemme, e il legno pregiato ricavato da quelle piante, conosciuto con il nome di xylobalsamo. La resina di opobalsamo si otteneva per incisione della corteccia, e l’intero raccolto di una giornata estiva, secondo la Naturalis historia di Plinio il Vecchio, bastava appena a riempire il guscio di una conchiglia e costava l’equivalente del suo peso in argento. Con la medesima tecnica si raccoglieva anche l’incenso, abbondante nella terra dei Sabei, e della qualità più pregiata (la specie Boswellia socotrana, presente appunto sull’isola di Socotra). Anche la mirra eritrea era uno dei prodotti che i mercanti sabei vendevano con enorme profitto: uno studioso tedesco, Christian G. Ehrenberg, appurò nel 1826 che gli alberi della mirra crescevano a Qizan, sulla frontiera dello Yemen, e così pure sui monti circostanti di Shahran e di Kara, dove formavano la macchia delle foreste di acacia, moringa ed euforbia che rivestivano le colline. Di fronte all’attuale Somalia (l’antico Punt) sorgeva il porto sabeo di Muza, che la regina di Saba sicuramente controllava: vi transitavano la mirra di prima scelta e l’olio puro da essa distillato, destinati poi a fungere da ingredienti per gli unguenti più esclusivi.
Possiamo quindi immaginare la regina di Saba come un’intraprendente e geniale imprenditrice nel settore dei consumi voluttuari, che governava l’intero ciclo produttivo e distributivo grazie a un’organizzazione capillare, e che, considerato l’approccio con Salomone, precorreva già le moderne strategie di marketing. Raccolta, trasporto, distribuzione, promozione, vendita: nulla era lasciato al caso.
Aspasia, la prima manager culturale della storia
«Concubina dall’occhio di cagna»: con queste parole il commediografo Cratino bollava Aspasia di Mileto, la colta e affascinante straniera amata da Pericle, il geniale statista che fra il 461 e il 429 a.C. trasformò Atene in una potenza economica e militare senza eguali nel Mediterraneo occidentale. Libera pensatrice ammirata da Socrate e da Senofonte (ma altrettanto detestata dai più intransigenti difensori del patriarcato, che consideravano le donne esseri incapaci di pensare), Aspasia fonda il primo salotto filosofico e letterario di cui si trovi traccia nell’antichità classica. Se infatti le finalità della moderna professione di manager culturale sono quelle di dare forma ai progetti e alle iniziative culturali, di elaborare le strategie più efficaci per attirare l’attenzione del pubblico, di reperire le risorse economiche necessarie per far decollare le manifestazioni e di conferire un ruolo sociale all’impresa culturale a tale impresa, Aspasia fu sicuramente la prima donna in assoluto a tracciare il solco di questa tradizione destinata poi a espandersi nei secoli successivi in tutto l’Occidente. Abilissimo propagandista, dotato di una straordinaria capacità comunicativa, Pericle fu sicuramente da lei ispirato nella sua azione di governo: l’apparato di cui si serviva l’uomo politico ateniese era paragonabile all’ufficio stampa dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti, tanta era la potenza mediatica che si dimostrava in grado di sprigionare.
Aspasia, con incredibile modernità di pensiero, attribuisce il giusto peso al potere della parola e alla suggestione delle scenografie, svincolando la comunicazione dal carattere divinatorio per trasferirla dentro le pieghe della società ellenica. Non è da escludere che il Partenone sia sorto grazie a un suo suggerimento: creare un monumento imperituro alla potenza dello stato ateniese. Nella sua ottica, la persuasione delle masse non dipende più (se non nella fasulla retorica ufficiale) dalla benevolenza degli dèi, ma dalla capacità del demagogo di turno (all’epoca Pericle) di creare una cultura di regime, utilizzando a proprio vantaggio gli strumenti offerti dalla stessa democrazia. Nella visione culturale di Aspasia, l’oratoria, l’arte, la filosofia diventano tutte strumenti per affilare la comunicazione e renderla più efficace. La cultura si trasforma così in una incubatrice del consenso. Aspasia non visse mai della luce riflessa emanata da Pericle: al contrario, fu lei la fonte di quella luce.
