Anno XX, n. 224
ottobre 2024
 
La cultura, probabilmente
Favole di Natale: il richiamo del focolare
armonizzando religiosità e paganesimo,
tra amore romantico e poesia dialettale
Cinque racconti per un’emozione e un incanto senza tempo
Solfanelli riporta alla luce il folclore e la magia di D’Annunzio
di Anna Foti
In una Russia sfarzosa, un albero di Natale diventa ministro del fato e adorna la sala con le sue verdi braccia su cui «la finta neve brilla e scintilla alla luce di mille candele». Non è invece finta la «neve che copre la terra il giorno della natività di Gesù Cristo» e che D’annunzio associa alla illibatezza della giovane e bella Ina Baranoff, protagonista della storia che apre la sua raccolta Favole di Natale, edita da Zolfanelli (pp. 95, € 7,00) e tratta da Parabole e Novelle, raccolta pubblicata dalla tipografia Bideri di Napoli nel 1916. Una produzione insolita per un letterato noto per la sua smania di primeggiare e per il suo audace temperamento.
Consegnato alla storia della cultura del secondo Ottocento dal suo romanzo marcatamente autobiografico, Il Piacere (1889), che gli vale la reputazione di scrittore-dandy dedito a mondanità, sregolatezza e puro edonismo, sorprende questa sua passione per racconti che il tempo ha affidato a tradizioni orali. Dunque, memorie popolari, per altro presenti anche in Terra Vergine e ne Le novelle di Pescara, e un tocco di fantastico che la sua penna-bacchetta magica trasforma, ricrea e trasfonde negli scritti raccolti in questa opera da porre sotto l’albero.
Dopo la narrazione, in Un albero in Russia, di un amore offerto, come un frutto, dal fascinoso conte Dimitri Kiriline e colto con la stessa irrefrenabile spontaneità dalla giovane Ina, seguono altri racconti in cui s’intrecciano tradizioni e poesia dialettale, descrizioni e narrazioni sul filo di una magia che il Natale non esaurisce nel suo significato squisitamente religioso.

Ritorno a casa
Con La leggenda in terra d’Abruzzo non solo D’Annunzio torna in Italia, in terra natia, ma in essa egli richiama anche il patrimonio fiabesco della tradizione letteraria italiana per plasmare la favola dal tenore più religioso di tutta la raccolta. Torna l’immagine della neve, questa volta sulle terre che «fiorite di rose come un immenso rosaio odoravano nella notte» e, unitamente a questa, si rinnova il messaggio di speranza proprio del Natale, che rischiara d’una luce bianca una notte altrimenti buia.
«La notte era senza luna; ma tutta la campagna risplendeva di una luce bianca ed eguale, come un plenilunio, perché il Divino era nato». La poesia dialettale che chiude il racconto simboleggia la grandiosità di un evento che si avvera tra umili genti e che queste chiama al privilegio del suo tramandare. Una semplicità che rafforza la sua virtù nel racconto successivo Il tesoro dei poveri, in cui una coppia di persone in condizioni di estrema povertà soffre la mancanza di una casa più che del pane.
Nella metafora della notte dei tempi in cui Giuseppe e Maria trovano posto solo in una stalla per dare alla luce il Figlio di Dio, un gatto guiderà la coppia verso un focolare spento e scuro che troverà la forza, attraverso due carboni, di accendersi e scaldare tutto intorno. «I poverelli si contentan di poco e son più felici. I nostri due si rallegraron, fin nell’intimo cuore, del bel dono di Gesù Bambino e resero fervide grazie [...]». Una immagine cara alla tradizione popolare, tramandata oralmente, quella in cui gli ultimi due tizzoni di un fuoco sono detti «occhi di gatto», luminosi come quelli dati in prestito alla favola di D’Annunzio per scaldare i poverelli, la cui ricchezza è appunto l’illusione.

Il corsaro che diventa eroe e la bella baciata dal principe
Paganesimo e cristianesimo tornano invece a mescolarsi in San Làimo navigatore, personaggio versatile che simboleggia un cammino di vita segnato da avventure e cambiamenti. A pesca con l’arco su una galea con cinque ordini di remi e poi al cospetto di una folla ad annunciare la libertà dall’idolatria. Da navigatore e corsaro a profeta e poi santo. Un salto consacrato quando «discese sul suo capo la colomba del cielo». Un cammino iniziato in discesa verso la riva del mare e terminato in un’ascesa al cielo preceduta da estasi e meditazione.
Un lieto fine incastonato dopo una serie di accadimenti che ne anticipano l’incanto chiude, infine, l’ultima favola La figlia di Borea e con essa l’intera raccolta. Dopo un’attesa settennale su un salice, la giovane fanciulla, i cui capelli erano ormai intrecciati coi rami dell’albero, tornerà a risplendere di bellezza, rinascendo dal sangue di una colomba trafitta dalla spada dell’amato principe. «E la figlia del vento baciò la bocca del figliuolo del re. E per sempre fu di lui».
Un classico lieto fine, arricchito dalle sfumature popolari offerte dal detto abruzzese «sangue e latte» che intesse la trama di un amore incantato e attraversato dal rosso della passione e dal candore del bianco. Un D’Annunzio inconsueto che attesta, laddove ce ne fosse bisogno, di non essere insensibile alla narrazione del fantastico e alla descrizione fiabesca.

Anna Foti
(direfarescrivere, anno IV, n. 27, marzo 2008)
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