Vorremmo trattare qui un’ipotesi recente, avanzata dal filosofo Luigi Pareyson, sul tema del male che troviamo possa essere una tappa decisiva per la storia del pensiero.
Questa tematica e la sua presenza nel mondo hanno costituito nel nostro percorso personale ed intellettuale, ma riteniamo nella stessa storia della filosofia, un punto di fondamentale importanza tanto da spingerci a farne uno studio comparato prendendo spunto da diversi autori. Ora, attraverso la solida base costituita dalle ricerche di Pareyson, è nostro desiderio cogliere la possibilità di addentrarci nel campo dell’antropologia esistenziale di stampo letterario (egli in tal senso fa spesso riferimento alle opere ed al pensiero dostoevskijani), senza tralasciare le ansie teologiche della filosofia del male e della libertà che caratterizzano il suo pensiero.
Le modalità con cui egli affronta la tematica del male, infatti, variano e si sviluppano in due direzioni: da un lato, verso una filosofia dell’esistenza e della libertà, nella quale prende come punto di partenza le opere di Fëdor Dostoevskij; dall’altro, verso una teologia della Croce, una teologia scandalosa che, partendo dall’analisi della presenza del male in Dio, come ciò che egli ha eternamente sconfitto, giunge alla compassione ed al sacrificio gratuito di quello stesso Dio fatto uomo, il quale, partecipando alla nostra sofferenza, ci rende cobelligeranti, ovvero suoi alleati, nella lotta contro il male.
Vorremmo sottolineare che l’autore tratta il tema del male in due maniere diametralmente opposte. Da un lato egli è teologo, anche se la teologia della Croce si discosta da quella classica legata ai concetti della teodicea, ed il suo discorso è quasi ontologico, come testimonia la scelta del titolo dell’opera Ontologia della libertà [1]; dall’altro, nel suo Dostoevskij [2], Pareyson tratta il male da un punto di vista esistenziale, quasi difendendo, contro l’ontologia e la filosofia classica, la possibilità dell’uomo di commettere il peccato. Accettando, in tal modo, la libertà assoluta di contravvenire alla legge e di commettere il male, egli si distacca da qualsiasi filosofia della necessità.
Il dolore nell’universo dostoevskjiano
Sarà uno dei nostri principali obbiettivi quindi, lo studio del legame coesistente fra il Pareyson esistenzialista ed il Pareyson teologo: «Come abbiamo sopra notato, i saggi su Dostoevskij preludono alla svolta della filosofia della libertà ma non la teorizzano ancora espressamente» [3].
Nella nostra ricerca sarà importante vedere come l’autore, tramite la letteratura [4], in particolare di matrice dostoevskijana, passi da un male propriamente umano, subìto o frutto della sfrenata libertà, ad un male presente nella scelta stessa di Dio (come ciò che viene eternamente scartato). Va sottolineato che fra queste due concezioni non v’è un vero e proprio salto.
Dall’analisi che Pareyson fa delle opere dello scrittore russo, scaturisce un’idea assai alta della libertà. Si può affermare che l’esistenza stessa sia libertà e che proprio la fondamentale importanza di quest’ultima renda possibile il male.
Nell’interpretare le sue opere, lo studioso ne rispetta lo spirito estraneo ad ogni sistematicità e non cerca di ricondurre i singoli spunti ad una filosofia compiuta ed onnicomprensiva. Si nota, tuttavia, come la presenza del male nelle opere di Dostoevskij sia centrale e faccia tutt’uno con il concetto di sofferenza e di dolore. Anche dove mette in scena personaggi dall’indole sacrilega, crudele e violenta, lascia che la colpa commessa da questi sia fonte di dolore più per essi stessi che per altri. Scrive l’autore russo: «in ogni uomo, non c’è dubbio, si cela una fiera: la fiera dell’irascibilità, la fiera dell’infocamento carnale ai gridi della vittima torturata, la fiera dell’incontinenza senza freni, la fiera dei morbi contratti nella dissolutezza…» [5].
