Anno XX, n. 224
ottobre 2024
 
La cultura, probabilmente
La letteratura italiana del Novecento
analizzata in una raccolta di scritti:
per apprezzare il nostro patrimonio
I generi letterari e gli autori che hanno caratterizzato il secolo
scorso, commentati in un interessante volume di Rubbettino
di Ennio Masneri
Quello del Novecento italiano è un patrimonio particolareggiato, contraddistinto dai tanti movimenti letterari di ogni periodo come il Futurismo o l’Ermetismo. È un patrimonio che ha seguito e osservato le ideologie sociali, quelle religiose, della borghesia, della gente comune, in dialetto e in lingua moderna; i loro sogni, le loro speranze, i fatti crudi e nascosti anche attraverso la fantasia. È la fantasia che ha mosso il meccanismo della letteratura, che la svuota di ogni marketing editoriale, di ogni motivo di vendita e basta (come i romanzi di Camilleri o di Moccia…).
È con questo libro, Strutture dell’immaginario. Profilo del Novecento letterario italiano a cura di Rocco Mario Morano (Rubbettino, pp. 566, € 28,00), che si rende testimonianza alla letteratura del Novecento, ora che siamo entrati nel nuovo millennio.
Il volume è una miscellanea di studi di alcuni cattedratici di Letteratura italiana delle maggiori università italiane e di tre straniere, un francese, uno spagnolo e un tedesco: i primi analizzano con maggior ordine le varie fasi storiche e i generi letterari (poesia, romanzo, teatro, ecc.) che hanno contraddistinto il nostro Novecento, mentre i secondi relazionano la poesia crepuscolare ai modelli europei e la letteratura italiana dei primi del secolo scorso a quella della Germania e della Spagna.

Confronto tra letterature straniere e denuncia dell’«hic et nunc»
Questo volume è un’iniziativa operata per una conoscenza sistematica e approfondita, attraverso nuove metodologie di analisi e di critica, del patrimonio letterario del secolo scorso, con i vari temi affrontati e suscettibili di future discussioni. È un prodotto molto ben riuscito in quanto i vari relatori, senza altisonanti parole e senza esagerazioni di sorta, hanno descritto con occhio profondo e critico la storia letteraria italiana del Novecento, facendo uscire, tanto per usare le parole della Presentazione di Mario Bozzo – presidente della Fondazione Carical, che ne ha sponsorizzato la pubblicazione – «un profilo completo del Novecento letterario dal Decadentismo fino ai nostri tempi: un profilo che ha una sua inconfondibile specificità, rappresentata dal fatto che le correnti e gli autori del nostro panorama artistico-letterario sono inseriti in un contesto di riferimenti europei, con l’intento di sottolineare, attraverso uno studio comparato, le correlazioni con le letterature straniere».
E, per usare ancora le sue parole in chiusura, il volume «vuole anche essere una provocazione culturale in un momento come quello attuale che sollecita, a tutti i livelli, la necessità di superare i confini angusti e miopi della consueta visione nazionale per confrontarsi con la complessa dimensione europea nella quale siamo, ancora troppo inconsapevolmente, inseriti e coinvolti».
Nelle varie relazioni si parla del confronto, sia pacifico che combattivo – a suon di parole, beninteso –, sempre costante con le letterature straniere e degli influssi reciproci tra paesi anche lontani dal punto di vista culturale, artistico e geografico. Il confronto supera, infatti (e lo deve fare di continuo, come dice nella sua Introduzione Rocco Mario Morano – docente presso l’University of Toronto at Mississauga –, che ha ideato e coordinato questo progetto) «le ristrette visioni nazionalistiche o, peggio ancora, sciovinistiche e campanilistiche, tornate purtroppo in auge negli ultimi anni come risposta irrazionale, e pertanto del tutto controproducente, alla reale minaccia di identità che i fenomeni di globalizzazione in atto comportano se non vengono regolati e incanalati nell’alveo di una sana ed equilibrata politica di sviluppo fondata sulla coesistenza pacifica da intendere quale unico strumento atto a garantire in modo valido il principio fondamentale della salvaguardia e del rispetto delle tradizioni dei popoli in tutti i campi, compresi, quindi, quelli dell’arte e della letteratura».
