Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
La cultura, probabilmente
Caravaggio: luci e ombre presentate
attraverso un romanzo che è un tributo
all’estro di un artista imprescindibile
Per Nep edizioni, Carlo Millauro mostra in forma narrativa
le sfumature della vita e della produzione del celebre pittore
di Mario Saccomanno
Caravaggio fu un celeberrimo pittore che visse nella seconda metà del XVI secolo. Durante la sua vita non si riconobbe mai del tutto negli ambienti pittorico-culturali che, di volta in volta, frequentò. La sua impulsività, legata sempre a stretto giro con la sua produzione artistica, gli causò diversi problemi. In poco meno di quarant’anni – nacque a Milano nel 1571 e morì a Porto Ercole nel 1610 – dipinse molto. Svariate volte, le sue opere vennero realizzate mentre cercava riparo dalle ultime indecorose vicende che lo vedevano coinvolto in prima persona.
L’elemento caratteristico della sua produzione fu il vero e proprio bisogno di far coincidere finzione e realtà. Nella sua concezione, inserire svariati tasselli quotidiani nei dipinti avrebbe avvicinato il popolo ai temi religioni che aveva deciso di sviluppare.
Si trattava del modo attraverso cui Caravaggio interpretava il cambiamento discusso nel Concilio tridentino indetto da papa Paolo III, che durò dal 1545 al 1563. Il motivo della convocazione, com’è noto, fu la reazione alla Riforma protestante che aveva scosso l’Europa intera. Così, le istituzioni della Chiesa cattolica vennero riformate. Per quanto concerne la pittura, fu Roma la città in cui confluirono diversi artisti di spicco dell’epoca. Tra gli obiettivi dei numerosi incontri c’era soprattutto quello di allineare le produzioni ai nuovi dettami della Chiesa.
La potenza iconografica avrebbe dovuto avvalorare le predicazioni. In Caravaggio, quest’urgenza di cambiamento si percepisce ampiamente. La sua interpretazione tridentina, applicata in primo luogo proprio nel contesto romano, sfociò in un realismo estremo percepito come necessario, ma su cui non di rado si scagliò la censura.
Nel romanzo Caravaggio indietro tutta. Fra sogno e realtà (Nep edizioni, pp. 148, € 20,00), Carlo Millauro offre un resoconto accurato sia delle opere, sia degli snodi fondamentali della vita del celebre pittore.
Nelle pagine del testo, come si evince sin dal titolo, ci si trova immersi in molteplici visioni oniriche. Di più: nei vari capitoli, la coscienza dell’autore si lega a quella del protagonista delle vicende narrate. L’affinità fa sì che Caravaggio diventi Mike, che si instauri un rapporto amicale fatto di confidenze, aneddoti e molteplici salti temporali che ripercorrono a ritroso l’esistenza dell’artista milanese.
E ancora oltre: nel fitto e appassionante dialogo, che volutamente è cosparso anche di zone d’ombra, le vicende si intersecano con molteplici figure. Su tutte spiccano Dante Alighieri e Telemaco. Così, per snocciolare al meglio i contenuti del testo risulta proficuo analizzare i tratti più marcati della vita e della produzione artistica di Caravaggio.

Le ombre e le luci della sua esistenza
In primo luogo, appare inevitabile riferire che Millauro ammanta di mistero tutte le pagine che compongono il libro. Il motivo è presto detto: nel suo arrabattarsi «e voler conoscere la vita vissuta di Michelangelo Merisi e la sua storia» si scontra con la nebbia che avvolge diversi momenti dell’esistenza del celebre pittore. Infatti, tutti gli snodi fondanti della sua vita sono avvolti di luci e ombre.
L’arte di Caravaggio – pseudonimo che richiama il paese natio dei suoi genitori – è imbevuta della passionalità, della violenza, della sregolatezza, dello stretto legame che ebbe con la morte e di tutte le altre sfaccettature che formavano il suo carattere fumantino. Porre al centro di un’opera una figura del genere non è affatto semplice. Eppure, come se non bastasse, accanto a queste enormi difficoltà se ne aggiunge un’altra: scrivere di Caravaggio significa avere ben in mente l’Italia e l’Europa a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, un periodo denso di avvenimenti decisivi.
Le prime notizie biografiche legate alla sua carriera da artista risalgono al 1584. Un contratto legava il tredicenne futuro autore di opere quali Davide con la testa di Golia, Vocazione di san Matteo, Medusa o Giuditta e Oloferne a Simone Peterzano, allievo di Tiziano ed esponente di spicco del tardo manierismo lombardo. A Caravaggio venivano garantiti vitto e alloggio per un lasso di tempo pari a quattro anni, conclusi i quali, il giovane apprendista avrebbe mostrato capacità tali da svolgere in totale autonomia la professione.
Da quell’anno occorre spostarsi addirittura al 1594 per avere altre notizie certe intorno a cui costruire una narrazione. Questa volta le vicende sono legate a un’altra città estremamente importante per comprendere la figura caravaggesca: Roma. Eppure, già diverse ombre ricoprono lo spostamento che compì da Milano alla Città Eterna.
Gaspare Celio, nella sua opera Compendio delle Vite di Vasari con alcune aggiunte, riscoperta nel XXI secolo in una biblioteca nel Lancashire nel Regno Unito e pubblicata soltanto nel 2021, parla di un omicidio compiuto dal giovane pittore. Evidentemente, fu proprio questo evento a indurre Caravaggio al trasferimento.
Di sicuro, le notizie contenute nel testo di Celio enfatizzano alcuni aspetti, come il legame col cardinale del Monte, ma sottendono la grossa difficoltà di ricostruire la figura caravaggesca, aspetto col quale Millauro fa costantemente i conti e che riesce a superare avvalendosi soprattutto della conformazione artistica con cui riveste le pagine del suo testo.

