Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
La cultura, probabilmente
Il cavaliere fenicio e l’ateniese ribelle:
la vita di Emilio e Joyce Lussu,
una coppia di brillanti intellettuali
Continuano le storie degli scrittori sommersi, marito e moglie
impegnati politicamente e socialmente, scopritori di talenti
di Massimiliano Bellavista
Continuano gli appuntamenti della rubrica sugli “scrittori sommersi”, autori moderni e contemporanei dimenticati dai più nonostante la loro importante produzione letteraria. In questo articolo sono esplicate le intenzioni che hanno portato a compiere una ricerca di riscoprimento di tale spessore.
Poi, mese dopo mese, sono stati dedicati articoli ad autori particolari: il primo in cui si presentano i racconti di Daniele Del Giudice (www.bottegascriptamanent.it/?modulo=Articolo&id=2348&idedizione=164); poi è stato affrontato il Medioevo di Laura Mancinelli (www.bottegaeditoriale.it/lacultura.asp?id=197) e le storie di mare uscite dalla penna di Raffaello Brignetti (www.bottegaeditoriale.it/lacultura.asp?id=198); infine la letteratura cinematografica di Guelfo Civinini ((www.bottegaeditoriale.it/laculturaprobabilmente.asp?id=199).
L’articolo di questo mese è dedicato a una coppia di intellettuali: Emilio e Joyce Lussu.


Talvolta il tempo dimentica in numeri pari.
Non c’è una vittima, ce ne sono due.
Poniamo che ci sia una coppia di scrittori e intellettuali e che la storia del Novecento che hanno attraversato d’impeto, tutta quanta, li leghi come e più di un anello. Sembrerebbe un inizio più che promettente per un romanzo o una saga familiare. Ma la realtà in questo caso ha già ampiamente superato le aspettative ed è più avanti della nostra immaginazione.
Sardo lui, nata a Firenze ma da famiglia di origini inglesi lei. Emilio Lussu, il cavaliere fenicio e Joyce Lussu, l’ateniese ribelle.
Non sono Aleramo e Campana, non sono Moravia e Morante: in altre parole non è una coppia conosciuta e celebrata di cui molto si è scritto, questa di cui parliamo. Ma c’è davvero tanto nella loro storia e nelle loro opere che meriterebbe di riemergere, perché qui più che davanti a un relitto ci troviamo di fronte a un iceberg che andrebbe ben capovolto.
Ciò che affiora più comunemente alla memoria è solo Un anno sull’Altipiano: nel Canone delle opere della letteratura italiana[1] questo libro è in posizione centoventi di centosessantatré. Ma Un anno sull’Altipiano è ormai trattato alla stregua di materiale da antologia scolastica, presentato e considerato come un semplice memoriale, di una cronaca documentaristica di storia italiana. Sotto invece c’è molto di più.
Curioso che mentre lo scriveva in un sanatorio di Clavadel, sopra Davos, ricoverato a seguito dell’aggravarsi della malattia polmonare contratta in carcere, Lussu avesse in qualche modo in testa la promessa fatta qualche tempo prima a Salvemini: perché è stato proprio lui a esortare continuamente Lussu a scrivere, e da questo incoraggiamento nasceranno La catena (1929) e Marcia su Roma e dintorni (1933).Quella promessa consisteva nello scrivere un altro libro, sì, ma nelle sue idee originali dedicato al Principe di Machiavelli: il lettore, secondo l’autore, non doveva trovarvi «né il romanzo, né la storia». Quando invece il libro uscì come lo conosciamo nel 1938 a Parigi ne comparve anche una edizione inglese intitolata A Year on the High Plateau, Sardinian Brigade di cui il New York Times disse «If Zweig, Remarque and company kept you awake nights and gave you cold chills, so will Lussu».
[2] Il che prova che in Italia i libri non solo siamo bravi a sommergerli, ma che non siamo nemmeno in grado di venderli bene all’estero quando invece si venderebbero quasi da sé. Sono stati infatti gli intellettuali inglesi e americani a dire che Lussu ha fatto tutto quello che Remarque fece per il Fronte occidentale, è Lussu stesso a scrivere nel 1937 che «Non esistono, in Italia, come in Francia, in Germania o in Inghilterra, libri sulla guerra». Infatti, quando si sente parlare di Prima guerra mondiale, la mente di noi occidentali va automaticamente al Belgio, alla Francia, a scenari nordeuropei da incubo e trincee buie e fangose infestate di ratti e popolate di comandanti zelanti fino alla follia.