Nella sua Introduzione, il curatore denuncia anche una certa diffusione, soprattutto fra i giovani, dell’idea di una «contemporaneità assoluta» secondo la quale è da considerarsi esclusivamente solo l’«hic et nunc»: non si può, infatti, scrivere letteratura senza il vasto e glorioso contributo di quella del passato che tutti ci invidiano.

Il Futurismo e la poesia
Il libro è costituito da cinque sezioni che contengono le varie relazioni: affronteremo soltanto le prime due, che costituiscono un’analisi spettrografica sulle opere più importanti della letteratura del Novecento.
La sezione Diacronie contiene interessanti relazioni dedicate agli studi sulla poesia e la letteratura in genere del primo Novecento e degli anni a seguire. Spicca tra tutti lo studio di uno dei massimi esperti del Futurismo, il movimento d’avanguardia tutto orgogliosamente italiano, Mario Verdone – dell’Università degli Studi di Roma Tre –, che non dimentica nel suo scritto, dal titolo Futurismo, «arte totale» e propaggini internazionali del movimento d’avanguardia, il grande contributo che artisti calabresi come Enzo Benedetto, Umberto Boccioni, Antonio Marasco e Geppo Tedeschi hanno dato alla rivoluzione culturale, che si prefiggeva «di proiettare la vita e l’arte nel futuro». Il movimento era nato con il Manifesto del Futurismo, pubblicato a Parigi sul Figaro il 20 febbraio 1909 e scritto da Filippo Tommaso Marinetti. Verdone analizza la storia e la produzione di questo movimento culturale e lo confronta con il cubismo francese e con i movimenti nati in quegli anni negli altri paesi. Ma soprattutto lo elogia in quanto, tale scuola – o, per usare le parole di Luciano Folgore, «tendenza» –, che influì non solo nella letteratura, ma anche nell’arte e nella pittura, agì «da catalizzatore, da stimolatore, e ispirò, influenzò e anticipò molta avanguardia successiva. Diceva a giusto proposito il regista teatrale tedesco Gustav Hartung: “Tutti i movimenti mondiali di arte moderna hanno per padre spirituale il Futurismo”».
Interessante nella stessa sezione è la relazione La poesia italiana dal secondo dopoguerra ai tempi più recenti: ricerca, metamorfosi sperimentazione, di Giorgio Bárberi Squarotti – docente dell’Università di Torino. Egli traccia un’analisi profonda sulla connessione tra la poesia di quel periodo e l’esperienza traumatica della Prima guerra mondiale, che percorre di pari passo con le ideologie e gli animi di quel tempo, con le «trasformazioni tecniche, formali, di linguaggio» della poesia, che raggiunse il suo culmine con le opere di d’Annunzio, di Ungaretti e tanti altri ancora, inclusi stranieri come Apollinaire, Pound, ecc. Negli anni della Seconda guerra mondiale, con le ideologie che preparano il tragico evento ed i cambiamenti che ne conseguono, si ha una produzione poetica «alquanto scarsa e dispersiva» (Caproni, Gatto, Sereni).
Nel Dopoguerra si rintraccia, invece, una produzione poetica molto prolifica, che riguarda argomenti di Resistenza «come manifestazione di pretesa risposta alla novità del mutato ambiente politico, con la caduta del fascismo […] ma i risultati sono fragili, inconsistenti, tanto da non avere lasciato traccia […]». Bárberi Squarotti, forse con una punta di amarezza, riferisce lo scontro tra la poesia del postfascismo e le ideologie confuse e straniere di quel tempo.
