Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
La cultura, probabilmente
Quando i cineasti di film sulla mafia
alimentano i miti delinquenziali.
A rischio sono soprattutto i giovani
Marcello Ravveduto analizza l’immaginario criminale mafioso
raccontato da letteratura, cinema, TV, social network e musica
di Alessandro Milito
A cosa pensiamo quando sentiamo la parola “mafia” o “mafioso”? Quali sono i nostri principali riferimenti culturali, le coordinate con le quali ci muoviamo tra i fatti di cronaca associati a Cosa nostra, alla ’ndrangheta e alla camorra? Di cosa è fatto l’immaginario della mafia italiana a cui gli stessi mafiosi fanno riferimento per ispirarsi o per imitare i loro idoli criminali?
Sono alcuni dei temi introdotti e analizzati dal saggio Lo spettacolo della mafia. Storia di un immaginario tra realtà e finzione (Edizioni Gruppo Abele, pp. 208, € 15,00) di Marcello Ravveduto, storico e docente di Digital Public History alle Università di Salerno e di Modena e Reggio Emilia.
Una prospettiva per certi versi inedita ma non di meno necessaria, come precisa lo stesso Enzo Ciconte, tra i massimi esperti del fenomeno mafioso, nella sua Prefazione: «Qualcuno potrebbe obiettare: è utile un libro come questo? Io penso proprio di sì. E lo penso perché sono convinto che questa lunga carrellata ci mostra come le rappresentazioni delle mafie siano state utili a far capire meglio la mafia e anche l’antimafia, e dunque ad attrezzarci meglio culturalmente».

Una ricerca minuziosa e multilivello
La mafia e la sua narrazione non sono certo prodotti recenti ma hanno radici profonde, strettamente collegate al grado di interconnessione che queste hanno avuto, e continuano ad avere, con la società nelle quali operano come attori influenti. Ravveduto precisa sin da subito che tra mafia e media esiste una stretta correlazione, «un’attrazione fatale» così profonda da rendere quasi indistinguibile il reale dalla sua rappresentazione. Il canone letterario del crimine mafioso inizia ad affermarsi già dagli anni Trenta dell’Ottocento con una narrazione tendente a considerare tale fenomeno come una degenerazione della società, un cancro estraneo alla normale vita sociale. Il racconto della mafia si confonde con stereotipi folkloristici che hanno avuto, e in un certo senso continuano ad avere ancora oggi, grande risonanza.
Un racconto che inizia a vedere le sue prime crepe negli anni Ottanta del Novecento, periodo in cui lo scontro tra mafia e Stato assume caratteri sempre più netti e sanguinosi modificando, di conseguenza, anche la letteratura e l’immaginario collettivo.
Lo spettacolo della Mafia incuriosisce il lettore con uno stile preciso e raffinato, tipico del docente consapevole dell’argomento che sta trattando ma sa anche come farlo senza perdere l’attenzione della sua aula. In particolare, ciò che rende il saggio di sicuro interesse è il campo di azione scelto per l’analisi del fenomeno: Ravveduto non si limita a ricercare l’origine del racconto mafioso nella letteratura; il lettore, infatti, viene accompagnato nelle sale cinematografiche, nei salotti davanti alla tv, su YouTube e sui principali social network. Una ricerca multilivello effettuata con precisione, con tanto di dati e statistiche più volte richiamate; l’obiettivo è quello di fornire una panoramica a tutto tondo di come si è andato a scolpire il fenomeno mafioso nell’immaginario collettivo. Un racconto che non riguarda solo gli spettatori ma anche gli stessi mafiosi.

