«Le donne si trovano dovunque a vivere in questa deplorevole condizione: per difendere la loro innocenza, eufemismo per ignoranza, le si tiene ben lontane dalla verità e si impone loro un carattere artificioso, prima ancora che le loro facoltà intellettive si siano fortificate. Fin dall’infanzia si insegna loro che la bellezza è lo scettro della donna e la mente quindi si modella sul corpo e si aggira nella sua gabbia dorata, contenta di adorarne la prigione. [...] Le donne invece costrette come sono di occuparsi di una cosa sola e a concentrarsi costantemente sulla parte più insignificante di se stesse, raramente riescono a guardare al di là di un successo di un’ora. Ma se il loro intelletto si emancipasse dalla schiavitù a cui le hanno ridotte l’orgoglio e la sensualità degli uomini, insieme al loro miope desiderio di potere immediato, simile a quello di dominio da parte dei tiranni, allora ci dovremmo sorprendere delle loro debolezze». [1]
Le parole della filosofa che ha dato il via al proto-femminismo con le sue opere, ovvero Mary Wollstonecraft, sono sicuramente le più adatte per iniziare tale articolo. Sono passati secoli dal 1792, data di pubblicazione dell’opera La Rivendicazione dei diritti della donna che tanto risultò importante per lo sviluppo del pensiero femminista. Testo, inoltre, scritto anche per polemizzare contro la visione di filosofi allora ben più conosciuti come il francese Jean-Jacques Rousseau che negava alle donne il diritto all’educazione [2].
In un momento storico in cui si parla di “nazi-femminismo” per screditare un movimento volto all’eguaglianza tra i sessi, in cui “femminista” sembra essere diventato un insulto perché, in sostanza, minaccia di voler ristabilire i diritti che spettano alle donne per natura (ovvero parità di trattamento in ogni funzione, uguaglianza di retribuzione, possibilità di conciliare lavoro e famiglia senza dover rinunciare per forza a uno dei due aspetti e molto altro), un libro come quello che stiamo per proporre è indispensabile come l’acqua.
La sociologa e giornalista Giovanna Meyer Sabino ci fa dono di un testo che si fa allo stesso tempo inchiesta pubblica e saggio socio-culturale ovvero ... democrazia è femmina. Donne calabresi e cambiamento (Luigi Pellegrini Editore, pp. 266, € 28,00).
Una terra antica che ha bisogno di un cambiamento
Il lavoro analizzato ha visto la propria pubblicazione nel 1995 eppure è così attuale che merita una rilettura anche alla luce delle vicende a noi contemporanee che ancora vedono le donne incatenate a ruoli che non sono affatto naturali come molti vorrebbero far credere, ma a cui sono state relegate nei secoli dalla cosiddetta società civile.
L’Introduzione di Renate Siebert è illuminante a tal proposito, quando mostra come in Calabria vi siano numerose realtà fatte di iniziative volte all’esaltazione della legalità, all’avversione verso la corruzione che, però, spesso non fanno in tempo a farsi conoscere a livello regionale. Esse, infatti, muoiono prima che ciò possa avvenire.
La Prefazione curata da Saverio Di Bella, invece, ci parla della lotta delle donne di Tropea disgustate dal degrado sia fisico che morale della propria città. La “Perla del Tirreno”, infatti, viveva una situazione indecente, tra abusi edilizi, problemi di raccolta dei rifiuti e incapacità amministrative di rendere vivibile e allettante tale luogo. Di tutto questo, e molto altro, ci parla Giovanna Meyer Sabino nel suo testo diviso in tre atti.
Una regione ai confini dello Stato
La Calabria è sempre stata fanalino di coda dell’Italia. Spesso, guardando i servizi erogati in tale regione, si ci chiede se realmente faccia parte della penisola italiana o se sia semplicemente un territorio occupato e, pertanto, dimenticato. La disoccupazione giovanile era a tassi altissimi alla fine degli anni Ottanta e lo è tuttora. A Tropea, però, agli inizi degli anni Novanta nacque il movimento “Plurale Femminile: Partecipazione e Cambiamento”.
Venne dunque dalle donne quella voglia di passare quei confini mentali in cui troppo spesso la terra calabra è stata e si è rinchiusa. Carla De Ribeira, nell’estate del 1990, telefonò al sindaco per poter risolvere il problema dell’immondizia accumulata che avrebbe potuto causare una vera e propria epidemia in città. Il sindaco, però, non era presente nella propria sede e i carabinieri, invece, le suggerirono di chiudere la finestra per evitare di sentirsi infastidita dai cattivi odori. Questo fu solo la punta dell’iceberg del degrado presente all’epoca in una città dal grande potenziale e relegata nelle mani di facinorosi e approfittatori.