Il suo approfondimento è all’inizio incentrato sulla figura di Eugenio Montale del Dopoguerra e sulla sua opera La bufera, che fu «la suprema ma anche conclusiva rappresentazione del tragico in forza delle manifestazioni e delle vicende della guerra: ma già contiene in sé, a poco a poco che la raccolta si svolge e va avanti negli anni, la consapevolezza sempre più chiara che la conclusione dell’orrore e del male non ha condotto alla salvazione e alla rinascita, ma a una desolata e rovinosa degradazione del mondo. Nel tempo della “bufera” possono tuttavia apparire le forme della speranza, della liberazione dall’oppressione e dallo strazio […]. La guerra determina l’uso dell’allegoria e del sublime, in quanto è la più evidente e solenne rappresentazione del male come della storia che non può che essere tradotta nel tragico».
E si fa portavoce dell’amarezza del poeta, premio “Nobel”, quando cerca di conservare «la difficile distanza della dignità contro le confusioni di pauperismo evangelico e di marxismo che servono al successo e ai guadagni». È un Montale amaro che definisce nella sua Lettera a Malvolio, in Diario del ’71, «una volta per tutte l’opposizione radicale alle idee correnti e agli idoli della moda culturale, ai cultori dello scandalo, a chi si pone in primo piano sempre sfruttando le idee di successo e facendo un disgustoso pâté destinato non più agli iddii pestilenziali, ma al consumo volgare del pubblico» (chiaro riferimento al marketing editoriale e ad opere commerciali come quelle del creatore delle avventure del commissario Montalbano o dello scrittore di Tre metri sopra il cielo, che di sicuro hanno contribuito, si spera involontariamente, alla «contemporaneità assoluta» denunciata da Morano nella sua Introduzione…).
Bárberi Squarotti prosegue con la storia della Neoavanguardia che ha avuto una peculiare diffusione «fra i giovani apprendisti poeti a partire dalla metà degli anni Sessanta», con la poesia ermetica, con la liricità di Attilio Bertolucci ma anche con la poesia dell’umbro Sandro Penna.
La sua dettagliatissima relazione si chiude con gli ultimi poeti del secondo Novecento, come Pier Paolo Pasolini o Tonino Guerra, descrivendo brevemente quelli più significativi delle varie regioni italiane, in un viaggio dal Nord al Sud, che tocca, per esempio, per la Calabria, Dante Maffia, voce rappresentativa e intensa del mondo del paese.

Il teatro di metà Novecento e quello di fine secolo
La seconda parte riguarda invece la letteratura teatrale del Novecento e le contaminazioni con le altre arti. Delle tre relazioni, che insieme si intitolano Teatro, cinema e letteratura, emerge per l’analisi approfondita del teatro, lo scritto di Mirella Saulini – dell’Università “La Sapienza” di Roma – dal titolo La letteratura teatrale del Novecento dal secondo dopoguerra ad oggi: autori, tendenze e tecniche di rappresentazione.
L’autrice mette in una luce nuova e sistematica il teatro di Gabriele d’Annunzio, la nascita del cosiddetto Teatro dell’assurdo e il teatro di varietà, dando rilievo a figure come Ugo Betti e Diego Fabbri; si diffonde, in particolare, sull’opera di Luigi Pirandello e di Eduardo De Filippo, due dei massimi scrittori carismatici della letteratura teatrale italiana, che agirono in un periodo in cui avanzava il cinema e, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, la televisione. Delle opere dei due scrittori teatrali, Saulini non si limita alla descrizione, ma traccia un profilo piuttosto riflessivo e storico in quanto, gli stessi eventi, anche quelli quotidiani, legati alla società e all’ambiente, hanno contribuito fondamentalmente alla creazione di opere come Liolà, Questa sera si recita a soggetto, Sei personaggi in cerca di autore, di pirandelliana memoria sulla Sicilia di quel tempo e sulle convenzioni del teatro presente, o come Natale in casa Cupiello e Napoli milionaria! di Eduardo, sulla Napoli del Dopoguerra, con la gente che cercava di vivere alla giornata, arraggiandosi e pregando il patrono della città, San Gennaro, con nella testa la proverbiale battuta finale di quest’ultima commedia, «ha da passà ’a nuttata», per indicare che bisogna aspettare che passi la notte per sperare in un giorno nuovo e diverso da quello increscioso precedente.
