Questo libro suona come una condanna.
È una galleria di ritratti che sembrano quasi delle foto segnaletiche, perché, come si è giustamente osservato, neanche una delle protagoniste rinuncia infine a se stessa, ad apparire come esattamente è, con le virtù, ma anche ostentando tutti i segni ricevuti dalla vita.
Fedeltà: è questa la firma caratteristica di Donne nascoste. Ritratti di vite in bianco e nero (Infinito edizioni, pp. 108, € 12,50) volume redatto da Barbara Martini (con Introduzione di Teresa Bruno e Postfazione di Giulia Spagnesi), cui certo non difetta effettivamente la sincerità, e appunto, la fedeltà assoluta alla vita e al destino.
Continuando la narrazione di vita in vita, l’autrice si muove su un crinale, anticipando fin dalle prime pagine che tutte le sue eroine, chi prima chi poi, vi cadranno dentro.
Non si respira infatti molto ottimismo in questi brevi racconti. Le protagoniste nutrono una sostanziale sfiducia non solo verso l’universo maschile, ma anche verso quello femminile (per esempio verso la concretezza del supporto che possono fornire le amiche in momenti di difficoltà) e in generale verso il mondo.
È come se non ci parlassero per chiederci aiuto, né con un intento memorialistico, ma piuttosto discutessero con loro stesse, per fermare anche solo un poco il disordine dei pensieri e «la fatica interiore che sento e che mi fa andare veloce come un treno in corsa, come se anche i pensieri mi stancassero, specie se continuano a girare come in una giostra senza il perno sotto».
La conferma è in quel continuo riferirsi a termini remoti, nascosti: sotterrare, sottomettere, sottopelle, sottecchi. La violenza che le donne hanno subito dalla vita è sempre nascosta, sottotraccia nel cavo di un’emozione trattenuta, sotto un vestito o un monile, sotto uno sguardo. Quando la narrazione inizia di nuovo, vi è quindi quasi sempre una discesa nell’abisso.
«A volte la penso dolce, questa scalata all’inverso nel magma delle emozioni che si fanno organi e a volte desisto irretita dall’angoscia, dalla paura della tempesta di eventi sotterranei di cui ogni più piccola parte di me conserva gelosamente la memoria. Desisto per qualche ora, poi riparto, rimetto nel mio zaino le poche cose che servono per il viaggio nelle caverne del mio mondo fatato e riassaporo le bellezze dello scavo, l’eccitazione delle intense foto interiori alle scarpate, ai fulmini e alle voragini improvvise come in un soggiorno di altri tempi in alta montagna o al centro del pianeta, in cui l’andare riguardava il percorrere quel sentiero in cui riscattare quel lumicino di speranza nascosta fino a renderlo fuoco con il legno delle prove già superate e risolte».
L’uso dei feticci nella narrazione
D’altronde, le profondità possono essere anche rassicuranti: come scritto nell’Introduzione, sostanzialmente il definirsi, portare allo scoperto i propri pensieri e desideri farebbe imboccare alle protagoniste la strada di un conflitto che in fondo sembrano temere più dell’invisibilità.
Altra conferma si trova in quel rivolgersi a feticci, metafora della solitudine: pianeti, fantasmi, animali.
E come si esce da questo tetro cul-de-sac? Spesso non se ne esce affatto, sembra quasi che a volte anzi ci si compiaccia di questo crogiolo di sofferenza come fosse l’ennesima conferma di un teorema scontato quasi quanto quello di un Pitagora, a meno di non giungere a compromessi dolorosissimi, con se stesse, con il proprio uomo, con i propri sogni. O se ne esce con atti radicali e inconsulti, ma non meno difficili, perché asportare o curare un arto in cancrena prevede comunque un percorso incerto e quindi l’assunzione di un rischio. Non vi è comunque in vista per i personaggi del libro una facile assoluzione, né è raggiungibile, attraverso il loro narrare in prima persona, lo stato di quiete e il punto di vista del narratore onnisciente che a volte prende il controllo e che fa pensare al puparo di un teatro di marionette.
Materia scivolosa e costante dunque, quella trattata, e certo non nuova agli schermi della letteratura e a quelli della saggistica a sfondo psicanalitico. Ecco allora che in cerca di originalità, su quel crinale su cui si muove la narrazione e di conseguenza anche l’autore che cerca di tenervi dietro, a volte si rischia di incespicare, per esempio su un lirismo a tratti ossessivamente marcato, che va sistematicamente a caricare gli incipit.
Una molteplicità di tecniche e registri
«L’hanno vista per la strada vestita di gocce di aurora. I capelli, lunghi e sfibrati, non sfioravano neanche la punta delle sue delusioni, intercettavano solamente, con uno sforzo estremo, il pallore della luna manifestandone, stanchi, i riflessi. Il rosa del suo foulard s’innescava lento in mezzo ai sospiri degli occhi, occhi veri inaspriti dal sole d’inverno, dalla visione di tutte quelle brutte cose che non si raccontano». Questo brano è rappresentativo di quel che si vuol sottolineare.
A meno che…
A meno che però, non sia voluto espressamente cercare incipit dal tintinnio cristallino e trasparente per accentuare il contratto grottesco con le situazioni descritte nel prosieguo, dove il cristallo non tintinna e anzi è prima offuscato dal male subito, e poi a volte si infrange nel dramma dell’incomunicabilità e dell’assenza di speranza e redenzione.
A meno che le protagoniste abbiano in fondo un’unica via di salvezza che sta proprio nel potere terapeutico della parola, della narrazione e del lirismo, cioè della parola che suona, che risuona nella vita.
Vi sono indubbiamente nei racconti le tracce di varie tecniche e registri, ma si sente anche il Dna di un’unica voce che cerca di mimetizzarsi, indossando delle maschere: questo non paia in contrasto con la dichiarazione iniziale dell’autrice che parla di «storie vere». In fin dei conti una buona maschera è spesso più reale del reale.
Massimiliano Bellavista
(direfarescrivere, anno XVI, n. 176, settembre 2020)
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