Una quotidianità che stupiva e dava scandalo
A Roma Caravaggio non disdegnò affatto la frequentazione delle osterie e degli ambienti malfamati. Infatti, in quei quartieri trovò i soggetti che sovente diedero forma ai suoi capolavori. In merito, basta semplicemente citare I bari, un’opera risalente al 1595 che portò il pittore a conoscere, tramite Prospero Orsi, il cardinale e collezionista d’arte Francesco Maria del Monte.
Entrando al servizio di questa importante figura, la produzione caravaggesca cominciò a diventare molto più carica di quegli elementi psicologici che ancora oggi affascinano innumerevoli persone.
Ai prestigiosi compiti affidati da del Monte – basti soltanto riferire la Vocazione di San Matteo per la Cappella Contarelli, la quinta della navata sinistra della chiesa di San Luigi dei Francesi – facevano da contraltare le turbolenti notti romane passate nelle bettole. Non di rado, Caravaggio trascorreva diverse ore in compagnia di prostitute, immerso nei giochi d’azzardo, magari stordito dall’eccessivo alcool in corpo.
Questa quotidianità chiaroscurale stupiva e dava scandalo, al pari della sua produzione. Infatti, come avuto modo di chiarire in apertura, il tema del realismo fu sempre preminente e gli causò non pochi problemi. I suoi soggetti sacri sono scevri di una rappresentazione aurea. Aspetti siffatti, legati spesso al tema della luce, costituiscono la linfa vitale del testo di Millauro che si colora di sfumature e di capovolgimenti, finanche di apparenti paradossi, il tutto per offrire ai lettori una verosimiglianza il più accurata possibile.

Una pittura incentrata sul vero
Sul tema del realismo occorre soffermarsi ancora, poiché il tipo di produzione caravaggesca, carente delle forme tipiche rinvenibili nell’epoca tardomanierista, fece tornare prepotentemente in scena il vero naturale. Il tutto abbinato a una sorte di diniego del modello classico. Infatti, in Caravaggio gli incontri, gli scorci del quotidiano e la vita prevalsero sempre sugli esempi pittorici rinvenuti nei secoli precedenti.
La totale adesione verso una pittura incentrata sul vero, come avuto già modo di accennare, portò gravi conseguenze, sui quali MIllauro inevitabilmente insiste a più riprese nelle pagine del libro.
In merito bastano due esempi: il primo è proprio la Vocazione di San Matteo, che venne rifiutata poiché considerata inopportuna. Nel dipinto, il santo a cui l’angelo dettava il Vangelo si presenta sotto le vesti di un contadino analfabeta. L’altro esempio utile a comprendere i problemi a cui andò incontro Caravaggio a causa delle scelte stilistiche è la celebre Morte della Vergine.
La rappresentazione è scarna di elementi solenni e la Madonna appare col ventre gonfio e con le gambe scoperte, deceduta in un ambiente povero e ombroso, trafitto soltanto dalla peculiare luce che contraddistinse l’intera sua produzione. Il rifiuto della tela fu dovuto proprio a questa crudezza. Inoltre, è probabile che Caravaggio avesse utilizzato una prostituta annegata nel Tevere come modello per il corpo della Vergine.
Gli esempi potrebbero essere ancora numerosi. Di sicuro, il tema di un realismo siffatto ha aperto un lungo dibattito artistico e ha suscitato nel corso dei secoli un interesse che ancora oggi non si è minimamente affievolito.