È il conflitto tra l’individuo e la società che contraddistingue la commedia di Eduardo in quanto il nostro autore fa un teatro di realtà e mai di evasione. È un teatro di tacita e sottintesa denuncia contro la morale di certa gente, contro la superbia sociale. È un teatro che racconta la vita di uomini normali, i cosiddetti antieroi, che entrano in situazioni capaci di far uscire dallo spettatore lo sdegno nei confronti della vita e della società chiusa, la solidarietà e l’umana simpatia verso i suoi personaggi, soprattutto verso i suoi antieroi che chiedono a chi li circonda solo di essere lasciati un poco in pace.
Un aspetto che colpisce nella relazione di Saulini, è il racconto che traccia della vita di Eduardo e dei suoi fratelli Titina e Peppino, perché il teatro partenopeo è Eduardo stesso, che è ormai diventato un autore nazionale a tutti gli effetti, al di là dei confini campani delle sue espressioni, in quanto, non solo i napoletani ma anche tutti gli italiani provati dalla guerra e dalla confusione del Dopoguerra, si sono sentiti come gli stessi personaggi delle sue commedie. Quindi, se Pirandello narra la gente, Eduardo è la gente.
In questa relazione, continua la storia critica del teatro italiano e delle sue opere degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e della fine della cosiddetta compagnia capocomicale. Saulini fa un’analisi attenta dei motivi che portarono a questa fine con l’introduzione del regista. Infatti, mentre prima si definivano i personaggi sulle caratteristiche fondamentali e interpretative di ciascuno degli attori della compagnia (questo permetteva e facilitava il legame di lavoro e personale tra l’autore, il “poeta di compagnia”, e il gruppo di attori che vivevano intorno a lui), negli anni Sessanta entrò prepotentemente la figura del regista, che distribuiva i ruoli ad attori che volevano spazi sempre più ampi, grandi ruoli che solo i classici potevano offrire.
Questa crisi si acutizzò con l’affermarsi del “teatro politico” durante il Sessantotto. L’autrice denuncia apertamente l’uso strumentale da parte di alcuni di approfittare del contrasto generazionale di quel periodo, contro la società dei padri, e del messaggio del Sessantotto e della sua eredità per «un cambiamento epocale che non poteva non avere i propri riflessi nel teatro, nei suoi contenuti e nelle sue forme».
Saulini si fa portavoce anche dell’allarme lanciato dalle parole del critico Giuseppe Bartolucci che denuncia «il massacro dei “classici” e la loro manipolazione integrale […], come condizionamento di una scrittura drammaturgica ad una scrittura scenica».
Nonostante tutto quello che uscì, in maniera confusa e strana, dal bagaglio del Sessantotto, si erge una voce, quella di Pier Paolo Pasolini che, con il Manifesto per un nuovo teatro, propone coraggiosamente, proprio in quegli anni di contestazione, contro il teatro «della Chiacchiera» e del «Gesto o dell’Urlo» «un “teatro di parola”, dove quest’ultima domini sull’immagine e sia veicolo delle “idee, che sono i reali personaggi di questo teatro”» e quindi un teatro dall’interesse culturale, senza mondanità o spettacolarità. Di Pasolini conosciamo opere teatrali come Calderón, Orgia, Pilade.
Nelle sue opere lui compie una ricerca. È la ricerca di un mito, non quello greco, ma «fondativo all’origine della civiltà occidentale, i simboli, i luoghi, la ricerca degli Eden che non sono più, quale l’Italia contadina distrutta dal capitalismo […]».
