Poche nazioni sono legate al ciclismo come l’Italia. Per molti anni, e soprattutto nei momenti più difficili della nostra storia, il Giro d’Italia ha costituito l’emozione principale per milioni di connazionali. Il ciclismo fu un fattore unificante, capace di coinvolgere pacificamente – in tempi di guerra – gente di ogni classe sociale in un unico sentimento nazionale. Le cronache di Dino Buzzati al Giro d’Italia del ’49 o quelle di Anna Maria Ortese del ’55 rimangono impresse nella Storia come un ritratto (letterario, ma reale) di visi entusiasti, di susseguirsi di paesaggi diversi, di persone semplici ai bordi delle strade, uomini o donne, adulti o bambini, per i quali il Giro costituiva uno dei pochi momenti di svago dalle fatiche quotidiane e, se passava per i propri paesi, anche un gran motivo di orgoglio.
Personalità come Fausto Coppi o Gino Bartali hanno acceso l’entusiasmo nazionale sacrificato dal dopoguerra e vengono spesso citate nel romanzo di Roberto Bonfanti, L’uomo a pedali (Falzea editore, pp. 180, € 12,50), come modelli ai quali il protagonista fa riferimento per le sue “strategie” ciclistiche.
Vivere per pedalare e pedalare per vivere
Ogni capitolo di questo romanzo è scandito da un movimento ciclistico.
Ogni titolo rappresenta uno scatto, una salita, una discesa, un momento di pausa, un salto di catena. Tutte rappresentazioni della vita, in effetti. La vita di Sergio, narrata attraverso il rumore delle pedivelle, in un intenso flashback dove gli eventi lontani ci appaiono ancora attuali, e quelli recenti risentono comunque del passato prossimo.
La prorompente individualità del protagonista non lascia spazio ad altri personaggi, i cui contorni sbiadiscono pian piano, lasciandolo solo. È un racconto dominato da una progressiva solitudine, un’ombra nera che Sergio sentirà sempre accanto nei momenti in cui la possibilità di pedalare lo abbandona.
Leggiamo di ricordi trasversali, come i raggi delle ruote che, con il loro andamento centrifugo, si dipartono e restano quasi sospesi. La struttura del romanzo è invece circolare, proprio come il movimento dei pedali, e tortuosa, come le strade dei più importanti giri d’Europa.
Analogamente alla maggior parte dei bambini, anche Sergio viene iniziato alla bicicletta sin da piccolissimo: dal nonno e da Mauro, un amico appassionato di ciclismo che istruisce nuovi talenti. Sin dal momento in cui per la prima volta sperimenta la sensazione del contatto con quell’oggetto “a pedali” Sergio realizza che quella è la sua direzione.
Proseguendo nella lettura, ci si rende conto di come questa consapevolezza influisca sull’impronta che Sergio darà alla propria vita, il cui costante punto focale sarà rappresentato dal proprio intimo e personale rapporto con la strada. Egli impara a correre, a scattare, soprattutto in salita. Nessun altro tra i suoi compagni sembra riuscire a stargli dietro. Niente pare spaventarlo. Esistono solo lui, la bici e la strada.
La prima parte della sua vita trascorre tra gente semplice: il caro Mauro, capace di cogliere con uno sguardo i travagli umani e di risolverli a modo suo con una pacca sulla spalla, oltre a parenti e amici, sempre gli stessi, tra pranzi, ricorrenze, strade soleggiate, compiti a casa e i tanto agognati momenti liberi passati tra sudore, salite e, perché no, anche sporadiche cadute.
Il sapore dell’asfalto
Il momento in cui Sergio per un incidente vede andare in frantumi il suo sogno, insieme al suo ginocchio sinistro, viene raccontato dall’autore con fredda lucidità. Da quel momento la narrazione cambia tono: tutto diventa più introspettivo, meno luminoso, ma proprio per questo, molto più suggestivo.
