Il tema del male è senz’altro una fra le questioni più interessanti che la filosofia contemporanea possa affrontare. Esso, infatti, costituisce una delle prime sfide lanciate all'uomo, una sfida che implica un impegno in diversi settori, dalla politica all'etica, dalla filosofia alla teologia e alla religione.
Bisogna, inoltre, tener presente che questo tema è di particolare difficoltà a causa di diversi concetti che noi raggruppiamo sotto l’unico termine del male. Sin dagli albori del pensiero, infatti, l’uomo ha segnato col marchio del male due aspetti dell’esistenza: la colpa e la sofferenza. Il primo indica l’intera gamma del male “commesso”, come percezione di allontanamento dalla luce e dalla purezza esperita da chi trasgredisce – o sente di aver trasgredito – una legge o una norma etica personale o collettiva. Questo lato del male lascia intendere che l’uomo appartiene al regno della luce (del bene), tanto che la sua caduta nel regno delle tenebre viene percepita con un dolore quasi fisico.
L’altra faccia del male è quella che indica la sofferenza e se si vuole anche la morte, il male inteso come subito dall’uomo, percepito spesso e volentieri dalle popolazioni primitive come punizione per una colpa commessa, come pena per un peccato, senza dimenticare che un lato primitivo c’è anche nelle nostre civili società. Questa molteplicità di aspetti, come detto, sta alla base delle difficoltà che si hanno nella definizione della natura del male.
Per analizzare a fondo la questione sarà, quindi, necessario affrontare entrambi gli aspetti – nelle manifestazioni storiche prossime a noi europei – perché pur essendo razionalmente distinti, è attraverso l’esperienza umana che il sostrato del male assume una struttura unica, come il volto del demonio con le sue molteplici facce, così il male ben distinto ha nella percezione dell’uomo la sua indissolubile unità.
L’origine cosmologica del male
Ora andremo a vedere come il lato sofferente del male, il suo essere subito, abbia dato luogo ad una vasta mitologia. Per “origine cosmologica” intendiamo proprio quell’insieme di racconti dell’origine del mondo che trattano l’esistenza dello spirito del male su questa terra. Perché esiste il male ove non c’è colpa?
Le visioni che prenderemo ad esempio raccolgono le tradizioni mediorientali e mediterranee. Il mondo semita, nella grandezza degli assiro-babilonesi, ha raccolto il grido di sofferenza del popolo, sempre alto come lo è oggi; anzi è proprio sotto la spinta di questo bisogno di dar ragione del male che alcuni miti affrontano il tema. In questo ambito, i racconti dell’origine individuano l’inizio metafisico del male.
Un sostrato quasi fisico i cui natali vanno individuati nell’atteggiamento psicologico dell’uomo: ci riferiamo in particolare a quegli uomini non ancora desacralizzati dall’Età moderna, che conservano una visione del religioso, per dirla alla Rudolf Otto, «tremenda ed affascinante».
Vediamo ora il testo di uno dei miti della zona assiro-babilonese: il poema Enuma Elish:
«Quando di sopra non era ancora nominato il cielo
di sotto la terra ferma non aveva (ancora) nome,
l’Apsu primiero, il loro generatore,
Mummu e Tiamat, la generatrice di tutti: loro,
le loro acque insieme mescolavano,
ed essi non portavano (ancora) un nome, e i destini
non erano ancora stati destinati,
furono procreati gli Dei in mezzo ad essi.
Lahmu e Lahamu furono creati e ricevettero il nome.
I secoli divennero molti e crebbero.
Anshar e Kishar furono procreati molto tempo dopo di essi.
Essi allungarono i giorni e aggiunsero gli anni.
Anu, il loro figlio, pari ai suoi padri,
Anshar fece Anu, il suo primonato uguale a se stesso,
e Anu procreò quale suo uguale Nudimmud che [Ea]
era il principe dei suoi padri,
era di vasta sapienza, saggio, potente di forza,
molto più forte del suo procreatore, padre Anshar.
Si fece avanti Marduk, il saggio tra gli dei, vostro figlio.
Di andare avanti a Tiamat egli decise.
Egli aprì la sua bocca e mi disse:
“se io, vostro vindice,
lego Tiamat e vi libero raduna l’assemblea, fa strapotente il mio destino e rendilo noto”
Egli montò sul carro della tempesta inoppugnabile, terribile.
Egli attaccò ad esso quattro attacchi e li legò al suo lato.
