Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
La cultura, probabilmente
La ’ndrangheta vista dalle donne,
alla ricerca di un’agognata felicità
che risulta essere troppo lontana
Per Rubbettino, Marcello Cozzi scrive una storia corale
che dimostra la realtà femminile sottomessa alla mafia
di Rosita Mazzei
La ’ndrangheta è un male che ti consuma dentro. Spesso ci si sente annientati davanti a un’organizzazione mafiosa che ha secoli alle spalle pieni di delinquenza, oltraggi, omicidi e violenza, quel tipo di violenza che deprime un popolo intero e dissangua la stessa terra che calpesta.
Vittime della coercizione e del ricatto, spesso chi ne ha subìto le malefatte aspira solo ad avere giustizia che, purtroppo, tarda ad arrivare o non si presenta mail all’appello. Chi ne fa parte, invece, sembra non provare rimorsi o, forse, non riesce a uscire da un circolo malavitoso che ti assorbe completamente e ti porta fino alla morte.
A mostrarci una nuova visione della criminalità organizzata della Calabria ci pensa don Marcello Cozzi, prete lucano impegnato da interi lustri sul versante del disagio sociale e della delinquenza e presidente della Fondazione nazionale antiusura “Interesse uomo”, e lo fa attraverso la sua opera Lupare rosa. Storie di amore, sangue e onore (Rubbettino editore, pp. 138, € 14,00).

Le presentazioni
Ad aprire le danze in questo libro ci pensa la Presentazione di Federica Sciarelli che con parole toccanti riesce a far comprendere il mondo di omertà che porta tante donne a sottomettersi alla legge del più forte, dovendo abbassare la testa innanzi al marito violento, specie se appartenente al contesto mafioso.
L’Introduzione, invece, ci viene fornita da Giancarlo Caselli che ci presenta il testo in questione come un racconto corale a tinte cupe, capace di entrare nelle profondità delle anime delle donne protagoniste che, pur volendo inseguire la libertà e la felicità, sono ancorate al volere di uomini criminali che cercano di stabilire il proprio dominio sulle loro vite. Donne ribelli a cui spesso viene affibbiato il titolo di folli, così da poter essere rinchiuse nuovamente nelle loro gabbie, portandole a ingerire acido muriatico pur di sfuggire da tale inferno.

Più storie, ma la medesima ricerca di pace
Il libro di Cozzi si apre con una lettera accorata a qualsiasi donna che si ritrovi a vivere in una situazione di sottomissione all’interno di un nucleo familiare appartenente alla ’ndrangheta.
«Te lo voglio dire subito, senza troppi giri di parole: vattene, lascialo»: con questa frase inizia l’incitamento rivolto non a una donna in particolare, ma a tutte quelle che si ritrovano a vivere con dei mostri in casa, spiegando che questo è l’unico modo per riavere l’esistenza rubata dalla prepotenza e vigliaccheria altrui.
Si parte così con la storia di Concetta, da tutti chiamata Cetta, che, dopo aver sposato un uomo “d’onore” alla sola età di tredici anni, si ritrova a vivere una vita di violenze fisiche e mentali, costretta a stare chiusa in casa con i suoi figli per portare “rispetto” al marito perennemente carcerato, costantemente sorvegliata dai suoi stessi genitori affinché reciti la parte della donna soggiogata e priva di desideri. L’autore ci porta, tramite le sue parole, all’interno della mente di questa povera donna che decide di scappare senza i suoi figli pur di poter assaporare l’emancipazione tanto ambita e mai avuta, arrivando a collaborare con le forze dell’ordine per poter raggiungere il proprio obiettivo. La nostalgia per i suoi bambini, però, la riporterà a Rosarno dove ad attenderla sarà la morte tramite acido muriatico, per la gioia della famiglia che avrà, così, nuovamente salvo l’“onore”.
La narrativa si alterna alla saggistica, così veniamo a conoscenza di altre storie, altre donne sposate a uomini di mafia che sono costrette a rinunciare alla loro esistenza per non far circolare strane voci sul proprio conto. Scopriamo così la storia di Angela Costantino, sposata al boss Pietro Lo Giudice, obbligata a sottostare alle ristrettezze volute dalla famiglia dell’uomo, mentre lui è in carcere. Uscirà di casa il 16 marzo 1994 e nessuno la rivedrà mai più, uccisa perché sospettata di essere incinta di un altro uomo; aveva solo venticinque anni e quattro figli rimasti senza di lei. La sua inquietudine dava fastidio agli uomini della famiglia che volevano sottometterla al loro volere come facevano con tutte le altre donne: «[…] una donna che appartiene a un clan come quello dei Lo Giudice non poteva permettersi di gettare disonore e fango su tutta la famiglia: unica sanzione possibile pertanto è la morte».

Una lotta continua
La semplicità con cui vengono narrate le varie storie contenute in questo libro è quasi angosciante. Il lettore è tenuto col fiato sospeso, riga dopo riga, sperando di poter trovare il lieto fine per le varie protagoniste di questa opera che mette nero su bianco sentimenti cupi, ma anche voglia di riscatto.
Le vicende di Barbara e Mariarita, anche loro legate alla famiglia Lo Giudice, si intrecciano a quella di Angela in un triste destino: la prima fatta scomparire dopo un tradimento, la seconda si getterà da un balcone poco dopo la laurea a pieni voti in Economia.
Il libro è di una sensibilità unica già a partire dalla sua dedica inziale: alle donne che ce l’hanno fatta, a coloro che stanno ancora lottando e, soprattutto, alla memoria di coloro che non ci sono più. In una terra dove la malavita è vista come qualcosa di imprescindibile, dove la parola dei più deboli è spesso ritenuta inutile, abbiamo bisogno di queste narrazioni che ci ricordino quanto ancora bisogna fare sul piano dell’uguaglianza e della legalità. Vite vissute da donne che non si sono arrese all’arroganza altrui, che hanno cercato una via d’uscita a situazioni molto più grandi di loro e che hanno pagato con anni di sofferenza, nel migliore dei casi, o con la morte la loro anima da guerriere stanche, ma pur sempre pronte a lottare.

Rosita Mazzei

(direfarescrivere, anno XVII, n. 184, maggio 2021)
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