Anno XX, n. 224
ottobre 2024
 
La cultura, probabilmente
Dalla legge “Casati” alle recenti riforme:
un secolo e mezzo di norme e di decreti
che hanno segnato l'istruzione pubblica
La scuola italiana viene esaminata nella sua evoluzione storica
anche per comprendere a fondo i cambiamenti politici e sociali
di Giuseppe Licandro
L’ordinamento scolastico italiano ha subito nel corso del tempo profonde trasformazioni, che ne hanno ripetutamente modificato l’impostazione pedagogica, ssecondo i mutamenti sociali e politici intervenuti in un secolo e mezzo di storia. Angelo Gaudio, docente di Educazione comparata all’Università di Udine, nell’articolo La storia della scuola italiana e delle sue riforme (in Nuova Secondaria, a cura di Evandro Agazzi e Giuseppe Bertagna, La Scuola) ha scritto che: «La percezione della storicità della scuola non è solo un paragrafo dei programmi di abilitazione di Filosofia e scienze umane [...]. La storia della scuola è una parte della storia e deve pertanto seguire i suoi metodi. Non dovrebbe esistere una storia scritta con la finalità pratica di sostenere una determinata idea o politica scolastica, anche se chi scrive la storia della scuola è inevitabilmente un uomo, o una donna, del suo tempo con le sue idee e i suoi pregiudizi, più o meno consapevoli e dichiarati».
La scuola, dunque, va studiata e compresa nella sua articolazione storica, che permette di capire meglio gli orientamenti politici della classe dirigente, le esigenze culturali degli intellettuali, le rivendicazioni dei ceti sociali.

La scuola postunitaria
La prima legge italiana complessiva in materia scolastica fu varata nel Regno di Sardegna (1859) e prese il nome dal Ministro della pubblica istruzione Gabrio Casati; dopo la proclamazione del Regno d’Italia, fu estesa al resto della penisola.
La legge “Casati” suddivise l’istruzione in elementare, tecnica e classica. La scuola elementare, distinta in due bienni, era gratuita e obbligatoria per il primo biennio (rimase, in ogni caso, alta l’evasione dell’obbligo scolastico). I maestri, nominati e stipendiati – piuttosto male – dai comuni, dovevano possedere una “patente d’idoneità”. Il numero di allievi per classe era davvero elevato: fino a settanta! Tra le materie d’insegnamento venne inserita anche la “dottrina religiosa”, con la possibilità però per le famiglie di chiederne la dispensa.
L’istruzione tecnica comprendeva un primo e un secondo livello di studi, entrambi triennali. Il secondo livello era costituito dall’Istituto tecnico, articolato a sua volta in varie sezioni (ragioneria, geometra, industriale), la cui gestione fu affidata al Ministero dell’Agricoltura e del Commercio, insieme alla formazione professionale.
L’istruzione classica – cui accedevano i giovani appartenenti ai ceti più abbienti – prevedeva un ginnasio quinquennale e un liceo triennale, con dirigenti scolastici di nomina regia. Tra gli indirizzi di scuola postelementare fu inserito anche la cosiddetta “scuola normale” per la formazione dei maestri. Erano previsti, dopo ogni ciclo scolastico, gli esami per passare a quello successivo (ma solo il liceo dava diritto all’iscrizione universitaria).
La legge “Casati”, espressione della mentalità aristocratica della Destra storica al potere, presentava indubbi pregi, ma anche rilevanti difetti, ben evidenziati da Giuseppe Ricuperati nel saggio Scuola (in Il mondo contemporaneo. Storia d’Italia, a cura di Fabio Levi, Umberto Levra, Nicola Tranfaglia, La Nuova Italia): «La legge […] a) rifletteva la realtà piemontese e lombarda per cui era stata concepita; b) sceglieva risolutamente la strada dell’accentramento delineata nel Piemonte sabaudo […]; c) divideva l’istruzione umanistica da quella tecnica, considerando quest’ultima una brutta copia della prima; d) non considerava l’istruzione professionale […]; e) prevedeva un obbligo scolastico limitatissimo, affidato alla buona volontà dei comuni […]; f) affrontava in modo poco omogeneo il problema del personale, sia nel campo dell’istruzione secondaria, sia in particolare per quella primaria».
Non fu, dunque, un caso se, nel primo quindicennio postunitario, il tasso di analfabetismo in Italia rimase molto elevato, mantenendosi intorno al 70% della popolazione!