Il Distruttore, l’Implacabile, l’Abbattitore, l’Alato.
Acuti erano i suoi denti e portavano veleno.
Egli la spaccò in due parti come un’ostrica.
Metà di essa egli rizzò e coprì con essa il cielo.
Egli tirò un chiavistello e stabilì guardiani.
Egli ingiunse loro di non lasciar uscire la sua acqua»
(Enuma Elish, in P. Dorme, a cura di, Choix de textes religeux assyro-babyloniens, Parigi, 1907, pp. 3-81; e in René Labat, a cura di, Poème babylonien de la création, A. Maisonneuve, Parigi, 1935, pp. 177. In riferimento al sesto verso, ricordiamo che avere un nome vuol dire dare ordine, avere il potere di dominare una cosa vuol dire controllarla avere potere su di essa).
Secondo questo primo esempio di “dramma della creazione” il male è presente sin dalla fondazione del mondo, esso è il caos prima dell’atto creatore (o ordinatore). La fondazione del cosmo è la sua liberazione dal male-caos nel quale versava prima del tempo. L’identità fra male e caos e fra salvezza e creazione è il tratto fondamentale di questa tipologia di poemi che hanno come archetipo i miti teogonici sumero-accadici, e raccontano della vittoria dell’ordine sul caos. Fra questi spicca per importanza il poema della creazione babilonese Enuma Elish che abbiamo appena citato e che narra dell’avvento del dio Marduk e della lotta con gli dèi Apsu e Tiamat che reggevano il mondo prima della sua venuta.
In realtà, il mito può essere interpretato antropologicamente, sociologicamente e storicamente come l’espressione della superiorità politica raggiunta dalla città di Babilonia che aveva fatto di Marduk, fino ad allora un dio minore, il campione del nuovo ordine celeste, espressione del potere della Mesopotamia in terra. Enuma Elish narra dell’avvento di un ordine nuovo e di come esso si sostituisca con violenza all’ordine precedente. Tiamat, madre originaria, potenza generatrice, immensità delle acque, e Apsu, padre primordiale, ricordano molto Urano e Gaia, Kronos e Rea dei preolimpici della tradizione greca.
Il male è posto, come principio prima del tempo, nel caos originale, ma anche nella vittoria sul caos vi è una violenza che esclude la santità e la purezza dell’ordine costituito. Caos e violenza sono i principi del male e del cosmo, secondo questo mito tragico, che più di molti altri può essere posto come emblema del “dramma della creazione”.
Questo particolare mito d’origine rappresenta un esempio di come, a questo livello di narrazione, l’ordine attuale delle cose nasce dalla violenza. Marduk, dio dell’ordine nuovo, per imporre il cosmo sconfigge il panteon dominatore e impone agli altri dei rimasti il suo comando. I babilonesi avevano, quindi, colto l’ambiguità del divino. In questo genere di miti la narrazione si propone di mostrare l’origine del mondo al di là delle valutazioni morali, al di là del bene e del male. Non fornendo una visione morale del cosmo, la mitologia babilonese non rende l’uomo colpevole della corruzione e del male.
Questa teologia dell’accusa è presente anche nella tradizione greca. Facciamo riferimento, ad esempio, alla tragedia e al mito del Prometeo incatenato in cui è evidente la sproporzione fra colpa commessa, il furto del fuoco e pena subita, ovvero l’incatenamento eterno alla roccia. A tale proposito ricordiamo cosa rappresenta il fuoco per l’uomo, di cui Prometeo è l’archetipo ed emblema: l’oggetto del furto è il lume della ragione, il fuoco rappresenta l’intelletto, le scienze, il mezzo attraverso cui l’uomo lancia la sua sfida agli dèi a testimonianza del legame fra ragione e dissacrazione.
Il mito dell’anima esiliata: l’uomo come e origine del male
Il mito della caduta parte dall’idea di una creazione compiuta e perfetta, scevra della presenza di ogni forma di sofferenza o dolore, nella quale l’uomo, tramite la trasgressione (o peccato), si rende colpevole della venuta al mondo del male. Nel mito tragico – esposto nel paragrafo precedente –, la salvezza e la fondazione del cosmo coincidono in un unico gesto. Ci teniamo a sottolineare che si tratta di un gesto di violenza, di una guerra, in quanto gli dèi olimpici, fra i quali inseriamo Marduk, per la vicinanza del suo ruolo a quello di Zeus, salvano il cosmo da un destino di distruzione dovuto all’essenza stessa degli dèi che essi combattono e che sono all’origine della natura.
