Anno XX, n. 224
ottobre 2024
 
La cultura, probabilmente
Il fenomeno dell’emigrazione resta vivo.
Modernità, pluralismo e urbanizzazione
sono tra le principali ragioni dell’esodo
Le testimonianze di chi si è creato altrove una diversa identità
illustrano le tappe di un processo che ha coinvolto pure l’Italia
di Gaetanina Sicari Ruffo
Al giorno d’oggi in cui i flussi migratori si sono accentuati, ma in direzione diversa ed opposta rispetto al passato, e cioè non più dall’Italia verso l’America o altri continenti, ma dai paesi dell’Est e del Sud verso la nostra penisola, potrebbe tornare utile la lettura d’un saggio che è una sintesi di quanto è accaduto ad alcuni calabresi emigrati negli anni del Secondo dopoguerra: Identità di frontiera. Migrazione, biografie, vita quotidiana di Sonia Floriani (Rubbettino, pp. 142, € 8,00). Il testo fornisce infatti la chiave per comprendere la difficoltà dell’adattamento del migrante e pure la sua composita risposta alle sollecitazioni d’una comunità diversa dalla propria. Alcuni fatti eclatanti successi ultimamente e conclusisi anche drammaticamente, ci hanno fatto dubitare della continuità di questo fenomeno, spesso connotandolo come una maledizione.
In effetti, a pensarci bene, esso è inevitabile, date alcune dinamiche economico-sociali e politico-internazionali che il nostro presente registra, per cui un confronto con l’emigrazione dell’Italia degli anni trascorsi servirà forse a chiarire non solo lo stato d’animo dei migranti di oggi, ma pure un possibile futuro d’integrazione.
I calabresi di cui si parla nel testo sono emigrati oltre oceano nel Secondo dopoguerra. Sono stati intervistati dall’autrice – che è responsabile del Dipartimento di Sociologia dell’Università della Calabria –, per ricavarne «ipotesi e chiavi interpretative utili a definire il rapporto individuo e società», come si legge nella Presentazione e curata da Paolo Jedlowski. Quindi più che statistiche ed analisi storico-sociologiche, lo studio intende presentare ed analizzare i comportamenti umani e le difficoltà incontrate dopo lo sradicamento dalla propria terra e l’adattamento ad una realtà diversa.
La migrazione resta sempre un “fenomeno dirompente”, una cesura spazio-temporale cui s’accompagna un disorientamento iniziale dovuto alla chiusura d’un certo corso di vita e alla sperimentazione d’uno nuovo. Il percorso della migrazione nasce dalla necessità di andare verso la modernizzazione, verso l’apertura al pluralismo e all’urbanizzazione. Alla base, comunque, c’è sempre un progetto di miglioramento del proprio tenore di vita e l’inserimento in una società che appare in ascesa dal punto di vista socio-economico, tale da assicurare un positivo futuro per i figli.
Il migrante per molto tempo è fermo su di una frontiera che comporta una memoria del passato ineludibile e molto condizionante, e la necessità di vivere un presente dinamico e differenziato. È chiaro che dapprima a vacillare è il senso d’appartenenza che può causare traumi e diversità di vedute. È tuttavia difficile per i migranti dimenticare la terra e la cultura da cui provengono, anzi spesso si organizzano in comunità, in quartieri e in associazioni proprio per tenere viva questa loro memoria. Ma guai a cristallizzarsi solo in questa dimensione: ne va di mezzo l’equilibrio mentale e la riuscita della vita attiva che si esprime nel mondo del lavoro e nel sociale.
Spesso nell’ambito privato e personale si mantengono vivi i linguaggi d’origine e l’atmosfera culturale, mentre in quello pubblico-lavorativo si opera per acquisire la padronanza della nuova lingua e soprattutto per selezionare l’attività che spesso riproduce l’esperienza e la capacità acquisite anteriormente.

Strategie dell’identità
I migranti nella terra d’accoglienza si comportano diversamente secondo il loro grado di consapevolezza, il senso che hanno del reale, l’età e i progetti di vita che hanno elaborato.
Di solito, se sono adulti, tendono a ricostruire l’idea di continuità con il passato, adattandosi lentamente al presente, se sono invece adolescenti, sono indotti ad immergersi nell’odierno, rimuovendo il passato. Il presente è insomma la discriminante tra quello che si è stati e quello che si progetta di essere. Tutto dipende da come lo si vive. Il rischio però è continuare a sentirsi stranieri tra stranieri: la sfida è integrarsi ricostruendo una propria identità. Tra le due possibilità corre un abisso, quello stesso che c’è tra la guerra come scelta o la pace come prassi.
Un bel libro che chiarisce questo passaggio è: La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato di Sayad Abdelmalek, Raffaello Cortina Editore, nel quale si fa riferimento al dramma interiore dei migranti e alla difficile condizione iniziale d’essere e di sentirsi diversi.