In Dostoevskij il male fa tutt’uno con la vita stessa. La vecchia suddivisione di carattere tomista che distingueva fra male commesso (colpa) e male subito (pena) nelle turbolente strade dei suoi romanzi umani perde di significato, si attenua fino a scomparire quasi del tutto. Afferma ancora Dostoevskij con le parole di Ivan Karamazov: «io sono una cimice, e riconosco con massima umiltà che non posso intendere un etto delle ragioni per cui il mondo è composto così. Si vede che gli uomini stessi ne avranno colpa. Gli era stato dato il paradiso, loro han voluto la libertà e han rapito il fuoco al cielo, pur sapendo che sarebbero stati infelici: non è dunque il caso di averne pietà. Oh io con la mia miserabile, terrestre intelligenza euclidea, io so, unicamente che la sofferenza c’è, che colpevoli non esistono […] quel che occorre, a me, è una sanzione suprema, altrimenti sarò costretto ad annichilirmi» [6]. Il male, come abbiamo visto, si fa parassita di colui che lo commette. È in queste esistenze perverse, romanzate ma estremamente umane, che il male ritrova la sua unità al di fuori di ogni concetto.
Altri due temi, secondo Pareyson, fanno di Dostoevskij una pietra miliare nell’umanità del male. Per il russo, infatti, tutti gli uomini vivono invischiati, già da sempre, in uno stato di colpa. Questo stato, seppur legato alle concezioni cristiane, viene radicalizzato ed interiorizzato fino alle estreme conseguenze; dice Pareyson: «sull’intera umanità pesa una colpa originaria: tutti gli uomini sono peccatori e solidali nella loro comune colpevolezza. Esiste un nesso indissolubile tra il male e il dolore, rappresentato dall’espiazione, nel senso che la sofferenza è al tempo stesso pena della colpa e suo unico possibile riscatto: su tutti gli uomini, uniti da un’originaria solidarietà nella colpa e nel dolore, grava un comune destino d’espiazione» [7]. In Dostoevskij è presente e radicato il tema dell’universale onnicolpevolezza degli uomini. Ciascuno è colpevole per tutto e di fronte a tutti: «per tutti andrò io, giacché è pur necessario che qualcuno vada per tutti […] ma allora nel profondo dolore nostro, di nuovo resusciteremo alla gioia, senza la quale non può vivere l’uomo» [8].
La presenza del male in Dio, sin dall’origine, come eternamente sconfitto e non scelto, è un salto kierkegaardiano oppure è una premessa metodologica che consente di approdare alla libertà assoluta (che comprende quella di commettere il male)? Forse, invece, Pareyson si è reso conto che esplicare la presenza del male come puro atto umano è quasi impossibile, tanto profondamente la sofferenza permea le esistenze; ugualmente dannoso per la filosofia sarebbe il lasciar cadere questo spinoso argomento.
Non si può ridurre la questione della presenza del male a pura questione teologica o ad esclusivo tema adatto alle filosofie dell’esistenza. Andando a scavare nelle teologie, sia classiche che contemporanee, Pareyson ha potuto intravedere un’ipotesi che si è dimostrata, oltre che bella nella sua tragicità, valida per affrontare il discorso del male anche da un punto di vista esistenziale. Si può dire che egli faccia convergere nel suo pensiero la visione titanica del male, inteso qui come ribellione dell’uomo contro Dio e come libertà dal bene [9], con la visone onto-teologica che studia l’origine dell’essere del male. Uno sguardo biblico e titanico alla ricerca dei vari lati del male in cui l’uomo e Dio sono coinvolti assieme.
La teologia della Croce e “la possibilità non scelta”
La teologia scandalosa del male nel pensiero cristiano, esposta da Pareyson in Ontologia della libertà [10], parla, difatti, della presenza di tale entità in Dio, prima del tempo, come possibilità non scelta, in quanto il Signore ha designato per la vittoria, da allora e per sempre, il bene ed ha scartato il male che esisterebbe, quindi, come l’opposto della creazione, diremmo con Karl Barth la mano sinistra di Dio. Questo male scartato getta un’ombra sulla divinità stessa: «Nell’affermazione divina il male è una possibilità non realizzata, anzi esclusa per sempre, la quale rimane tuttavia, anche se latente e sopita, nell’abisso divino, non certo come una realtà, ma tuttavia come una possibilità sempre disponibile. La negatività e il male sono presenti in Dio come possibilità prevedute ma scartate» [11].