Sergio vivrà una vita comune, senza la bicicletta. Quel logorio che non ha suscitato reazioni subito dopo l’incidente si trasformerà in una lenta corrosione della sua vita, delle aspettative, dei sogni, del mondo che lo circonda: smetterà di studiare, lavorerà come magazziniere e le sue uniche, false, emozioni consisteranno nel farsi una birra ogni tanto e andare a pranzo o a cene prenatalizie con i colleghi. Sergio non si porrà più domande e lascerà andare la sua mente, come sospinta da una forza di inerzia.
Questi sono gli insegnamenti della vita, dopotutto: lasciare da parte le aspettative giovanili e accontentarsi della felicità che ci passa accanto prima che sia troppo tardi. È ciò che pensa Antonio, il suo collega più vicino, quando gli dice: «Tu sei un bravo ragazzo, Sergio. Il tuo unico difetto è che sei uno di quelli che si fanno troppe domande. E quando ti fai troppe domande finisce che non ci capisci più nulla di tutto ciò che hai intorno. Dai retta a me: la vita è molto più semplice di quello che si crede. E, se anche fosse complicata è inutile incasinarla ancora di più con pensieri inutili. […] Che tanto invecchierai comunque e le risposte che vorresti non le troverai in ogni caso. Nessuno le trova mai. […] Dunque tanto vale invecchiare serenamente e non complicarsi la vita più del dovuto».
Tutto sommato il nostro protagonista seguirà il consiglio, ma è palpabile che manchi qualcosa nella sua vita. Le giornate scorrono tra pensieri confusi e pretesti per non pensare, in una quasi totale mancanza di coscienza di sé che nessuno riesce a riempire. Anche il pensiero della donna che amava ai tempi delle corse, Alice, è scomparso con lei, costretto a nascondersi dai commenti e dai giudizi altrui.
Eventi ovattati
Tutto ciò che succede nella vita di Sergio dopo l’incidente assume contorni incerti, quasi insignificanti. Il Giro delle Fiandre, la Liegi-Bastogne-Liegi, la Freccia Vallone che guarda in tv ogni primavera lo fanno sentire vivo a metà, restituendogli solo il sogno mai realizzato di pedalare su quei tragitti.
La morte del nonno è l’ennesimo voltare pagina rispetto alle aspettative sui pedali. Le donne che incontra e i loro sorrisi promettenti che sanno di futuro e felicità ricevono da lui spietati rifiuti. Chiunque cerchi di comprendere l’affastellarsi dei suoi pensieri rimane costantemente deluso e frustrato.
A Sergio il mondo non piace, nonostante lui piaccia moltissimo al mondo. Questo lo induce, per la maggior parte del tempo, a un’incapacità di reazione, portandolo a nutrire in profondità sentimenti ostili che sfoceranno poi in improvvisi scatti d’ira o d’orgoglio. Come al matrimonio del suo migliore amico, Fabrizio, quando il protagonista ha modo di constatare come le vite che lo circondavano una volta vadano via via assumendo una piega sempre più definita e “convenzionale”, mentre la sua non fa altro che sbandare tra alcol, night club, donne capaci di garantirgli piaceri a pagamento e una forte disillusione.
Perso il lavoro e fuggito via dall’ultima ragazza che lo ha amato, Sergio ritorna alla sua prima nonché unica passione, sfidando il dolore al ginocchio che gliel’aveva strappata via.
Lucidando la bici come prima della migliore corsa e pedalando con tutta la forza delle sue gambe, ricorda le persone e i tragitti, gli odori e le privazioni che ha vissuto e provato e, alla mezzanotte del suo trentesimo compleanno, dopo l’ennesima e ultima salita, si fa abbracciare dal vuoto.
Solitudine e assenza sono le costanti di questo romanzo. Tutto si delinea a partire da ciò che non c’è, ma che dovrebbe esserci, e tutti i dubbi su come guidare il manubrio della vita in qualche modo vengono fugati, «…sì, perché, a pensarci bene, il vero problema non è se il lieto fine esista oppure no […]. Il lieto fine lo abbiamo tutti sotto il naso; tutto sta nel saperlo cogliere, essere in grado di viverlo, accoglierlo serenamente e senza paura, avere l’umiltà di fermarsi a raccoglierlo quando ci passa accanto». Ma è una risposta che a Sergio non basta.
Angela Galloro
(direfarescrivere, anno VI, n. 57, settembre 2010)
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