Caterina de Medici, la risanatrice fiorentina
Nell’anno del Signore 1570, il regno di Francia è profondamente diviso: cattolici e ugonotti si combattono da anni, e il tesoro della corona è in dissesto a causa dei disordini che sconvolgono l’intera nazione. Caterina de Medici, vedova del re Enrico II (morto tragicamente a causa di un colpo di lancia durante un torneo, come aveva predetto Nostradamus), è figlia di banchieri fiorentini, per cui la vocazione alla contabilità ce l’ha nel sangue. Ha da poco superato la cinquantina, veste sempre di nero in memoria del marito, e, dominando la fragile personalità di suo figlio, il re Carlo IX, governa la Francia da dietro le quinte, lottando con tutte le sue forze per salvare dalla rovina la dinastia dei Valois. Due famiglie rivali le contendono lo scettro, i cattolici Guisa e i protestanti Borbone.
Caterina è abile, energica, coltissima, intelligente: pare che compili di persona i preventivi e i disegni per le opere pubbliche che commissiona ai più celebri architetti. Ecco come salva il regno dalla bancarotta, adottando criteri manageriali di straordinaria modernità (analoghi a quelli che hanno di recente ispirato molte importanti privatizzazioni), nella ricostruzione dell’illustre storiografo Ivan Cloulas (Catherine de Médicis, Librairie Arthème Fayard, Parigi, 1979. Edito in Italia da Sansoni Editore, Firenze, 1980):
«C’era bisogno di circa due milioni di lire, che si trovarono grazie alla vendita dei beni del clero effettuata in applicazione alla bolla del 24 novembre 1568. L’operazione si svolse fino all’ottobre 1570. Il conto particolareggiato, diocesi per diocesi, è conservato negli Archivi nazionali, e rivela che ci fu un considerevole trasferimento di proprietà di manomorta. Borghesi e nobili, ma talvolta anche contadini, acquistarono diritti e giustizie nel Mezzogiorno, canoni e rendite fondiarie nel Centro, terre, prati, vigne e boschi nel Nord del regno. Un po’ dappertutto castelli, manieri, case di città, fattorie e mulini appartenenti alle chiese, abbazie o capitoli da secoli furono messi all’incanto. È curioso constatare la febbre di acquisto che esplose allora; […] Gli acquirenti speravano che l’alienazione autorizzata da una bolla pontificia avrebbe garantito un definitivo possesso dei beni. In questo modo le ricchezze, sia le vecchie che le nuove, cercarono di trovare nell’acquisto dei possedimenti ecclesiastici la sicurezza di una base fondiaria in un periodo caratterizzato da una grande instabilità monetaria. La quotazione dello scudo continuava a salire mentre cresceva il numero delle monete in circolazione, provenienti dal Nuovo Mondo attraverso la penisola iberica. […] I mercanti trovavano vantaggiosa questa situazione, anche se certamente compravano a caro prezzo le derrate importate dalla Spagna, dai Paesi Bassi e dalla Germania: nel 1576 bisognerà sborsare sei scudi in Francia per pagare un acquisto corrispondente a cinque scudi in quei paesi. Per superare le difficoltà, pagavano i loro acquisti in moneta spicciola, il biglione, di cui progressivamente il regno arriverà ad essere sprovvisto per i bisogni quotidiani dei suoi abitanti. Le merci vendute erano però molto vantaggiose. Questa grande ricchezza dei mercanti-banchieri assicurerà disponibilità al mondo della finanza durante tutto questo periodo per far fronte alle richieste della monarchia. Essa spiega anche l’interesse per l’acquisto dei beni ecclesiastici, riserva fondiaria ancora vergine che, a Caterina e a suo figlio, sembra offrire la panacea per rimediare al cronico sfacelo del Tesoro regio».
Manovrando astutamente le scarse e rigide leverages dell’epoca rinascimentale, Caterina de Medici risana il bilancio dello stato comportandosi come una manager intraprendente e innovatrice: estirpa le rendite parassitarie della manomorta, immette beni ecclesiastici sul mercato stimolando gli investimenti del ceto medio, volge a proprio favore la speculazione monetaria della casta mercantile ottenendo prestiti che scongiurano la bancarotta di stato. Non tutti gli effetti sono quelli desiderati: la crisi di liquidità provocata da un eccesso di acquisti con moneta spicciola impoverisce contadini e artigiani, e così s’innesca la combustione lenta che porterà, all’alba del 24 agosto 1572, al bagno di sangue della Notte di San Bartolomeo. Esasperati dal caro vita, i parigini sfogheranno la loro rabbia contro gli ugonotti, massacrandone migliaia in nome della santa fede cattolica, ma in realtà per impadronirsi dei loro beni attraverso un sistematico ricorso al saccheggio e alla rapina. L’atteggiamento di Caterina è cinicamente machiavellico: avalla il massacro dei protestanti per salvare la dinastia dei Valois.