Il cristianesimo, in questo caso, fornisce materiale per una riflessione, il male è presente in Dio come possibilità prevista ma sempre scartata, mentre Gesù Cristo riscatta i peccati dell’umanità con il proprio dolore e la propria morte. Tragico e salvifico si incontrano in quella che Pareyson chiama teologia della Croce. La contrapposizione fra la teologia della Croce e la presenza del male in Dio fa del tragico-cristiano un esempio particolare del confronto fra umano e divino. Per Pareyson affermare che il male esista come lato oscuro della divinità, ciò che Dio non ha voluto, non significa affatto dire che egli è l’autore del male. Tale non scelta, infatti, fa della divinità l’origine del male possibile, ma lascia all’uomo la colpa di averlo ridestato. Dalle pagine di Ontologia e libertà traspare l’essenza dell’evento tragico secondo la visione cristiana; come per gli dèi greci, anche nel Dio dei cristiani coesistono un lato oscuro al fianco del lato luminoso. Il tragico del cristianesimo, ovvero la presenza del male in Dio, tuttavia, apre la strada alla visione salvifica, alla compartecipazione di Dio stesso alla sofferenza dell’uomo: «Questa è la tragedia dell’uomo: egli è immerso nel negativo, autore del male e soggetto al dolore, marchiato dall’onnicolpevolezza e destinato alla sofferenza universale. Ma è anche la tragedia di Dio, perché la caduta umana, segnando il fallimento della creazione, colpisce l’opera sua e lo costringe a intervenire per rettificarla, ciò che Dio non può fare se non soffrendo a sua volta, perché solo col dolore si può vincere il male» [12]. È questo lo scandalo del Dio sofferente.
Qual è quindi l’idea che permette al cristianesimo di superare l’obiezione della sofferenza inutile? Secondo quanto ci dice Pareyson, Dostoevskij individua nella compartecipazione divina alla sofferenza umana, quindi nella figura di Cristo, la chiave di volta del discorso sul male. La teologia della Croce racconta della sofferenza di Cristo grazie alla quale l’umanità non è più abbandonata, ma perdonata. Con questo perdono Dio assume in sé parte della sofferenza e del dolore dell’uomo. Così il divino e l’umano divengono cobelligeranti contro il male: «Il Cristo, dunque, rappresenta il fatto che il dolore da umano e cosmico si fa teogonico, e che lì, all’interno di Dio, nella lotta di Dio con se stesso, esso finisce col logorarsi e distruggersi. Il problema del dolore non ha dunque altra risposta che il Cristo sofferente. Solo il Cristo può vincere il dolore, in quanto lo assume su di sé» [13]. La possibilità che Dio possa soffrire e compartecipare al dolore dell’uomo nei suoi aspetti più drammatici rappresenta la teologia scandalosa del tragico e forse il punto di unione fra lato esistenziale e lato teologico del pensiero di Pareyson.
Concludendo con le parole dello stesso Dostoevskij potremmo dire: «Cos’è meglio? Una felicità a buon mercato, oppure un’estrema sofferenza? Allora, cos’è meglio?» [14]. La domanda è retorica ma la risposta lo è un po’ di meno…
Michele Rozzi
Note
[1] Cfr. LUIGI PAREYSON, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino, 1995.
[2] Cfr. IDEM, Dostoevskij, Einaudi, Torino, 1993, pp. 26-38.
[3] GIOVANNI FERRETTI, Filosofia ed esperienza religiosa: a partire da Luigi Pareyson, Atti del VI colloquio su filosofia e religione, Giardini, Macerata, 1995, p. 27.
[4] Ma diremmo, più in generale, nell’intera produzione artistica.
[5] FËDOR DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino, 1993, p. 323.
[6] Ivi, p. 326.
[7] L. PAREYSON, Ontologia della libertà, pp. 167-168.
[8] F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, p. 778.
[9] L. PAREYSON, Dostoevskij, p. 30.
[10] Cfr. IDEM, Ontologia della libertà, pp. 151-230.
[11] Ivi, p. 179.
[12] Ivi, p. 194.
[13] Ivi, p. 201.
[14] F. DOSTOEVSKIJ Memorie dal sottosuolo, Einaudi, Torino, 2002, p. 141.
(direfarescrivere, anno III, n. 14, aprile 2007) |