Vivere in una bolla. È questo che fanno molti nostri concittadini, di ogni età e provenienza sociale, sottoponendo la loro razionalità ad un volontario e rigorosissimo lockdown intellettuale. Non si fidano di nessuno, a cominciare dai media mainstream, a meno che, a mezzo social e blog, qualcuno non scriva esattamente quello che loro sostengono. Non c’è spazio per il contradditorio, né per il cambiamento di opinione, principio su cui si reggono tutti i sistemi democratici.
Il libro La società della fiducia. Da Whatsapp a Platone di Antonio Sgobba (il Saggiatore, pp. 264, € 19,00), giornalista tra i conduttori di Tgr Petrarca, si prefigge di affrontare di petto, ma con pacatezza e accurata argomentazione, un problema tra i più gravi che affliggono la nostra società.
Cerchiamo notizie o conferme alle nostre credenze? Siamo ancora capaci di fidarci dei nostri concittadini?
Ho avuto il piacere di presentare il suo libro ad Ascoli, lo scorso settembre, e Antonio Sgobba mi è sembrato sin da subito una persona molto chiara e diretta. Questo si intuisce a chiare lettere in esergo al suo volume, quando scrive «Nella prima metà del libro mi occuperò della fiducia attraverso la sua negazione: la diffidenza. Nella seconda metà attraverso il suo riflesso: l’affidabilità». Ora, questa chiarezza non è così frequente nei saggi nostrani. Ma torniamo al punto, perché, come sostiene l’autore, sulla fiducia si gioca una partita di capitale importanza per il nostro futuro.
Le fake news e la post-verità
Cos’è una fake-news? Che cosa si intende per post-verità? Pochi ne sanno dare una definizione corretta. Nell’Otello verdiano, e nello specifico il secondo atto, quello in cui di fatto inizia la vicenda della gelosia, Otello dice «Mi trova / una prova secura / che Desdemona è impura... Vo’ una secura, una visibil prova...La prova io voglio! Voglio la certezza!». E Jago, implacabile, risponde: «E qual certezza v’abbisogna? Avvinti / vederli forse? E qual certezza sognate voi se quell’immondo fatto / sempre vi sfuggirà?... Ma pur se guida / è la ragione al vero, una sì forte / congettura riserbo che per poco / alla certezza vi conduce».
Ecco, il libro ci spiega con accuratezza e semplicità l’origine di queste «sì forti congetture» che hanno lo scopo di ingannarci, manipolarci, suscitare una nostra reazione preordinata come si trattasse di un stimolo chimico ai recettori del nostro cervello. L’epoca che viviamo, quella della post-verità, è dunque un’epoca dove la verità ha perso peso, è fluttuante in un orizzonte dove alla forza di gravità si è sostituito il desiderio di plasmare la realtà a nostra immagine e somiglianza.
Il volume è importante anche perché ci fa intravedere anche cosa c’era prima della nostra epoca, un mondo pervaso da una grande inquietudine perché «Dalla Riforma fino al XX secolo la nota dominante della cultura occidentale era stata la fiducia. Ma la perdita della fiducia aveva travolto il ventesimo secolo. La scienza, un tempo principale sostegno della fiducia, ci ha insegnato a diffidare si sé stessa». Quindi il male è antico e l’autore ce lo dimostra con storie ed aneddoti di grande interesse e curiosità. Ma se questa è la diagnosi, qual è il decorso della malattia e soprattutto, c’è una cura?
Una speranza: un nuovo contratto sociale al confine tra calcolo e virtù
La progressione della malattia, se non si interviene, come Sgobba delinea nelle sue conclusioni, non è buona, anzi al contrario, ci induce a pensare a scenari distopici, dove alla fiducia si sostituisce un suo mostruoso e illusorio surrogato: il Grande Fratello tecnologico, l’orecchio e l’occhio digitale che tutto e tutti controlla. Il capitalismo della sorveglianza, che si nutre di dati.
L’autore su questo miraggio ci ammonisce chiaramente: «il controllo potrà anche garantirci la sopravvivenza, ma per vivere abbiamo bisogno della fiducia».
L’alternativa alla fiducia insomma è un totalitarismo che finisce per divorare se stesso: colpisce in questo senso nel libro il racconto dell’epoca del terrore staliniano dove «tutti dovevano guardarsi da tutti, chiunque poteva essere una spia o un informatore». E non stupisce quindi che Chruščëv a un certo punto, nell’estate del 1951 senta lo stesso Stalin mormorare tra sé e sé: «Sono finito, non mi fido di nessuno, neanche di me stesso».
Annoso problema dunque quello della fiducia: da Eraclito e dai dialoghi platonici, ha sempre fornito grandi spunti alla riflessione di filosofi e intellettuali, come il volume non manca di illustrare. Ma qual è la strategia per vincere la sfiducia, se la stessa ci è indispensabile come l’aria? Forse, per dirla con Dante, la ricetta è a metà tra calcolo e virtù, in quella fidanza di dantesca memoria, che è sostanzialmente un contratto, una convenienza, basato con giusti contrappesi, tra l’avversione al rischio tipica dell’uomo, e la sua ricerca di socialità, scritta nel suo stesso Dna. In altre parole, si potrebbe dire, l’autore sembra suggerirci la necessità di leggere dentro la parola fiducia, giù fino alla sua radice greca che significa “prestare fede”, e che, a ben vedere, è una forma medio-passiva del verbo “persuadere”. Questo vuol dire che la fiducia non è monodirezionale, non si può solo prendere o dare, ma è frutto di un contratto sociale giusto a metà tra ragione e istinto.
O, per dirla con parole più semplici, visto che sulla copertina del volume di Sgobba campeggia il naso di Pinocchio, questo non può non ricordarci che da quel libro potremmo sulla fiducia imparare assai. In fondo, basterebbe possedere la fiducia incrollabile di Geppetto o almeno non chiudere tutte le porte e fare come Mangiafuoco che a un certo punto dice «E bada Pinocchio, non fidarti mai troppo di chi sembra buono e ricordati che c'è sempre qualcosa di buono in chi ti sembra cattivo».
Come si intuisce si tratta di un libro la cui lettura è impossibile non consigliare. Consideratelo se volete un manuale di autodifesa dai pensieri più ottusi e oscurantisti che ogni tanto provano a saltarci addosso.
Massimiliano Bellavista
(direfarescrivere, anno XVII, n. 180, gennaio 2021)
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