Le riforme scolastiche dopo il 1876
Con l’avvento al potere della Sinistra liberale (1876), cambiò in parte l’impostazione della scuola italiana. Già nel 1877, infatti, fu approvata la legge “Coppino”, che estese l’obbligo scolastico fino al compimento del nono anno d’età, elevò a cinque anni la scuola elementare, tolse il catechismo dalle materie obbligatorie, trasferì gli Istituti tecnici sotto la direzione del Ministero della Pubblica istruzione. Negli anni seguenti, inoltre, furono aumentati gli stipendi degli insegnanti.
Nel 1888, durante il primo governo diretto da Francesco Crispi, fu realizzata una sorta di “mini rivoluzione pedagogica”, con l’introduzione dei nuovi programmi per le scuole elementari, elaborati da una commissione ministeriale di cui facevano parte lo storico Pasquale Villari e il pedagogista Aristide Gabelli. I pilastri basilari furono soprattutto due: il ricorso al metodo sperimentale nell’apprendimento delle discipline e l’esigenza di educare sia la mente che il corpo (tra le discipline, infatti, fu inserita la ginnastica).
Durante l’Età giolittiana una nuova riforma scolastica, varata nel 1904 con l’approvazione della legge “Orlando” che estese l’obbligo scolastico a dodici anni d’età, introdusse i corsi serali e festivi per gli adulti analfabeti, istituì una “scuola popolare” biennale cui si accedeva dalla quarta elementare, ma senza la possibilità di proseguire gli studi.
Nel 1911, durante il quarto governo presieduto da Giovanni Giolitti, fu promulgata la legge “Daneo-Credaro”, che sancì il passaggio allo stato della scuola elementare, aumentò gli stanziamenti nel settore dell’istruzione e migliorò lo statuto giuridico ed economico dei maestri.
L’istruzione pubblica, in quel periodo, risentì molto dell’influsso del laicismo positivista che entrò in aperto dissidio con l’educazione impartita nelle scuole private cattoliche, come ha anche rilevato Ludovico Geymonat: «La pedagogia positivistica ha proposto un modello educativo laico, fondato sui valori della cultura umanistica e scientifica moderna; […] ciò implica una presa di posizione nei confronti della cultura tradizionale, in particolare dell’educazione religiosa» (in Immagini dell’uomo. Filosofia, scienza e scienze umane nella civiltà occidentale, L. Geymonat, Garzanti).