Nel genere mitico della caduta, la salvezza deve essere conquistata come riparo di un torto. In breve, nel mito tragico il male esiste prima della creazione, qui invece il male entra nel mondo post-genesi e ne sconvolge la perfezione. Paul Ricoeur, in Finitude et culpabilité (Aubier, Parigi, 1960, pp. 492), sostiene che il mito adamitico è il solo mito antropologico e antropogonico; infatti, nel tentativo di dare al male un’origine ed un principio diversi da quelli del bene (il dio creatore), si rischia di fare dell’uomo il solo portatore del male sulla terra.
Nelle altre tipologie di racconti dell’origine che pure fanno riferimento all’uomo e alla sua partecipazione alla venuta del male, l’uomo non è la figura centrale dell’evento della caduta. La Genesi sembra essere, ad un primo sguardo, un mito della caduta che fa dell’uomo il solo colpevole della presenza del male; mentre Adamo è sì il principale protagonista, ma al suo fianco giocano un ruolo assai importante altre figure. Cerchiamo di dare quindi una struttura schematica attraverso la quale poter interpretare al meglio il mito adamitico.
Bisogna, per poter fare una ricerca simbolica ed ermeneutica sul mito di Adamo e sull’origine del male, liberarsi dell’interpretazione letterale, storica e giuridica del mito stesso; essa, infatti, ha nuociuto alla ricchezza di significati che questo racconto può fornire. L’autore ci ricorda, inoltre, che il mito è più della storia; cercare quindi di collocare storicamente il racconto della Genesi è inopportuno soprattutto per coloro che intendono difendere l’importanza di questo mito e della sua funzione.
Una seconda possibile interpretazione del mito adamitico
In ultima analisi possiamo notare che il racconto della creazione ha un duplice valore: esso fornisce lo spunto per una riflessione sia sull’origine del male commesso dall’uomo, il male morale, sia sul male indipendente dalla volontà umana, sull’origine della sofferenza svincolata dal concetto di colpevolezza.
La Genesi, principalmente nei passi 2,8-4,17, racconta la tentazione e la caduta dell’uomo. Proprio perché il mito adamitico racconta della venuta al mondo del male a causa dell’uomo, è stato spesso accostato, come dicevamo in precedenza, nella storia del pensiero, ai miti della caduta, vale a dire a quei miti che narrano di un mondo perfetto prima dell’avvento e di un cambiamento che ha portato l’ombra ed il male ove v’era solamente luce. La caduta dell’uomo implica un tempo di tentazione in cui agiscono diverse figure simboliche: la donna, il serpente, l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male. Ognuno di questi simboli contribuisce ad arricchire di significati la Genesi, e fornisce lo spunto per le nostre riflessioni.
Il serpente tentatore è già là, prima dell’uomo, è una creatura come lo è l’uomo: «Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio» (Genesi), ma prima di chiederci chi è il serpente vediamo le figure della fragilità dell’uomo. Veniamo alla donna, perché essa è il veicolo del serpente, il mezzo attraverso il quale il veleno delle parole della tentazione giunge all’uomo.
Da lungo tempo si è dato al mito adamitico la forma di mito dello scacco, della divisione irrecuperabile fra un mondo antecedente al peccato ed un mondo posteriore. Si è perso di vista lo svolgimento del passaggio e delle figure a lui connesse. Poniamo l’accento sul tempo della tentazione, prima della caduta, in cui hanno una parte essenziale il serpente, la donna e la legge che proibendo induce in tentazione: «Considerato in questa prospettiva, l’episodio della tentazione assume un significato eminente. Esso inizia con la messa in questione del divieto in quanto componente strutturale dell’ordine creato. Ma Dio ha proprio detto? La domanda fa cessare quella relazione di fiducia in virtù della quale il divieto era una condizione di vita, ovvia come le foglie del giardino. Si è aperta l’era del sospetto, si è introdotta una incrinatura nella più fondamentale condizione del linguaggio, ossia in quel rapporto di fiducia che i linguisti chiamano “clausola di sincerità” ».br>
A tal riguardo, il serpente deve essere considerato solo dal punto di vista della sua funzione narrativa, quale ne sia lo sfondo mitico. Il serpente contribuisce a fare della proibizione un’occasione di caduta; il divieto diventa qualcosa da superare, diviene negatività. L’uomo è infelice del presente e anela sempre di più; sembra, questa, la condanna di Adamo dopo la cacciata dall’Eden, cercare un Paradiso dove non lo può trovare, la pace dove c’è lotta. Pace dei sensi e guerra delle passioni, sono gli opposti del racconto della Genesi, il prima ed il dopo. Si giunge così alla domanda decisiva: Cosa significa il serpente?, forse esso rappresenta la quasi-esteriorità della tentazione. Vorremmo aggiungere a quanto detto il racconto della ribellione degli angeli, guidati dal più luminoso fra loro, Lucifero, portatore di luce, l’angelo più simile a Dio.