Le interviste dei calabresi emigrati
Provenienti da piccoli paesi agricoli, in prevalenza cosentini, gli intervistati – uomini, donne e adolescenti –, ognuno secondo la loro sensibilità ed esperienza (il maggior numero di calabresi che hanno rilasciato dichiarazioni è di Montreal, un numero minore di Ottawa), hanno messo in luce le illusioni di prima e le difficoltà reali una volta raggiunto il Canada. Si erano immaginati, secondo il mito dell’America ricorrente in quegli anni, una terra prospera e felice in grado di garantire ricchezza e benessere. Vi hanno trovato, invece, un clima glaciale, un approccio difficile con gli abitanti del luogo, grandi distanze e disagio nell’apprendimento della lingua. Così si esprime il giovane Antonio: «C’erano dei paesani miei, amici che siamo andati a scuola insieme, che io non ho visto per anni... Arrivo qua, c’è un fratello che lo vedo dopo ventisette giorni che ero arrivato. Cioè ho visto già la freddezza, non della temperatura, ché la temperatura era fredda – però ho visto la freddezza che c’era nelle persone umane. Ho visto che qua non era terra da potersi fidare di nessuno».
Gli adolescenti soprattutto hanno accettato malvolentieri il trasferimento e solo dopo qualche tempo si sono rassegnati ad impiantarsi stabilmente nel nuovo mondo. Gli adulti che avevano il progetto d’arricchirsi per poi tornare alla terra d’origine hanno visto sfumare il loro sogno. Sono passati anni e anni per poter realizzare una loro stabile posizione e naturalmente dopo è stato molto difficile pensare ad un nuovo trasloco. Qualcuno vi è ritornato da vecchio, ma avvertendo, una volta raggiunta la patria, lo stesso disagio della partenza per i profondi cambiamenti trovati: quel modello di vita che avevano conservato religiosamente alla partenza, si è come cristallizzato nella loro mente e non è stato più possibile ritrovarlo nella realtà, perché tutto muta e si trasforma e pure la memoria si scopre arretrata e traditrice.
Le donne, poi, sono quelle che più sono rimaste ai margini del nuovo paese ed hanno assunto di esso le esperienze filtrate dai figli e dai nipoti. Raramente sono andate a lavorare fuori ed hanno sempre vissuto all’interno del nucleo familiare conservando abitudini e tradizioni. Per loro è stato oltremodo difficile rifarsi un’identità diversa da quella di partenza, costrette ad interrogarsi, a riflettere, a cercare nuove soluzioni onde convergere con una molteplicità di persone non appartenenti alla stessa cultura.

Il rapporto con la madrepatria
Il senso d’appartenenza alla patria d’origine è forte quasi in tutti, anche se qualcuno prova qualche rammarico per l’abbandono in cui è stato lasciato: «Ci sentiamo delle persone che siamo venuti qui e siamo stati abbandonati dalla madrepatria. È così che uno si sente. Ma l’attaccamento dovrebbe venire più da loro che da noi, perché uno fa il possibile per conservare la sua cultura, le sue tradizioni in una terra straniera, ma c’è sempre bisogno di qualcuno che ti dia una spinta».

«Mi sento d’essere italiano più di quelli che ci stanno…Io sono nato in Italia e sono italiano. Sono prima italiano e dopo canadese». «Sono un imprenditore canadese, sono d’origine calabrese, questo se lo vogliamo dire, ma sono un imprenditore canadese perché io commercio in Canada…Se parliamo del fatto personale, psicologico, io sono sempre calabrese dove mi trovo, trovo».
In quest’ultima dichiarazione è ben sensibile la dicotomia che si è operata tra la prima identità e quella nuova assunta: il senso privato, personale è distinto da quello pubblico; italiano il primo, canadese l’altro con varie sfumature d’interferenza, ma è come convivere con due diverse identità, non certo in modo facile.

Il mondo del lavoro
Il momento più delicato della migrazione è stato l’inserimento nel mondo del lavoro soprattutto per gli uomini. Spesso hanno optato per la scelta di quei mestieri che praticavano già in patria: l’artigianato e l’edilizia in genere, per poi scegliere, dopo molti anni, di divenire imprenditori per migliorare la loro posizione. Parecchi ci sono riusciti ed hanno fatto il salto di qualità. Sono quelli meno disposti a pensare ad un rientro in patria. Rivelano all’intervistatrice di aver lavorato tanto, dedicando gran parte delle loro energie senza pensare ad altro che a migliorare la loro condizione, pronti all’occorrenza a cambiare lavoro qualora le prospettive lo permettessero.
La tendenza all’imprenditorialità è venuta successivamente, almeno dieci anni dopo l’arrivo, e s’è configurata quasi per caso, come un’occasione da prendere al volo, magari dietro l’incoraggiamento dei proprietari per cui hanno a lungo lavorato. Sono state così messe meglio a frutto le specifiche competenze, la resistenza e l’impegno. Senza di esse infatti una tale idea non sarebbe maturata, specie se fossero rimasti nel loro paese d’origine.
Così dichiara Cosimo: «Se sono venuto qui, io penso che devo stare qui in ogni modo, ma non voglio stare in qualsiasi modo, vivere non importa che vita. Allora devo imparare la vita, devo fare degli affari, devo vivere bene».
Una volta che si è sulla buona strada sembra finalmente realizzato il sogno del benessere: il rammarico, semmai, è per il ritardo accumulato per giungere alla meta.
Non conta affatto come si è arrivati e i progressi graduali che si sono compiuti per acquisire conoscenza sufficiente per l’inserimento e la credibilità presso gli altri. Questo rammarico dimostra che resta sempre nel migrante l’ombra di quell’antico pessimismo che l’ha per così lunghi anni spesso appiattito su orientamenti culturali tendenti al fatalismo ed alla rassegnazione. Questo è, tutto sommato, il prezzo che si è tenuti a pagare, anche quando sembra che tutto sia a posto.

Gaetanina Sicari Ruffo

(direfarescrivere, anno III, n. 19, 20 luglio 2007)
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