La svolta del 1923
Non tutti i positivisti, tuttavia, sostennero l’impostazione pedagogica che prediligeva il metodo sperimentale e lo studio delle scienze.
Gaetano Salvemini, infatti, nel 1909 si espresse in favore di una maggiore valorizzazione degli studi classici e umanistici, opponendosi alla scuola media unificata, in nome di «una scuola di alta coltura, per gli alunni che possono rimanere improduttivi fino ai ventidue o ventiquattro anni e sono perciò destinati agli studi universitari, la quale sia diretta tutta a selezionare le classi superiori» (La riforma della scuola media in La cultura italiana del Novecento attraverso le riviste, a cura di Giovanni Scalia, Einaudi).
Su tali basi, egli finì per incontrarsi con la cultura idealistica, che si stava affermando in Italia nel Primo Novecento, grazie all’opera dei filosofi Benedetto Croce e Giovanni Gentile e del pedagogista Giuseppe Lombardo Radice. Quest’ultimo riteneva appunto che «il nuovo idealismo […] vuole una educazione degna dei destini dell’uomo, formazione di tutto l’uomo, fuori e al di sopra delle preoccupazioni individuali utilitarie; rigoroso ed alto regime di studi, per gli eletti, il cui valore pratico deve avere lo stesso valore ideale» (Verso una nuova educazione italiana, in La cultura italiana del Novecento attraverso le riviste, a cura di G. Scalia, Einaudi).
Questa nuova impostazione culturale trovò la sua più compiuta espressione nel 1923, quando, durante il primo governo guidato da Benito Mussolini, fu varata la riforma “Gentile” che, come ha affermato Alberto Asor Rosa «aumentava fortemente il carattere selettivo della scuola media, in cui ebbe un predominio molto accentuato l’insegnamento umanistico, e quindi ne provocava lo sfollamento […], dando impulso anche per questo verso alla scuola privata» (La cultura, in Storia d’Italia. Dall’Unità ad oggi, coordinatori Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, Einaudi).
La riforma “Gentile” si può considerare il maggior intervento normativo di riordino del sistema educativo italiano realizzato dopo il 1861. Essa prevedeva, innanzi tutto, un grado scolastico preparatorio – corrispondente alla scuola materna – di tre anni e una scuola elementare di cinque anni, distinta in un triennio inferiore e in un biennio superiore. La scuola media era molto frammentata e comprendeva: la «scuola complementare» a indirizzo tecnico, senza sbocchi successivi; il «ginnasio inferiore» triennale; il «tecnico inferiore» e il «magistrale inferiore» di quattro anni; la «scuola d’arte» e il «conservatorio musicale».
La scuola superiore era, a sua volta, suddivisa in sei indirizzi: il liceo classico (ripartito in un biennio ginnasiale e in un triennio liceale); il liceo scientifico, l’istituto magistrale e l’istituto tecnico di durata quadriennale; il liceo femminile e la scuola di metodo materna che prevedevano un corso di studi triennale. L’accesso agli studi superiori era condizionato dal tipo di scuola media prescelta, mentre gli sbocchi universitari dipendevano dal titolo di studio conseguito: solo gli allievi diplomati al liceo classico potevano iscriversi a qualunque corso universitario!
Tra le altre novità apportate dalla riforma “Gentile”, ricordiamo: l’introduzione dell’esame di stato e dell’insegnamento della religione cattolica, il rilancio della scuola privata, l’innalzamento a quattordici anni dell’obbligo scolastico.
Nel 1930 l’approvazione della Carta della scuola, approntata dal ministro Giuseppe Bottai, comportò la nascita di una scuola media unica, che garantiva l’accesso a tutti gli istituti superiori, cui però continuò ad affiancarsi la «scuola di avviamento professionale» finalizzata all’apprendimento dei mestieri, che consentiva di proseguire gli studi soltanto negli istituti professionali.

La scuola nella Prima repubblica
La Repubblica italiana riorganizzò il sistema dell’istruzione secondo i dettami degli articoli 33 e 34 della Costituzione, che sancirono, tra l’altro, il diritto allo studio e la libertà d’insegnamento.
La legge n. 1859 del 1962, attuando il dettato costituzionale, rese effettivo l’obbligo scolastico fino ai 14 anni e riformò la scuola media, che venne unificata, con l’abolizione dell’avviamento professionale. Nel 1968 fu istituita la «scuola materna» per i bambini in età prescolare, mentre nel 1971 nacquero gli «asili nido», gestiti dai comuni, e fu anche introdotto il tempo pieno nelle scuole elementari. In seguito, fu istituita la figura dell’insegnante di sostegno per gli allievi disabili, vennero approvate le centocinquanta ore pomeridiane per i lavoratori che volevano conseguire la licenza media e, nella scuola secondaria di primo grado, fu adottato il tempo prolungato.
Le lotte studentesche degli anni Sessanta portarono altri significativi mutamenti nel mondo dell’istruzione. Nel 1969 fu modificato, semplificandolo, l’esame di maturità e fu consentito il libero accesso degli studenti alle facoltà universitarie, indipendentemente dal diploma conseguito.
Tra il 1973 e il 1974 furono approvati i cosiddetti “Decreti delegati”, attraverso i quali fu riconosciuto il diritto di assemblea agli studenti delle scuole superiori e furono istituiti gli organi collegiali (Consiglio di classe, Consiglio d’istituto, Collegio dei docenti, ecc.), che avrebbero dovuto favorire la partecipazione degli insegnanti, del personale non docente, dei genitori e degli alunni alla gestione delle strutture scolastiche. Purtroppo, però, tali organismi nel tempo hanno perso di efficacia e, come sostengono giustamente Cinzia Beligni e Luigi Lacchini in Cittadini, legge, economia (Cedam), «si sono trasformati in una consuetudine pigramente protratta per salvaguardare un aspetto puramente formale di partecipazione democratica».
Ciononostante, la scuola italiana ha saputo modernizzarsi nei decenni successivi, grazie soprattutto alle innovazioni metodologiche e didattiche, che hanno comportato l’introduzione di un sistema tassonomico nell’organizzazione del lavoro scolastico e una maggiore interrelazione fra tutte le discipline (secondo le linee guida della programmazione delle attività didattiche ed educative approntate annualmente dagli organi collegiali).