L’inizio delle lotte
Il movimento citato nacque da un gruppo di amiche stanche di essere considerate come cittadine di serie B rispetto al resto della popolazione nazionale. Gli anni di attività furono quattro e durante tale periodo le necessità affrontate furono dalle più svariate: emergenza ambientale, scuola, ospedale, lotta alla mafia e persino lavori pubblici.
Non sempre, però, le persone della comunità si rivelarono felici di vedere tanto movimento sociale: furono, infatti, molti coloro che aggredirono verbalmente il gruppo in questione perché, si sa, i panni sporchi vanno lavati in casa e le azioni di protesta mettevano in cattiva luce la città di Tropea.
In ogni caso, il gruppo in questione continuò le proprie azioni sociali tramite manifestazioni, raccolta firme, distribuzioni di volantini. Esemplare la volontà del “Plurale Femminile” che emerse da uno dei dépliant dispensati per le strade, e che si può trovare insieme a molti altri nel libro trattato: «Tutti devono sentirsi offesi e danneggiati dalla violenza mafiosa, non solo coloro che ne sono colpiti personalmente, perché la mafia uccide in ognuno il diritto di vivere, a credere, a sperare».
Così il 27 settembre 1990 vi è la prima partecipazione ai lavori del Consiglio comunale di Tropea e da lì le iniziative furono sempre più fitte e pressanti.
Le testimonianze, quelle scomode
Il saggio in questione arricchisce il lettore tramite non solo le molte informazioni riportate, ma anche attraverso le testimonianze fisiche e scritte dell’epoca. Moltissimi, infatti, gli articoli di giornale riportati, insieme alle fotografie, ma anche i volantini e i ricordi di chi fu attore principale della lotta al degrado. Quella intrapresa da queste donne fu una vera e propria battaglia di civilizzazione che batté al tappeto ogni aspetto della quotidianità non tralasciando alcun argomento o alcuna età della propria cittadinanza.
Esemplari le parole di Romana, componente di “Plurale Femminile” che discutendo dei propri concittadini si soffermò in realtà su tutta la realtà calabrese: «Mi sembra che qui a Tropea si dorme. Ci si adagia sui favori, dovremmo far capire alla gente che tante cose sono un loro diritto. Qui anche un semplice documento lo si ha come favore». A quasi trent’anni di distanza, purtroppo, la mentalità generale è ancora la stessa.
La coscienza civile come salvezza condivisa
Le numerose azioni svolte da “Plurale Femminile” riuscirono a portare a casa ottimi risultati anche grazie alla capacità di tale movimento di risvegliare nei cuori dei cittadini la consapevolezza di non dover sottostare alle ingiustizie e alla violazione dei propri diritti basilari. Ecco alcune delle conquiste perpetrate in quegli anni: la soluzione del problema relativo ai rifiuti solidi, la messa in funzione del depuratore, la riparazione della rete fognaria, la creazione di isole pedonali.
La nostra giornalista, come ogni autore di opere di inchiesta che si rispetti, ha inserito in questo suo saggio le interviste fatte non solo alle fondatrici del movimento, ma anche al sindaco in carica, eletto dopo le lotte cittadine, per comprenderne meglio gli obiettivi di un’amministrazione che si trovava a emergere dalle ceneri di una politica ormai disastrata e clientelistica. Nel 1990, infatti, la città di Tropea aveva un debito di 7 miliardi di lire che allora contava più o meno 7.000 abitanti.
Ricordiamo, inoltre, come, all’epoca come oggi, la mafia fosse un elemento portante dell’economia calabrese che opprimeva la regione in una tenaglia che sembra impossibile da distruggere a causa della spesso totale assenza dello Stato. Uno Stato dentro lo Stato dove, troppo spesso, le due parti che dovrebbero essere in conflitto tra loro in realtà collaborano amichevolmente.
Ecco perché servono tantissimo associazioni come “Plurale Femminile” che aiutino a far comprendere ai cittadini che non sono affatto soli, che i diritti erogati in altre parti dell’Italia spettano anche a loro. Scrive infine la nostra giornalista riferendosi al ruolo delle donne in tali contesti: «Le giovani donne non vogliono più assistere mute e impotenti alle tragedie, alle faide, agli atti criminosi che si compiono quasi davanti ai loro occhi, né trasmettere ai loro figli maschi il messaggio della vendetta come facevano le loro madri, né vivere tra i pericoli e i disagi che causano la latitanza dei loro uomini».
Rosita Mazzei
[1] Mary Wollstonecraft, La Rivendicazione dei diritti della donna, passim, traduzione di F. Ruggeri, Editori Riuniti, Roma, 1977.
[2] Cfr., Jean-Jacques Rousseau, Emilio.
(direfarescrivere, anno XVII, n. 185, giugno 2021)
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