La lotta armata è un pensiero fisso nelle menti degli uomini, costretti a subirla tacitamente in maniera inerme. È un tarlo che distrugge le anime dei più forti e manda alla deriva quelle dei più deboli. Un giorno la vita sembra scorrere come sempre nella sua dolce quotidianità quasi monotona, mentre quello successivo le bombe e i loro assordanti rumori ti penetrano nei timpani e ti portano alla follia.
Il periodo di benessere vissuto nel nostro paese dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale ci fa spesso illudere di vivere in un mondo privo di catastrofi, eppure, alle porte d’Europa, da anni la Siria vessa in una situazione funesta in cui vita e morte camminano insieme, perdendosi nella baraonda dei bombardamenti. I lager rinascono sotto nuova forma, prendendo il nome di campi profughi, dove spesso i rifugiati devono fare i conti assai amari con la perdita della loro umanità e con la privazione dei diritti basilari.
Ancora una volta il mondo fa finta di non vedere, ancora una volta fingiamo di non conoscere la disperazione che affligge il nostro fratello e ci voltiamo altrove per non dover fare i conti con la nostra coscienza.
Un racconto corale
Anna Clementi ci fa dono di un’opera straordinaria, Al-amal. Nei campi greci con i profughi siriani (Infinito Edizioni, pp. 138, € 14,00), in cui viene narrata una vicenda collettiva ove i vari protagonisti narrano le loro esperienze di profughi dal momento della presa di coscienza della guerra come inevitabile e mortale, fino all’arrivo in Europa in un campo che, volente o dolente, diviene la loro nuova e angusta casa.
Ogni personaggio viene presentato con il proprio antefatto, i motivi che lo hanno spinto a imbracciare le armi con l’esercito siriano libero o quelli che lo hanno convinto a non farlo. Ognuno è presentato nella propria integralità, spiegando le proprie ragioni e senza subire giudizi da parte dell’autrice.
In uno stato d’assedio continuo, la morte diviene talmente familiare da costringere le persone a rivolgere la propria attenzione solo sugli affetti più cari, cercando di farsi scivolare addosso la continua vista del sangue e l’odore acre emanato dai cadaveri lasciati in decomposizione per le strade.
Il campo che disumanizza
L’abbandono della Siria e l’arrivo in Turchia segnano un cambio sostanziale nella vita di tutti. Ahmad, di soli nove anni, è costretto ad andare a lavorare per dodici ore al giorno per permettere alle sorelline e ai genitori di mettere qualcosa sulla tavola, straziando il cuore di quest’ultimi per l’enorme senso di colpa provato.
«A inizio settembre, la morte del piccolo Alan Kurdi aveva scosso le coscienze di tutto il mondo. Nell’immagine del corpo senza vita del bambino curdo-siriano di tre anni, annegato mentre cercava di raggiungere le coste greche su un gommone assieme al padre, Umm Ahmad aveva rivisto i propri figli. Anche lei era pronta a sfidare il mare per ricercare una vita degna», queste le parole che riportano il malessere generale di un popolo che ha visto il proprio destino distruggersi innanzi al volere internazionale.
L’autrice ci accompagna passo dopo passo nella vita dei suoi protagonisti, dalla fuga in Siria, all’arrivo in Turchia dove spesso i rifugiati di guerra sono costretti a lavori estenuanti per sopravvivere, all’approdo in Europa dove sono costretti a camminare per giorni per varcare i molteplici confini. In tutto questo vi è come sfondo il continuo cambiamento di giochi politici, che in pochi mesi vedono le frontiere aprirsi e chiudersi in barba ai diritti umani, lasciando milioni di persone in preda alla disperazione, mentre gli aiuti umanitari cercano di risollevare le sorti di un popolo che ormai non ha più patria né dimora.
Anna Clementi non tralascia alcuna sfaccettatura dei fatti e ci ricorda quanto la vita possa essere fragile, mentre ragazzini di quattordici anni muoiono di freddo alle porte della Bulgaria cercando, invano, di raggiungere la Germania e con essa la speranza di una vita migliore. La solidarietà diviene l’unica ancora di salvezza in un mondo dove la realtà quotidiana sembra ormai fatta di pura sopravvivenza. Le battaglie, le guerriglie, il sangue versato per la libertà, la fame che logora il fisico, le torture, le cure negate, le estorsioni subite per poter valicare i confini dei vari stati: questo e molto altro viene narrato attraverso gli occhi e le parole di chi ha vissuto la negazione della propria esistenza.
La speranza per un futuro migliore
I campi profughi riservati ai siriani si presentano agli occhi dei malcapitati in tutto il loro orrore: ammassati in container di latta, decine e decine di persone sono costrette a dividersi spazi angusti che impediscono i liberi movimenti. «“Sarebbe questa l’Europa?”, aveva chiesto quasi in lacrime Abu Ahmad al funzionario dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) che li aveva accolti. “Vi prego, riportatemi in Turchia e ridatemi subito i 3.000 euro che ho pagato per arrivare fino a qui”», queste le parole di rabbia e frustrazione uscite dalla bocca di uno degli attori principali di questo dramma.
Quanto avvenuto in Siria ci ha dimostrato l’ipocrisia del sistema europeo che per decenni si è fatto garante dei diritti umani, ma che ha miseramente fallito innanzi alle richieste d’aiuto provenienti da un intero popolo.
Il vicino Oriente, l’Africa, e non solo, ci stanno chiedendo sostegno ed è nostro dovere permettere la vita ovunque essa sia possibile. La carità cristiana di cui ci siamo tanto vantati è venuta meno innanzi alla paura del diverso, ma è nostro compito ripensare a una umanità realmente unita e rivolta alla fratellanza.
Rosita Mazzei
(direfarescrivere, anno XVI, n. 177, ottobre 2020)
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