«Come te anch’io ho cercato di lottare con tutte le mie forze contro la smemoratezza. E come te ho dimenticato. Come te ho desiderato avere un’inconsolabile memoria, una memoria fatta d’ombra e di pietra. Ho lottato da sola con violenza, ogni giorno, contro l’orrore di non poter più comprendere il perché di questo ricordo. Come te, ho dimenticato». Questa citazione è tratta da Hiroshima mon amour, film del 1959, coproduzione franco-giapponese diretta dal regista Alain Resnais (1922-2014). Invece, il soggetto e la sceneggiatura della pellicola, ritenuti interessanti al punto da meritare una candidatura all’Oscar nel 1961, sono opera della scrittrice e regista Marguerite Duras (1914-1996).
La citazione è un solido punto di partenza utile per cercare di presentare i temi principali che emergono dalla lettura del testo Da Weimar a Hiroshima 1920-2020. Il tramonto dell’Occidente (Armando editore, pp. 96, € 10,00) di Augusto Forti. In prima battuta, occorre affermare che il libro è un’acuta riflessione mossa a partire dagli snodi storici cruciali del secolo scorso. In particolare, l’autore mostra uno spiccato interesse nei riguardi del contesto europeo degli anni Venti in cui si è assistito a uno scomporsi graduale e irreversibile dell’assetto sociale dovuto al prorompente manifestarsi nello scacchiere politico di numerosi regimi autoritari, nonché di crisi economiche ricorrenti e di una crescente disoccupazione che fecero da contraltare a quell’Europa sognata da molti.
Le strane assonanze che chiariscono l’urgenza della comprensione del passato
Forti mostra a chiare lettere come risulta indispensabile soffermarsi sulla «bella ma infelice» Repubblica di Weimar. Infatti, solo così facendo risulta possibile comprendere a fondo i passaggi decisivi che da Weimar hanno portato all’ascesa del nazismo.
«Comprendere il perché di questo ricordo», si diceva in apertura citando Hiroshima mon amour, la cui trama presenta allo spettatore un amore tra un architetto giapponese e un’attrice francese tempestati dagli spettri atomici di un passato impossibile da allontanare definitivamente e che, proprio per questo motivo, finisce sempre per intralciare il presente. Così, proprio il bisogno e il peso del ricordo diventa l’elemento cardine anche del testo di Forti. Di sicuro, assume un ruolo portante al punto che si può affermare che il ricordo è la chiave di volta che consente di comprendere pienamente la conformazione del presente. Dunque: le analisi contenute nel libro confluiscono irreversibilmente nell’attualità. Del resto, basta anche solo affidarsi all’Introduzione del testo per comprendere l’importanza di questo fitto legame col presente che torna più e più volte – rimanendo spesso anche sottotraccia – nelle pagine del libro.
Infatti, nell’Introduzione Forti mostra al lettore una Venezia sinistramente sgombra dal solito tran tran quotidiano, solitaria e trafitta dalla pandemia. Ovviamente, il contesto pandemico è quello risalente al primo lockdown, al mese di marzo del 2020. Nelle riflessioni dell’autore, il vivere quell’eccezionalità rimanda tempestivamente alla tragica pandemia influenzale che uccise milioni di persone in tutto il mondo tra il 1918 e il 1920 che viene indicata come la grande influenza o la spagnola. In merito, scrive l’autore: «Dicono che la storia non si ripeta, tuttavia non possiamo non notare delle strane assonanze».
Sono proprio queste strane assonanze che spingono Forti a riflettere sugli avvenimenti accaduti e che lo portano a dare forma concreta ai suoi pensieri imprimendoli nelle pagine del testo che si sta prendendo in esame. Dalle assonanze si percepisce l’urgente bisogno di comprendere le sfumature degli eventi che hanno contrassegnato il passato per trarne un insegnamento indispensabile e utile a percorrere al meglio la strada del proprio presente.
L’urgenza della riflessione
Gli anni successivi alla Grande guerra sono stati contraddistinti da enormi cambiamenti geopolitici e sociali. Questa frase, che funge quasi da assioma, può essere posta a fondamento dei temi contenuti nel testo. Infatti, concluso il conflitto mondiale, ci si è trovati dinanzi a un contesto radicalmente mutato rispetto a quelle che potevano essere le aspettative politiche, economiche, culturali antecedenti.