Tale ribellione, infatti, sembra voler anticipare quella dell’uomo: «Ci sono uomini che discutono di Dio senza la minima conoscenza e seguono tutti i diavoli ribelli. È scritto di lui (del Diavolo) che egli travierà chiunque divenga suo servo, e lo condurrà al castigo della fornace» (Il Corano, Sourate XXII). Tramite questa prima ribellione, riportata più espressamente nella leggenda cristiana, il male è comparso prima della venuta dell’uomo, la volontà di Lucifero di essere come Dio, libero dalla sua legge, simile a lui nella potenza, rispecchia e anticipa la seduzione del serpente. Tale ribellione si antepone ad ogni altra e contribuisce a corrompere ogni creatura (Cfr. John Ronald Reuel Tolkien, Il Silmarillion, Bompiani, Milano, 2000. Richiamiamo all’attenzione del lettore questo romanzo che, pur non essendo un testo religioso o filosofico, è stato assai utile per comprendere il tema del male nella Bibbia).
La corruzione degli esseri angelici è tanto meno giustificabile quanto più questi si avvicinano alla perfezione di Dio. Le nuove creature elette dal Signore, gli uomini, seguono l’iter di coloro che li hanno preceduti. La corruzione è antecedente all’uomo secondo la Genesi, la tentazione, sotto forma di serpente, è già presente, ed egli (il serpente), è creatura di Dio. La prima tentazione è la ribellione alla legge imposta, al bene ed all’ordine voluto da Dio. La legge genera tentazione, esattamente come i vizi e la corruzione, il male può rappresentare la libertà dal bene, inteso come imposizione divina; infatti, se la legge ed il bene vengono dall’alto, l’unica libertà consiste nella ribellione. Il male può essere visto come liberazione dalla legge imposta da Dio – secondo lo stesso J. P. Sartre –, oppure la legge può essere concepita come tentazione che spinge l’uomo verso la ribellione.
Il male è già là prima della venuta dell’uomo, la creazione ha già dovuto subire una ribellione. Il male è presente nella creazione, sotto forma di tentazione, nella figura del serpente.
Concludendo è necessario far presente che la filosofia, dopo aver vissuto momenti in cui è diventata schiava della teologia cercando di giustificare l’azione di Dio dal punto di vista dell’uomo, è finalmente giunta alla conclusione che questa teodicea – così si chiama questo processo – è una filosofia inconcludente. L’azione di Dio si giustifica solo per fede. Questa semplice ammissione ha reso possibile riaprire il discorso filosofico riguardante la natura del male avvalendosi dei vantaggi del linguaggio del mito. Grazie alla liberazione dalla teodicea, la filosofia può affrontare i temi legati all’esistenza dell’uomo, la sua vita e la sua morte, le sue paure, libera dalle sabbie mobili della teologia.
Michele Rozzi
Per approfondimenti:
- Agostino d’Ippona, Natura del bene, Bompiani, Milano, 2001;
- Idem, La nouvelle traduction de la Bible, Editiòn Bayard, Parigi, 2001;
- Eschilo, Prometeo incatenato, Einaudi, Torino, 1995;
- Paul Ricouer, Finitude et culpabilité, Aubier, Parigi 1960 (trad. it. Virgilio Melchiorre, a cura di, Finitudine e colpa, il Mulino, Milano 1970);
- Paul Ricouer, La mal. Un défi à la philosophie et à la théologie, Labor et Fides, Ginevra, 1986 (trad. it. Ilario Bertoletti, a cura di, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia, 1993);
- Otto Rudolf, Il sacro, Feltrinelli, Milano, 1984;
- Tommaso d’Aquino, Il male, Bompiani, Milano, 2001.
Michele Rozzi è docente di Storia e Filosofia. Collabora con varie riviste culturali.
(direfarescrivere, anno II, n. 7, settembre 2006) |