Seppur consapevole dell’impersonalità che conviene a un articolo giornalistico, mi sembra doverosa una premessa personale in cui a parlare saranno i ricordi e le impressioni: Roberto Gervaso era una persona speciale che non si prendeva mai troppo sul serio. Fu giurato in un premio di poesia che vinsi, ricordo con piacere quel momento e l’incoraggiamento che ne ebbi. È quindi rivolto a questo pensiero che ho letto la sua ultima opera, La regina, l’alchimista, il cardinale (Rubbettino, pp. 282, € 14,00), romanzo storico ambientato nella Francia di Luigi XVI: una lettura piacevole, con un ritmo e uno stile che tanti autori hanno smarrito, in favore di narrazioni assai più muscolari e invasive che fanno spesso sembrare questo genere piatto e monocorde con la scusa di modernizzarlo.
Eppure questo libro narra di uno dei periodi più esplosivi della storia, quando «dietro la sontuosa facciata, la miseria, la rovina, l’imminente sfacelo, il sovversivo caos. La Francia del superbo Luigi XIV non era che un ricordo. Il suo corrusco dispotismo s’era stemperato nell’assolutismo crepuscolare dei successori. La corona perdeva ogni giorno una gemma e il trono non era ormai che una fragile e vulnerabile scranna. La monarchia, la gloriosa monarchia capetingia, aveva i giorni contati».
Il libro si può ben leggere come un’opera di prosa. In effetti la prima parte introduce uno a uno i protagonisti dell’opera, i cui percorsi di vita sono destinati a intricarsi in un nodo di grande complessità e drammaticità. Vite contorte le loro, a due facce, come ancora oggi accade a certi vip. Molte occasioni pubbliche e poi una intrinseca e a volte indecifrabile fragilità e oscurità. Per ognuno di essi magistrali pennellate, quasi percorressimo l’austero corridoio di una prestigiosa quadreria.
Maria Antonietta Giovanna di Lorena, arciduchessa d’Austria, «regina, frivola, spensierata, impulsiva, pur se conscia della propria regalità, cercò e trovò, almeno in apparenza, sfogo e sollievo nei divertimenti: pranzi, balli, feste mascherate, partite a carte, teatro, escursioni. Ai doveri di sovrana antepose i piaceri di donna, pur se di donna votata, suo malgrado, a una mortificante castità».
Luigi Renato Edoardo de Rohan, elegante e raffinato principe della Chiesa il quale «non aveva bisogno di presentazioni. Il suo nome era dovunque pronunciato con rispetto; la famiglia era tra le più ricche e influenti, a Parigi come in provincia». Il principe cade in disgrazia con la corte e la regina per i molti errori nel gestire gli ambiti incarichi ricevuti e le sue folli spese, necessarie a soddisfare non la ragion di Stato o le relazioni diplomatiche ma solo e soltanto le sue tre passioni: i giochi, le feste e l’alchimia.
E poi Giovanna de Saint-Rémy de Valois de la Motte, la grande orchestratrice, seduttrice e truffatrice, il primo motore di tutta la storia, colei che era favorita più da «Minerva e da Mercurio che da Venere».
Per ultimo citiamo Cagliostro, il principe dell’occulto, già protagonista della penna di Gervaso, venerato da Rohan al punto da considerarlo il faro e l’ispiratore di ogni sua azione, nella speranza che questi lo potesse anche concretamente aiutare, con la sua magia e la sua saggezza, a rientrare nelle grazie della regina. Ma per quello, come si vedrà leggendo il libro, non sarebbe bastata nemmeno la pietra filosofale.
Un preziosissimo monile al centro della storia diventa metafora di tutta un’epoca
E sì che la vicenda ruota intorno a qualcosa di affatto oscuro, anzi assai splendente, chiarissimo, sfavillante. Un monile. E che monile, fatto da uno dei gioiellieri più famosi e stimati dell’epoca, Boehmer. «Il monile, infatti, consisteva in tre fili di magnifiche pietre (575 secondo alcuni, 593 secondo altri, 647 per altri ancora) ornati di quattro pendenti, in ognuno dei quali erano incastonati cinque giri di diamanti. Duemilaottocento carati, per l’astronomico costo di un milione e seicentomila lire (oltre venticinque milioni di euro di oggi) rateabili».