I cambiamenti più recenti
Negli anni Novanta l’istruzione pubblica è stata investita, in ogni ordine e grado, da una ventata di novità, che ha coinvolto tutti i livelli scolastici. Un importante cambiamento si è registrato con l’approvazione della legge n. 59 (la cosiddetta legge “Bassanini”), che ha istituito l’autonomia didattica e amministrativa delle scuole, all’interno del più generale processo di decentramento e di “managerializzazione” della Pubblica amministrazione.
I principali mutamenti nella scuola superiore sono stati introdotti da Luigi Berlinguer, ministro della Pubblica Istruzione dal 1996 al 2000. La riforma “Berlinguer” del 1997, infatti, ha introdotto i “crediti scolastici” (che si attribuiscono negli scrutini agli allievi del triennio. Sono espressi in ventesimi e contribuiscono a determinare il voto del diploma, insieme alle prove degli esami), insieme ai “debiti scolastici” (che significano “non promozione” in una o più discipline, in genere fino a tre). Questi ultimi vanno assolti nell’anno seguente: il loro persistere può comportare il rischio della bocciatura.
Berlinguer, oltre ad aver cambiato i programmi di storia, ha anche modificato l’esame di maturità, introducendo tre prove scritte e un colloquio multidisciplinare, con commissioni d’esame “miste” (tre docenti interni, tre esterni, più un presidente esterno). Queste disposizioni sono state parzialmente mutate nel 2002 dal ministro Letizia Moratti, che ha istituito le commissioni d’esame formate dai soli membri interni, con un presidente esterno. Tuttavia, da quest’anno, si è tornati al sistema precedente.
Non sono, invece, andate in porto le riforme dei cicli scolastici proposte nell’ultimo decennio, dapprima da Berlinguer e poi dalla Moratti, perché l’alternanza al governo delle due principali coalizioni politiche ha vanificato ogni tentativo di ristrutturazione complessiva del sistema educativo italiano.

Una scuola (purtroppo)… poco formativa
Paola Mastracola, nel suo libro La scuola raccontata al mio cane (Guanda), ha reso molto bene il senso di smarrimento che ha colto di recente una parte consistente di docenti italiani, i quali si sono visti catapultare addosso – soprattutto in seguito all’introduzione dell’autonomia scolastica – una serie gravosa di oneri, impensabili fino a qualche tempo prima: dalle programmazioni didattiche multidisciplinari ai progetti per l’ampliamento dell’offerta formativa (laboratori teatrali e di poesia, cineforum, visite guidate, concorsi a premi, seminari di studio, conferenze, ecc.); dalle sperimentazioni alle lezioni multimediali; dai corsi di recupero, sostegno e approfondimento alle griglie di valutazione sempre più ingegnose e complicate.
In teoria gli allievi odierni dovrebbero essere più bravi e informati: invece, il livello culturale medio si è abbassato, anche perché, al di là dello studio meramente scolastico, i ragazzi leggono poco e sono molto distratti dai nuovi ritrovati tecnologici (in particolare dai videogiochi e dai telefonini).
Il “progettismo”, inoltre, sta in parte condizionando l’insegnamento, perché le disparate attività complementari che corredano i piani dell’offerta formativa approntati dalle singole scuole, oltre a risultare spesso non molto funzionali all’apprendimento, finiscono per sottrarre tempo alle lezioni ordinarie, nonché allo studio.
La sensazione diffusa è che si sia ridimensionato il ruolo educativo degli insegnanti, i quali riescono a incidere relativamente poco sulla formazione intellettuale e morale dei discenti. E le scuole sembrano aver ormai assimilato la logica del mercato, proponendosi come aziende sui generis, che mirano a conquistare una porzione sempre maggiore di utenza e di finanziamenti, anziché come valide agenzie educative.

Giuseppe Licandro (direfarescrivere, anno III, n. 21, settembre 2007)
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