Questo periodo inevitabile di cambiamenti ha spinto gli uomini del tempo a riflettere in prima battuta sugli scogli bellici che avevano affondato i valori modellati a lungo nei decenni – se non secoli – precedenti. La guerra aveva in un primo momento fatto scricchiolare e poi sgretolare definitivamente tutte le idee di progresso poste a fondamento di innumerevoli visioni del mondo offerte da pensatori che avevano indagato il tragitto complessivo dell’umanità.
Volendo utilizzare una metafora utile alla comprensione e sorvolando sulle decisive differenze di ogni singola veduta, molti pensatori influenti avevano immaginato la storia umana come una freccia scagliata dritta verso il futuro. Questo simbolo di una costante e inarrestabile miglioria significava che, presto o tardi, gli uomini avrebbero vissuto una nuova era capace di spazzar via ogni barbaro residuo delle epoche passate.
Inutile far presente che l’euforia di una tale visione si è infranta ai trenta milioni di morti della Prima guerra mondiale, un conflitto che può essere riassunto con un’altra immagine, quella della trincea, simbolo di una guerra lunga e logorante combattuta nell’immobilità, nel fango.
Ecco allora, al termine del conflitto, così come sottolineato da Forti, l’urgente bisogno di ripensare ai propri credi, ecco il sopraggiungere del tempo della riflessione gravitante intorno al quesito sulla decadenza e sul tramonto dell’Occidente, così come d’altronde recita il sottotitolo del testo di Forti.
La Repubblica di Weimar: solo un incidente di percorso?
Eppure, chiarisce l’autore, proprio «in questa Europa confusa dalla brutalità di un conflitto che mette in dubbio la sua stessa capacità di sopravvivenza, nasce, per un breve periodo, 14 anni, la Repubblica di Weimar, che raccoglie i principi che in tanti hanno fatto il vanto e la fortuna dell’Occidente». Dunque, a indagare in quel clima di incertezze poc’anzi discusso, si trova un formicolare di speranze, di nuove idee e un incredibile sviluppo delle arti e delle scienze, manifestate anche dall’«irresistibile ascesa dell’atomo» e dalle conferme straordinarie di quella teoria sulla relatività espressa pochi anni prima dal celebre fisico tedesco – naturalizzato svizzero e statunitense – Albert Einstein (1879-1955).
Ecco perché Forti si pone una domanda cruciale a cui cerca di dare risposta nelle pagine del testo, un quesito che chiama in causa quell’urgenza di libertà, creatività e democrazia manifestata dalla Repubblica di Weimar. Di cosa si è trattato? È stato soltanto un meraviglioso incidente di percorso, una piccola oasi in quell’Europa post-bellica che di lì a poco, alla fine degli anni Trenta, si troverà contrassegnata irreversibilmente da diverse realtà guidate da regimi autoritari e segnata dal timore sempre più concreto – fino a presentarsi come inevitabile – di un nuovo conflitto mondiale da immaginare ancora più grave del precedente?
È questa la domanda fondamentale che può essere trapiantata nel contesto attuale e che presuppone il bisogno di riflettere ampiamente sul tema della necessità del ricordo. La breve vita di Weimar merita studi approfonditi poiché, afferma l’autore, «ancora oggi, può aiutarci a capire ed eventualmente evitare nuovi disastri». La Repubblica di Weimar è legata inscindibilmente a quei roaring Twenties che spesso vengono rievocati nostalgicamente e che Forti mostra efficacemente come siano stati anni di creatività sotto diversi ambiti, che spaziano da quello artistico a quello scientifico, ma di come, al contempo, quel decennio abbia trascinato con sé anche miserie e turbolenze sociali smisurate.
I paradossi di una breve Repubblica
Cosa può fermare l’uomo da stragi quali quelle compiute durante il secolo scorso? Cosa può arginare la barbarie dilagante che è facilmente rinvenibile anche nel panorama odierno? Sono interrogativi del genere che spingono l’autore a indagare nel passato con lunghe e articolare riflessioni.