Un diluvio di memorialistica
Ma sui fronti che ci sono più vicini, la situazione non era né diversa né meno brutale. È vero, a descrivere il nostro fronte c’è autorevolmente l’Hemingway di Addio alle armi del 1929 (lo stesso anno dell’opera di Remarque), ma il diluvio di memorialistica tra il 1915 e gli anni Venti, di cui alcuni testi sono diventati veri e propri classici, ha imposto al grande pubblico, anzi blindato, un canone e una ambientazione della guerra altra da quella nostrana.
Eppure il romanzo di Lussu è bellissimo, ironico, moderno, agile e originale fin nella sua struttura, articolata sulla dicotomia singolarissima tra Baudelaire ed Ariosto. «Io avevo rintracciato nella villa Rossi, posta nel bosco, a mezza strada fra Gallio e Asiago, dei libri abbandonati. Era di notte e l’incursione di pattuglia non mi dava del tempo. Nella fretta, scelsi l’Orlando Furioso d’Ariosto, un libro sugli uccelli e un’edizione francese dei Fiori del male di Baudelaire. Al libro sugli uccelli, mancavano le prime pagine e ne ignorai sempre l’autore. Quei libri, li portai con me sull’Altipiano. Una volta salvati da me, una volta dal mio attendente, io li conservai sempre. È probabile che questa fosse la sola biblioteca letteraria ambulante dell’armata».
Ariosto, nell’idea dell’autore «era un po’ come i nostri giornalisti di guerra, e descrisse cento combattimenti senza averne visto uno solo… È il genio dell’ottimismo. Le grandi battaglie sono per lui delle piacevoli escursioni in campagne fiorite e persino la morte gli appare come una simpatica continuazione della vita. Qualcuno dei suoi capitani muore, ma continua a combattere senza accorgersi d’essere morto». Sono gli ufficiali che mandano a morire, senza una strategia e senza una ragione, i suoi commilitoni, come i Dimonios della Brigata Sassari («Siamo la traccia/di quell'antica gente/che fermava il cuore/al nemico/Oggi le loro insegne/sono nostre/per l'onore dell'Italia/e della Sardegna» canta il loro inno). Ariosto simboleggia il Duca D’Aosta il quale «aveva scarse capacità militari, ma grande passione letteraria. Egli e il suo capo di stato maggiore si completavano. Uno scriveva i discorsi e l’altro li parlava».
Baudelaire in questa ampia metafora rappresenta invece l’esperienza, quella che ha «più ricordi che se avesse mille anni [...] Simile a lui, simile a mille altri dei miei compagni, egli aveva bisogno di bere per stordirsi e dimenticare. La vita era, per lui, ciò ch’era per noi la guerra». Ovvero come nell’incipit dell’opera qualcuno a cui «Ogni palmo di terra ricordava un combattimento o la tomba di un compagno caduto».
Già, l’alcol, davvero un potente alleato. Come la propaganda ubriaca la mente, l’alcol ammutolisce l’anima e la coscienza e chi ne ha di più da distribuire ai soldati, infatti, vince: «Mentre passavo nel camminamento, da una caverna laterale mi arrivò la voce gioiosa d’un canto accompagnato al mandolino. Rimasi sorpreso. Chi poteva cantare così allegro in un giorno d’azione, tra morti e feriti? [...] Vicino alla candela, seduto su una scatola di medicinali, stava l’aspirante medico. Era lui, solo, che cantava e suonava il mandolino. Due bottiglie di Mandarinetto gli stavano a fianco: una vuota, l’altra a metà».
E del resto il colonnello, quasi alla fine del romanzo spiazza tutti dicendo: «Sono un uomo finito. Fra poco, mi faranno generale. Generale per merito di cognac. Il colonnello Abbati è riuscito ad uccidere il senso della guerra, ma il cognac ha ucciso il colonnello Abbati. – Che dice mai, signor colonnello? – Non è la guerra di fanterie contro fanterie, di artiglierie contro artiglierie. È la guerra di cantine contro cantine, barili contro barili, bottiglie contro bottiglie. Per conto mio, gli austriaci hanno vinto. Io mi dichiaro vinto». E Baudelaire se avesse potuto si sarebbe certamente associato, probabilmente chiosando con la sua poesia Le vin des chiffonniers: «Souvent, à la clarté rouge d’un réverbère/Dont le vent bat la flamme et tourmente le verre/Au coeur d’un vieux faubourg, labyrinthe fangeux/Où l’humanité grouille en ferments orageux».
Il libro insomma è tutto fuorché un memoriale, il fare mera letteratura non può essergli più estraneo e a voler stiracchiare un po’ la realtà delle cose dalla nostra parte l’idea originale di collegarsi a Machiavelli torna a galla nella impostazione di fondo, cioè sociale e politica, come del resto era tipico del suo manifesto di scrittore: «Io non avrei scritto queste pagine, se non pensassi a trarne delle conclusioni politiche e presentarle al lettore. Confesso che tutto il resto mi interessa assai poco» dice il medesimo Lussu ne La Catena.