L’arte di Gervaso e la bellezza del libro sta tutta in questa parola: incastonare. Infatti la storia si dipana sotto le nostre dita con fine cesello tecnico allo stesso modo di quei giri di diamanti perché l’autore è un gioielliere della parola. Non c’è passo del racconto che non sia ornato dalla luce di una fine e pungente ironia, che poi nasconde invece un più vasto ragionamento sulle vanità umane e un sostanziale stupore nel palesarsi di come tutti, ognuno vittima della propria ambizione e delle proprie bramosie, uomini e donne in gioco nella storia, indossino dei paraocchi che fanno loro vedere soltanto ciò che vogliono vedere, conducendoli a dolorose conseguenze. Umano, molto umano dunque il comportamento di colui che «ha voluto, e vuole, autoingannarsi» perché alla fine il mondo inesistente creato da un raggiro, da una truffa, può essere assai più seducente di quello reale.
Una manipolatrice subdola ma di corte vedute
Certo, la capacità manipolatoria di Giovanna è eccezionale: la si vede giocare a scacchi con le vite altrui, soprattutto con quella di Rohan («Di lei, lui non aveva capito niente; di lui, lei, tutto») ma anche (e perfino) con quella della regina. Ma detto così, sembrerebbe trattarsi di una storia scontata, dove il cattivo è cattivo e i raggirati sono degli ingenui e benpensanti poveracci: i personaggi invece si animano nella storia di tutte le sfaccettature che ce li restituiscono autenticamente umani. Giovanna alla fine fa ciò che fa cercando una compensazione per una vita e una giovinezza non facili; allo stesso modo si è portati a credere che Rohan, così bramoso di una vita irreale dove, offrendo la preziosa collana alla regina ne sarebbe divenuto il Primo ministro e l’indispensabile consigliere, non avrebbe potuto che cadere in qualche raggiro, se non prima, sicuramente poi.
Ma a ben vedere per tutte le parti in causa in questi accadimenti vale quello che l’autore, superbamente, scrive per Giovanna «Tattica geniale, fu una pessima stratega». Fa lo stesso effetto di un epitaffio, giusto? Insomma, quel che vogliamo dire è che non sempre un romanzo funziona perché vi è un personaggio che spicca e primeggia, forgiando la storia; a volte è vero l’opposto, come in questo caso, dove la storia appassiona e si legge in un soffio proprio perché tutti gli attori del racconto sono in fondo in fondo meschini, di corte prospettive, concentrati a vincere una battaglia e mai la guerra. O forse è il momento storico, schiacciato tra i tempi che furono e l’ascesa prepotente della borghesia, che proprio non consentiva una visione di lungo periodo, ma solo un gretto carpe diem.
Il libro è prezioso perché si presta a varie chiavi di lettura e questo non stupisce, viste le vette raggiunte da Gervaso nella narrazione di fatti storici. Ma vi è anche una gradevolissima lettura sociologica, che ben mette in evidenza quanto fatti apparentemente minori siano in grado di scatenare, o di contribuire a innescare, grandi cambiamenti. L’affare della collana, mal gestito dai regnanti, infatti non resta confinato tra le mura dei tribunali, ma diventando di pubblico dominio, mette in luce le debolezze di tutto un sistema di potere e di una monarchia divenuta debole e insipiente. Non solo, spacca l’opinione pubblica tra innocentisti e colpevolisti, fornisce una fonte di lavoro pressoché inesauribile a legali, scrittori, moralisti.
E alla fine, in un sistema in piena criticità e incapace di punire, sarà la vita (e la storia) a metterci una pezza. Naturalmente in un modo tutto suo, che lasciamo al lettore scoprire. Al destino d’altronde, come a Gervaso, non manca il senso dell’ironia.
Massimiliano Bellavista
(direfarescrivere, anno XVI, n. 175, agosto 2020)
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