Ma riuscirà solamente a ritardarne l’estinzione di una quindicina d’anni: nel 1574 muore il re Carlo IX, dieci anni dopo tocca al fratello minore Francesco. Entrambi erano minati dalla tisi: lo scettro di Francia passa nelle mani di Enrico III, che una volta incoronato esautora del tutto la madre. Caterina de Medici muore il 5 gennaio 1589. Pochi mesi dopo, l’ultimo dei Valois, Enrico III, cade colpito dal pugnale di un cattolico fanatico. Il genero di Caterina, Enrico IV di Borbone, fonda una nuova dinastia, destinata a durare fino alla Rivoluzione francese.
Francesca Sanna Sulis, la Penelope illuminista
Francesca Sulis nasce nel 1716 a Muravera, nella Sardegna sud-orientale, da una ricca famiglia di possidenti terrieri e allevatori. Sposa giovanissima il giurista Pietro Sanna Lecca, assai stimato presso la corte sabauda, e si trasferisce a Cagliari Castello. Colta, perspicace, ma dotata anche di una raffinata manualità, in pochi anni trasforma i magazzini della tenuta di Quartucciu in un laboratorio per la lavorazione della seta. Immettendosi senza indugio nella scia della Prima Rivoluzione Industriale, Donna Francesca acquista i telai più moderni e promuove sia la coltivazione del gelso che l’allevamento dei bachi da seta. La sua lungimiranza è straordinaria, fondandosi su una concezione del lavoro artigianale che precorre di due secoli l’idea di formazione professionale: Donna Francesca, infatti, esige che le giovani apprendiste vengano istruite sulle tecniche lavorative attraverso veri e propri corsi di perfezionamento da lei finanziati. Gli insegnanti provengono dal Piemonte e dalla Lombardia, specialmente dal Comasco (le regioni verso cui Donna Francesca indirizza l’esportazione del prodotto finito), e ogni ragazza, al momento delle nozze, riceve in dote un telaio. Nel 1779, in piena epoca dei Lumi, l’opificio di Donna Francesca produce una seta di pregio assoluto, richiestissima dai commercianti comaschi. La sua cliente più illustre è Caterina II la Grande, zarina di tutte le Russie.
Donna Francesca si spegne nel 1810, alla veneranda età di 93 anni: due anni prima aveva lasciato tutti i suoi beni in eredità ai poveri di Muravera e Quartucciu.
Lo studioso Lucio Spiga, che ha dedicato alla sua figura una monografia pubblicata nel 2004 dalla Workdesign di Selargius, sostiene che fu lei a inventare il made in Italy, promuovendo la seta tessuta in Sardegna sia negli stati italiani che nel resto d’Europa. Le sue collezioni di abiti godevano del privilegio di essere esposte al Palazzo Giulini di Sorico, e gran parte dell’aristocrazia sabauda si serviva da lei: un’anticipazione delle attuali strategie di marketing che sbalordisce per la sua modernità.
Educatrice e benefattrice, oltre che imprenditrice di talento, Donna Francesca plasma dunque il primo embrione di quella che nei secoli successivi diventerà la formazione professionale. E delinea anche un segmento di partecipazione dei lavoratori ai profitti aziendali, regalando i telai alle lavoranti che si sposano.
Insieme a Eleonora d’Arborea e a Grazia Deledda, Donna Francesca Sanna Sulis va a comporre la triade femminile che ha fatto conoscere la Sardegna in tutto il mondo, simboleggiata da uno scettro, da una penna e da un telaio nelle mani di donne che hanno saputo imprimere una traccia indelebile nella storia.
Madame Pommery, la vestale dello Champagne
Il suo nome da nubile era Jeanne Alexandrine Louise Mélin. Nata nelle Ardennes nel 1819, a vent’anni sposa il commerciante di vini Alexandre Pommery, che muore giovane lasciandola vedova nel 1860. Ambiziosa e tenace, Madame Louise non si abbatte e prende saldamente in pugno le redini dell’azienda familiare: nasce la Maison Pommery. Nel 1868 Madame Louise concepisce e realizza il Domaine Pommery: diciotto chilometri di gallerie sotterranee destinate ad accogliere, in un ambiente a temperatura controllata, qualcosa come venti milioni di bottiglie. Una cantina monumentale, la più grande che esista al mondo, ottenuta grazie al collegamento fra loro delle crayères, le antiche cave di gesso romane poco distanti da Reims. Oltrepassato il portone d’ingresso, una mastodontica scalinata di centosedici gradini scavata nel gesso si inabissa per trenta metri sottoterra e conduce in un labirinto di volte, corridoi e caverne.