Da qui, il bisogno di soffermarsi con più acutezza su quel contesto ossimorico fatto di libertà e democrazia rappresentato dalla Repubblica di Weimar che covava nel suo grembo i tragici risvolti totalitari che hanno caratterizzato gli anni seguenti. Questo oscillare tra libertà e tragedia è ancor di più riassunto dall’associazione dei magnifici progressi della fisica che è possibile rinvenire proprio a Weimar. Infatti, a guardar bene, contenevano in sé gli spettri dell’arma atomica.
Weimar, sotto certi aspetti, si è fatta beffe di quel contesto post-bellico così tragico chiarito brillantemente dal filosofo tedesco Oswald Spengler (1880-1936) nel suo celebre testo Il tramonto dell’Occidente uscito nel 1918 e rivisto nel 1923, cioè proprio durante quei ruggenti anni Venti. Spengler ha tracciato un’attenta analisi del suo presente che può essere racchiusa in una frase che evidenzia e riassume la profonda crisi di pensiero di quel periodo, frase che non a caso Forti riporta nel saggio e che recita: «Abbiamo perso l’anima sostituita dalla ragione e della tecnica».
Dunque, Weimar, che «entra nella grande storia per caso», diventa «uno sfortunato vogatore che cerca invano di spingere la sua barca controcorrente». È bene soffermarsi ancora su alcune caratteristiche della Repubblica di Weimar. In particolare, occorre sottolineare che non è stato soltanto il luogo di nuovi e celebri movimenti artistici e di terreno fertile in cui prese vita quel caos politico che ha contrassegnato la storia mondiale del secolo scorso. Infatti, è stata anche «la culla della nuova fisica». Del resto basta soltanto citare Max Born (1882-1970), Otto Hahn (18979-1968), Werner Karl Heisenberg (1901-1976) e Max Plank (1858-1947), cioè soltanto alcuni dei «molti fisici e chimici della prestigiosa scuola tedesca a cui dal 1914 si aggiunse Einstein all’apice della celebrità per la teoria della relatività».
A partire dagli anni Trenta Weimar ha cominciato irrimediabilmente a offuscarsi. Come sovente accade, diversi sintomi non colti hanno preannunciato l’inarrestabile declino. In particolare, Forti fa riferimento al lento degenerare del sistema democratico, contrassegnato da continui scontri fra i partiti e dagli ignobili omicidi di avversari politici, tutti avvenimenti che «preannunciavano alla fine degli anni ’20, il non lontano arrivo della dittatura nazista».
La scienza al servizio della distruzione
Forti dedica ampio spazio al pensiero atomista. Ne ricostruisce la genealogia, mostrando come l’origine di questo pensiero sia indubbiamente incerta. Offrirne un resoconto significa spingersi fino al padre dell’atomismo, Leucippo, filosofo vissuto nel V secolo a.C. in Grecia. Da Leucippo, si giunge facilmente a includere il suo allievo, Democrito di Abdera (460 a.C.-370 a.C. circa). In seguito, sarà Epicuro, un altro celeberrimo filosofo greco (341 a.C.-270 a.C.), a fare sue molte idee dei pensatori poc’anzi citati che, tramite il testo De rerum natura, brillante poema scritto nel primo secolo a.C. da Tito Lucrezio Caro, finirono per approdare anche nel mondo romano.
In merito a questi immortali pensatori, Forti si esprime categoricamente affermando: «Noi europei siamo eredi fortunati delle intuizioni geniali dei filosofi naturalisti greci e romani. Ma spesso lo dimentichiamo. Epicuro e Democrito, come Lucrezio, avevano, con le loro teorie, non solo individuato la base naturale del “mondo”, cioè l’atomo, ma già evocato alcuni problemi che solo da poco la scienza, la fisica e il pensiero moderno hanno affrontato: il “caso” e la “necessità”».