La peregrinazione e la morte
Fu l’omicidio di Rinuccio Tommasoni, avvenuto nel 1606, a sconvolgere definitivamente la vita di Caravaggio. La pena prevista era la decapitazione. Per questo motivo, il pittore lasciò Roma a gambe levate e rifuggì nel Regno di Napoli. Vivere in un altro luogo non servì affatto per attutire quel timore nei riguardi della morte che dominò soprattutto la produzione di quel periodo. Non bastò neanche per scacciare i suoi eccessi.
Infatti, per altre problematiche, in seguito si spostò da Napoli a Malta. Da lì, l’ennesima fuga lo portò in Sicilia, per poi tornare nuovamente nella città partenopea. Quando venne ferito ebbe l’idea di chiedere clemenza al pontefice per quanto compiuto durante gli anni della sua esistenza. Così intraprese il viaggio per Roma, dove non arrivò mai. Morì a Porto Ercole, nel 1610, a soli 38 anni. Non ebbe modo di sapere del condono papale inviato pochi giorni prima il cui contenuto assolveva l’artista dai crimini commessi.
Di sicuro, accanto al realismo, che spesso sfociava in scene molto forti – si pensi soltanto a Davide con la testa di Golia in cui la testa recisa dal corpo è un autoritratto – l’altra peculiarità più facile da rinvenire nelle sue opere è l’equilibrio precario, pregno di significati ed estremamente affascinante tra la luce e le ombre. Caravaggio costruiva minuziosamente il bagliore perfetto per i suoi dipinti. Nel farlo, non disdegnava affatto l’utilizzo di lampade o candele. Il risultato fu indubbiamente rivoluzionario per la sua epoca.

Descrivere Caravaggio come un comune mortale
Questo excursus necessario sulla vita e sulle peculiarità della pittura caravaggesca consente di cogliere con più vigore le caratteristiche del testo di Millauro.
Di sicuro, gli intenti dell’autore possono essere presentati tramite questa citazione: «Eccomi qua, adesso sono io che scrivo del grande Caravaggio. Nessuno ha mai pensato di prendere in considerazione nella sua breve e sofferta vita questo grandissimo artista dal pennello d’oro per le sue debolezze di uomo, spoglio della sua immensa arte, non scarnificando da detrattori la storia della sua vita come un omaggio al suo grande talento, ma descrivendola come egli ha voluto trascorrerla, viverla, come un comune mortale».
Dunque, il libro di Millauro è sopra ogni altra cosa un omaggio a un autore che, per affinità e riconosciuta grandezza, viene assimilato a un conoscente, a un amico con cui intraprendere un dialogo proficuo. Un colloquio che si fa vero e proprio atto di ossequio anche per il numero corposo di copie di opere caravaggesche realizzate dallo stesso Millauro che vanno a legarsi indissolubilmente alla trama del romanzo.
Non solo: nelle pagine del testo l’autore fa colloquiare Caravaggio anche e soprattutto con se stesso, cioè con quelle mille sfaccettature che formarono il suo carattere turbinoso, con quella «ira innata» che fece sempre da contraltare alla sua arte immensa.
Così, il lettore si scontra con gli snodi dell’esistenza del pittore, tra cui ovviamente quelli discussi fino a questo momento. Lo fa tramite le ricostruzioni che nei capitoli vengono offerte dalle varie figure che dimorano in Caravaggio. Pertanto, la forma utilizzata da Millauro somiglia a una vera e propria sceneggiatura, una sorta di teatro dell’assurdo che fa leva su una scrittura a tratti colta e a tratti volutamente popolare. Agendo in questo modo, l’autore riesce a sfruttare nel migliore dei modi possibili tutto il carico di gradazioni differenti portato dall’inscenare una figura come quella di Caravaggio.
Inoltre, a conclusione è necessario sottolineare come l’omaggio di Millauro diventi totale. Infatti, nel testo l’autore riesce a far convivere e discutere il protagonista con, per esempio, Dante o Telemaco. Il termine che sottende questo processo è trasvolare. Compiere un salto atemporale siffatto è possibile soltanto in un sogno, luogo in cui si può rovesciare facilmente la razionalità.
Eppure, le visioni oniriche restano impresse e diventano guida di un’intera esistenza, così come avviene quando ci si apre all’esperienza artistica: «Nulla può distruggere nella mia mente che l’aver incontrato il grande Caravaggio non sia stato solo un sogno. Nulla vieta a questo di essere stato vero in un’altra mia vita, accanto a questo Maestro. Quei due occhi sapienti paiono seguirmi da sempre, non può dunque il fato negarmi che sia vero».

Mario Saccomanno

(direfarescrivere, anno XVIII, n. 201, ottobre 2022)
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