Dal Padrino a Gomorra, da Il capo dei capi a Facebook

Il Padrino, capolavoro cinematografico di Francis Ford Coppola, rappresenta per certi versi un’opera spartiacque nella formazione dell’immaginario della criminalità organizzata, siciliana e italoamericana in particolare. La bellezza del film, la bravura degli attori e l’efficace sceneggiatura, hanno creato il manifesto perfetto dell’epicità mafiosa. Un vero e proprio poema criminale che ha influenzato gli stessi mafiosi e la loro percezione di sé. Ed è proprio questo uno degli aspetti più affascinanti e stimolanti del saggio di Ravveduto: l’altra faccia della medaglia della narrazione. Letteratura, cinema, fiction e musica influenzano sia gli spettatori sia i criminali, creando una legittima aspettativa di ciò che si intende per mafiosità.
È noto, infatti, che lo stesso Totò Riina fosse un assiduo spettatore della fiction Rai a lui ispirata Il capo dei capi, così come Gomorra di Sky ha avuto tanti fan tra i camorristi, poiché si rivedevano nell’affresco di una Napoli claustrofobica e buia, senza apparente via di scampo o redenzione. Una città che negli ultimi anni ha sostituito Palermo e la Sicilia nell’immaginario criminale nazionale, accompagnata da una Roma sempre più in voga, emblema di quel “mondo di mezzo” teatro del celebre Romanzo Criminale di De Cataldo e in cui si svolgono le vicende del più recente Suburra prodotto da Netflix.
La ricerca di Ravveduto si spinge sino alle soglie dei profili Facebook degli affiliati alla Camorra, ragazzi appena ventenni appartenenti a quella che viene definita dall’autore come la «Google generation». L’utilizzo dei social network rappresenta la nuova frontiera di come la mafia viene raccontata e racconta se stessa. Se in un primo momento i mafiosi si approcciavano ai social network con una certa ingenuità, spesso violando inconsapevolmente la regola ferrea dell’omertà o lasciandosi geolocalizare dalle forze dell’ordine, oggi Facebook e Youtube vengono utilizzati come piattaforme per il reclutamento delle nuove leve. I nativi digitali della Google generation utilizzano i social e le emoji delle tastiere digitali per creare e affermare la loro identità criminale, il loro complesso di valori: omertà, violenza e prevaricazione dei più deboli, esaltazione dei grandi boss internazionali e del passato.

La religione civile dell’Antimafia
Falcone e Borsellino, immortalati in un attimo di complicità e amicizia; uno dei due fa una battuta all’orecchio dell’altro ed entrambi sorridono. È una foto che tutti abbiamo in mente, irrimediabilmente scolpita nella nostra memoria collettiva e associata all’idea stessa di sacrificio ed eroismo. Perché sappiamo la tragica sorte toccata a quei due uomini dello Stato, e automaticamente ricorriamo a quell’immagine quando vogliamo pensare a due volti puliti e ispiratori. Questa è una delle tante istantanee di quella “religione laica dell’Antimafia” che a partire dagli anni Ottanta, e in particolare dalla Strage di Capaci in poi, ha sostituito la funzione educativa che fu prima del Risorgimento e poi della Resistenza. Peppino Impastato che conta i cento passi che separano la sua casa dall’abitazione di Don Tano Badalamenti: altra immagine indelebile in grado di ispirare volontà di riscatto e resistenza civile. Un’immagine così forte che ha spinto anche gli storici contemporanei a dedicare più spazio alla figura dello stesso Impastato, precedentemente poco considerata: un esempio di come i media siano stati in grado, in qualche modo, di indirizzare la ricerca storica.
Sono solo alcuni degli esempi citati da Ravveduto, in quello che può essere considerato un saggio innovativo e istruttivo sul fenomeno mafioso.
Lo spettacolo della Mafia vale il prezzo del biglietto, specie perché ciò che vogliamo sconfiggere deve essere compreso sotto ogni suo aspetto se si intende arrivare alla vittoria definitiva.
Per raggiungerla, è soprattutto necessario comprendere il ruolo che alcuni prodotti cinematografici e televisivi possono avere nei confronti dei soggetti più deboli e facilmente influenzabili. Il rischio è che al grande pubblico venga offerta una visione accattivante e gratificante della mentalità e delle logiche mafiose, rendendole auspicabili e desiderabili: in definitiva, modelli da seguire con orgoglio e convinzione. Un rischio che, specie negli ultimi anni, si è andati a correre con eccessiva noncuranza, con danni potenzialmente enormi. Un rischio che non possiamo permetterci di correre ulteriormente.
Anche per questo motivo bisogna essere coscienti che l’immaginario criminale mafioso è vasto, profondo e multiforme e richiede uno studio accurato e intelligente. Uno studio che potrà avere in questo saggio un’utile e proficua base di partenza.

Alessandro Milito

(direfarescrivere, anno XVI, n. 179, dicembre 2020)
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