Assai sensibile verso gli orientamenti dei consumatori, nel 1874 Madame Louise percepisce un mutamento significativo di tendenza: lo Champagne dolce ha stancato gli intenditori, si richiede un gusto più secco ma non ruvido. Lo chef de cave della Maison Pommery, il geniale Victor Lambert, si mette all’opera e dà vita a uno Champagne secco ma leggero, che non aggredisce il palato limitandosi a stuzzicarlo gradevolmente. Morbido, vellutato e armonico come desiderava Madame Louise. Viene battezzato Pommery Nature, è il primo “brut” millesimato nella storia della vinificazione. Il procedimento è costoso, dato che si richiedono uve più mature, e inizialmente l’innovazione viene accolta con un certo scetticismo: ma Madame Louise non demorde, e con una serie di vivaci iniziative promozionali conquista ben presto il mercato. «Ho voluto questo Domaine aperto sul mondo, aperto sul tempo», afferma con orgoglio.
Amante della cultura e dell’arte, Madame Louise diventa una fervida mecenate: fra il 1882 e il 1885 incarica lo scultore Gustave Navlet di abbellire le gallerie del Domaine con quattro bassorilievi monumentali scolpiti direttamente nel gesso: Les Maraudeurs, Le Grand Silène, Un souper sous le Régence e Le Triomphe de Bacchus. Nel 1888, per smentire le dicerie su un imminente tracollo finanziario della sua azienda, Madame Louise acquista all’asta, in forma anonima, una tela di Jean-Francois Millet, Les Glaneuses, ambitissima dai collezionisti americani. Una volta svelata la propria identità di acquirente, ne fa dono allo stato francese. Un sensazionale colpo mediatico che risolleva trionfalmente le sorti della Maison Pommery.
Madame Louise muore nel 1890: la figlia omonima eredita la Maison assieme al marito, il principe Guy de Polignac. Dal 1996 la Maison Pommery appartiene all’imprenditore belga Paul Vranken, e attualmente produce cinque milioni di bottiglie all’anno. Il sogno di Madame Louise non si è ancora infranto.
Marthe Hanau, la banchiera degli anni folli
Marthe Hanau nasce a Parigi nel 1886, da una modesta famiglia di ebrei alsaziani. Sua madre possiede una merceria, suo padre è un musicista di scarso successo, che la lascia presto orfana. Marthe, dall’aspetto pingue e poco attraente ma molto intelligente e vitale, sposa un imprenditore di piccolo calibro, Lazare Block, dal quale divorzia dopo poco tempo, restando però legata a lui da rapporti d’affari. Marthe è bisessuale, con una certa predilezione per le donne. Si lega a Josepha, una elegante e sofisticata altoborghese. Insieme frequentano locali alla moda, case da gioco, salotti letterari, e anche la Borsa, dove Marthe rivela doti inconsuete di mediatrice finanziaria.
Nel 1924, grazie al sostegno di un ricco mecenate come Léonard Rosenthal (dominatore del mercato delle perle), fonda un giornale, La Gazzette du franc, che si occupa di economia, di politica e di cultura. L’iniziativa è coronata dal successo. Molte grandi firme accettano di collaborare alla testata, e l’alta società si accorge finalmente di lei: il poeta Jean Cocteau diventa suo amico, Coco Chanel la loda in pubblico e le regala alcuni dei suoi celebri braccialetti. Il potente costruttore d’auto André Citröen si allea con lei in una spericolata operazione di salvataggio delle azioni della compagnia diamantifera De Beers, che rischiavano di crollare in Borsa, e anche questa volta Marthe vince la sfida. Le sue ambizioni crescono, comincia a farsi dei nemici nel mondo bancario e dell’alta finanza. Troppo intraprendente, troppo aggressiva: mettere in discussione certi equilibri può costare carissimo, specie se a farlo è una donna. Nel 1927 Marthe incontra un giornalista brillante e spregiudicato, Pierre Audibert, e lo nomina direttore della Gazette. Josepha si ingelosisce e la abbandona. Due anni dopo i contraccolpi del Venerdì nero di Wall Street investono l’Europa: il direttore della Banca di Parigi e dei Paesi Bassi, Horace Finaly, dichiara guerra al gruppo Hanau. Si scatena una lotta senza quartiere a colpi di calunnie, dossier e inchieste parlamentari.