Prima di essere riprese nel contesto moderno-contemporaneo – così come è avvenuto nelle riflessioni dell’abate Pierre Gasendi (1592-1655), l’«atomista libertino» a cui Forti non manca di dedicare spazio nel testo – queste idee scottanti sono state a lungo osteggiate. Così, a ben vedere, solo dopo due millenni si ha avuto una ripresa decisiva di questi pensieri con sviluppi alquanto impensabili. Infatti, si è cominciato a mettere in dubbio l’indivisibilità dell’atomo. Va da sé che anche ancora a inizio Novecento non era soltanto immaginabile l’energia immane che la scissione avrebbe potuto sprigionare.
Dunque, ancora Weimar. Lì, infatti, come già in parte si è detto, si sono ritrovati – in quel breve periodo storico a cui le riflessioni di Forti spesso rimandano – un gruppo di fisici «così giovani, ambiziosi, e creativi», costantemente impegnati «nelle grandi prospettive di ricerca che la nuova fisica, la fisica quantistica, apriva nel campo delle ricerche di fisica nucleare anche a seguito delle geniali intuizioni di Einstein e in particolare di Planck».
Per questo motivo, nel testo non manca un prospetto interessante e articolato delle figure principali che hanno lavorato in quelle circostanze, tra cui spicca sicuramente Einstein, ricordato «non solo come genio della fisica ma anche come illustre cittadino della Repubblica di Weimar», sebbene Einstein in seguito volle dimenticare quel periodo considerandosi «cittadino del mondo di nazionalità svizzera e americana».
Mai più altre Hiroshima
Inevitabilmente, le riflessioni confluiscono nel fatidico anno, il 1938, in cui Otto Hahn e i suoi collaboratori Lise Maitner e Fritz Strassmann, tenendo in forte considerazione le ricerche precedenti, hanno ottenuto la fissione nucleare, giunta dopo quel periodo d’oro della fisica della Repubblica di Weimar.
Come detto, ormai l’atomo non era più quella particella indivisibile. Così, sin da subito sono state smisurate le nuove prospettive di ricerca. In soli pochi anni sono diventati molti gli attori bellici che sono risultati essere potenziali pretendenti della costruzione dell’ordigno nucleare. I vincitori della contesa, com’è noto, sono stati gli americani.
L’epilogo della Seconda guerra mondiale è stato contrassegnato dai bombardamenti atomici, il primo dei quali avvenuto il 6 agosto 1945, quando l’aereonautica militare statunitense ha indotto il Giappone alla resa sganciando la bomba – costruita nell’ambito del Progetto Manhattan e avente come nome in codice Little Boy – sulla città portuale di Hiroshima. Dopo solo tre giorni, la storia si è ripetuta. Un nuovo ordigno, la bomba Fat Man, è esplosa su Nagasaki.
Inutile dire che i danni causati – sia direttamente, sia indirettamente – sono stati enormi. Inoltre, la quasi totalità delle vittime (stimato tra le 100.000 e le 200.000 persone) sono state civili.
Ricordare o dimenticare?
Il tema del ricordo o del bisogno di ricordare risulta impellente anche dall’osservazione scrupolosa delle nuove generazioni che, per l’autore, «sembrano tendere a dimenticare, quasi per un processo di salute mentale» tutte le nefandezze che hanno contrassegnato il secolo scorso. Di più: sono le analogie tra il secondo decennio del Novecento e il presente che sciolgono ogni dubbio. Non solo il ricordo, ma anche l’attenta analisi delle origini e dei pensieri che hanno portato alla concretizzazione dei disastri nucleari avvenuti a Hiroshima e Nagasaki possono «rovesciare il corso degli avvenimenti» e far sì che non si compiano nuovamente quegli orrori.
Infine, Forti riferisce che l’analisi di Weimar offre un altro prezioso insegnamento che occorre tenere in grande considerazione: «Una grande tradizione culturale non è un deterrente contro chi vuole cambiare le regole della società contro forme, come sempre catastrofiche, di autoritarismo, ne è capace di fermarci, di fronte all’uso di mezzi di distruzione di massa». Ecco allora che urge una profonda riflessione sull’indirizzo preso dal vivere odierno. Per questo, proprio l’invito alla riflessione è il tema più urgente che l’autore richiede al lettore.
Mario Saccomanno
(direfarescrivere, anno XVII, n. 191, dicembre 2021)
|