Insomma, il viaggio di Saulini attraversa tutte le fasi del teatro italiano che, nel bene e nel male, come nel dissacrante e nel bello, nelle denunce di argomenti scottanti e nelle storie coraggiose di eroi e di antieroi, ha contribuito alla società italiana di oggi. E per questo non può essere classificato come semplice prodotto dei nostri padri, come magari vorrebbe la scuola di «contemporaneità assoluta», ma un bagaglio da cui attingere e imparare perché, se non fosse esistito il passato, non sarebbe esistito il presente.

Conclusioni
Ci fermiamo qui. Questo libro è utile non solo dal punto di vista scolastico o didattico: è un contributo fondamentale in quanto fa uscire anche i fatti nuovi, che forse qualcuno non ha voluto (la cosa è possibile) inserire nelle sue opere perché fedele a certe ideologie politiche. Non vogliamo creare e fomentare polemiche, ma spesso, nei fatti letterari e nella critica, hanno tenuto banco forme di discriminazione o di ricercata ignoranza.
Ma, se vogliamo uscire dal provincialismo, dalla paura di venire digeriti dal fantomatico “uomo nero” della globalizzazione (il diavolo non è poi così brutto come lo si dipinge…) e, soprattutto, se vogliamo dividere la cultura dall’influsso negativo di tutte le ideologie di parte (la cultura non va molto a braccetto con la politica, in quanto questa si presenta spesso confusa e inaffidabile), dobbiamo essere coraggiosi e non temere le critiche degli altri e confrontarci con scrittori stranieri moderni, portandoci nel nostro bagaglio non opere commerciali da presentare, ma opere che hanno un valore e un nome.
Facciamo notare che Saulini, senza esprimere nessun desiderio di accostarsi a quella censura generale, nascosta e di parte, ha ricordato, sia pur in una piccola ma non insignificante nota, alcuni scrittori dimenticati come Silvio Giovaninetti (autore di successi teatrali come L’abisso e L’oro matto) o Turi Vasile (autore de L’acqua), e altri, che forse non compaiono nei libri scolastici di Letteratura italiana.
Se tutto quello che si scrive e si pubblica fa veramente parte del nostro patrimonio, togliendo anche la maschera dell’ipocrisia, non è con la pigrizia della “scuola” di «contemporaneità assoluta» che si può andare avanti nel futuro, e nemmeno si può farlo con quella sorta di censura propria di parte del mondo letterario-politico, che persegue l’impossibile missione di convincere il mondo di essere legittimi portatori di una libertà che appartiene ad una cerchia ristretta.
Se si vuole lottare per la libertà, quella vera, per il futuro dei nostri figli, in modo tale che possano loro stessi essere liberi di accostarsi anche a quei libri “scomodi” per i critici del passato, non ci si deve nascondere dietro scuse e altisonanti motivi che di concreto non hanno nulla ma che portano ancora confusione e danno. È nel caos che quella cerchia di “baroni”, chiamiamoli così, si trova irresponsabilmente a proprio agio come un bambino capriccioso, nella paura di perdere privilegi e glorie. E noi dobbiamo assolutamente essere in grado di lottare contro le paure degli altri, che non sono nostre ma che vogliono farci prigionieri con le loro manovre tacite o alla luce del sole, quando si fanno ipocrite.
Questo libro, curato con giudizio da Rocco Mario Morano, scritto da mani responsabili e coraggiose, che seguono propri stili, proprie metodologie di critica, è un valido esempio per chi cerca la vera verità nella cultura letteraria italiana e non ha di certo paura di narrarcela.
Se poi a nessuno piace intraprendere questo viaggio, nuovo e non convenzionale, nel panorama di uno dei nostri secoli più fiorenti, se a nessuno interessa farsi erede di questo gigantesco patrimonio, beh… come disse Eduardo: «ha da passà ’a nuttata!».

Ennio Masneri

(direfarescrivere, anno III, n. 24, dicembre 2007)
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