L’incontro con Joyce
Ma il 1938 non è solo l’anno della consacrazione letteraria di Lussu, ma anche quello dell’incontro con Joyce, sua futura moglie, durante la clandestinità in Francia. Lei, bellissima e intraprendente, deve consegnare a un importante esponente antifascista nascosto in un appartamento di Ginevra un messaggio che la rete clandestina italiana le ha affidato. Lui le apre la porta. «Mi innamorai perdutamente di uomo del terzo mondo», dice nelle sue memorie riportate nel film-documentario La mia casa e i miei coinquilini, «un uomo che veniva da un villaggio di pastori sperduto tra le montagne della Sardegna».
E la brillante scrittrice e traduttrice è un altro mondo sommerso, strettamente collegato a quello del marito. Molti suoi libri risultano sfortunatamente fuori catalogo se non fortunosamente reperiti sulle bancarelle, come Il libro Perogno. Su donne streghe e sibille o Il libro delle streghe. Dodici storie di donne straordinarie, maghe, streghe e sibille, testi originali in cui la riscoperta del corpo e di un universo femminile disperso è centrale e le antiche storie di streghe e sibille prendono nuova vita, nuovo significato e senso storico.

Il coraggio della poesia
Con Joyce Lussu si entra nel campo della letteratura come originalità e coraggio: coraggio nel tradurre «da poeti viventi, alternativi, non letterati, spesso provenienti dalla cultura orale: albanesi, curdi, vietnamiti, dell’Angola, del Mozambico, afroamericani, eschimesi, aborigeni australiani», come si legge sul sito del centro studi a lei dedicato. Coraggio nell’affrontare e tradurre per Mondadori un poeta come Nazim Hikmet, ovvero nel diffondere l’opera di un autore che in Turchia non trovava nemmeno un editore e che adesso è uno dei poeti più conosciuti al mondo.
Curiosamente, anche Hikmet amava Baudelaire, come scrive proprio alla Lussu nel dicembre 1961: «Mia madre era innamorata di Baudelaire e di Lamartine, e li leggeva in francese, perché in quei tempi le traduzioni in turco erano in ottomano, e molto rare. Mia madre conosceva benissimo il francese, ma l’ottomano lo sapeva meno ancora di me». Anche lui aveva scritto di guerra – «La mia seconda poesia la scrissi, mi pare, a quattordici anni. C’era la prima guerra mondiale. Mio zio era caduto ai Dardanelli» – anche lui aveva conosciuto il carcere.
In questo senso, il libro Vita del poeta Nazim Hikmet è una biografia come se ne leggono poche, vera letteratura di viaggio dentro l’umano, appassionata, godibile e avvincente come un romanzo e che meriterebbe maggiore visibilità e diffusione.
Ma Joyce Lussu è essa stessa brillante e quasi sconosciuta poetessa. Colpisce la famosa poesia C’è un paio di scarpette rosse il cui passo più significativo recita: «C’è un paio di scarpette rosse/in cima a un mucchio di scarpette infantili a Buchenwald/più in là c’è un mucchio di riccioli biondi/di ciocche nere e castane/a Buchenwald/servivano a far coperte per i soldati/non si sprecava nulla/e i bimbi li spogliavano e li radevano/prima di spingerli nelle camere a gas».
È come se si liberasse una grande boa dal fondo del mare. Riaffiorano con questi versi il Celan poeta di Todesfuge: «Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte/noi ti beviamo al meriggio come al mattino ti beviamo la sera/noi beviamo e beviamo/Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive/che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarete/i tuoi capelli di cenere Sulamith noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta stretto» ma anche l’immagine della bimba col cappotto rosso di Schindler's List.

[1] cfr. A. Asor Rosa, Il Canone delle opere, in Letteratura italiana – Le Opere, Vol. I, 1992.

[2] N.d.r: «Se Zweig, Remarque e compagnia vi hanno tenuto svegli le notti e provocato brividi freddi, così farà Lussu».

[3] N.d.r: « Spesso, al lume rossastro d’un lampione/che il vento percuote al punto che la fiamma regge a stento,/dentro il vecchio quartiere, labirinto fangoso,/dove il genere umano brulica tempestoso» (traduzione ricavata da lyricstranslate.com).

Massimiliano Bellavista

(direfarescrivere, anno XVI, n. 174, luglio 2020)
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