Il 2 dicembre 1928 contro Marthe, ormai nota a tutti come La Banquière des années folles, viene spiccato un mandato d’arresto, con l’imputazione di bancarotta fraudolenta. Ottiene la libertà su cauzione dopo un tentato suicidio e una rocambolesca evasione, ma a partire dal 1930 tutto le crolla addosso. Audibert la accusa di averlo trascinato in una truffa e poi si toglie la vita. Muoiono anche l’ex marito e il mecenate Rosenthal, e lei è sempre più sola. Dopo la condanna a tre anni di carcere viene reclusa nell’inospitale penitenziario di Fresnes, la depressione la assale, implacabile. Il suicidio dell’ultimo amico che le era rimasto, André Citröen, a causa del dissesto della casa automobilistica, è per lei un colpo durissimo, che le spegne la voglia di vivere. Il 14 luglio 1935 Marthe Hanau ingoia un tubetto di barbiturici e si addormenta per sempre.
Aveva già rimborsato quasi metà dei crediti ottenuti dai piccoli risparmiatori, ma il santuario dell’alta finanza dominata dal sesso maschile non le aveva mai perdonato la sua intrusione. E alla fine era riuscito a distruggerla.
Marisa Bellisario, l’amazzone dal sorriso angelico
Marisa Bellisario nasce a Ceva il 9 luglio 1935, da padre pugliese e madre ligure. Laureata in Economia e Commercio, nel 1959 entra in Olivetti (il colloquio per l’assunzione lo sostiene con Carlo Tatò), ed è una delle prime ad interessarsi seriamente di informatica, in un clima ancora scettico e diffidente verso le nuove tecnologie. La sua ascesa è rapidissima: nel 1965 approda in America, e ottiene risultati talmente brillanti che nel 1979 è nominata presidente della Olivetti Corporation of America, che naviga in pessime acque. Marisa compie scelte coraggiose, che suscitano feroci polemiche: per tagliare i costi, chiude la prestigiosa ma costosissima sede di Park Avenue a New York e trasferisce il centro direzionale nella cittadina periferica di Tarrytown. Dal 1980 passa in Italtel, azienda pubblica allo sfascio: l’anno dopo ne diventa amministratore delegato e scatena una vera e propria rivoluzione copernicana, sostituendo due dirigenti su tre per rilanciare il gruppo, che rischia di fallire a causa delle colossali perdite di gestione. Marisa ce la fa: riporta il bilancio dell’Italtel in attivo, trasforma un rottame obsoleto in un gioiello dinamico e competitivo. Un risanamento che ha del miracoloso, al punto che nel 1984 la rivista Capital le dedica la copertina, e nel 1986 è proclamata manager dell’anno. Il presidente del Consiglio dell’epoca, Bettino Craxi, la nomina responsabile delle nuove tecnologie all’interno della Commissione nazionale per la realizzazione della parità fra uomo e donna, e già pensa di affidarle il Ministero delle Poste e Telecomunicazioni.
Purtroppo è il suo canto del cigno: all’improvviso si presenta, sordida e subdola, la malattia. Un tumore osseo che nel giro di due anni porterà Marisa alla tomba, a soli 53 anni. La prima donna manager italiana salita alla ribalta internazionale per i suoi successi si spegne a Torino il 4 agosto 1988. La morte la ghermisce in punta di piedi, senza nemmeno darle il tempo di leggere una lettera del marito, il docente universitario Lionello Cantoni, che la esortava a farsi coraggio perché non c’erano praticamente più speranze di guarigione. Erano una coppia molto unita, e l’unico rammarico per Marisa era quello di non aver potuto avere figli. Adorava i cani e i gatti, forse per compensare quel vuoto terribile che la affliggeva.
«Lavoravo e facevo carriera, dimostrando che potevo fare quello che facevano gli uomini, e forse farlo meglio», aveva scritto nella sua autobiografia, pubblicata da Rizzoli un anno prima della sua morte.
Guglielmo Colombero
(direfarescrivere, anno VII, n. 71, novembre 2011)
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