Errare e fantasticare al contempo
è fonte di nuove meravigliose scoperte.
Ovvio, rigorosamente solo a piedi!
Francesco Bevilacqua alla scoperta dell’heimat calabrese
per Rubbettino, un libro sul significato del camminare
di Ettore Bellavia
Francesco Bevilacqua si definisce un «cercatore di luoghi perduti». Sarebbe anche un avvocato civilista e amministrativista, ma a chi gli chiede cosa faccia nella vita risponde: «curo una malattia epidemica in Calabria, l’amnesia dei luoghi, provo a risvegliare i calabresi dallo stato di coma topografico in cui versano. Pratico una terapia che chiamo oikofilia, ossia amore per la propria casa, la terra, il paese. Lo faccio con metodi naturali: libri, foto, filmati, narrazioni». Ha scritto diciannove libri, tra cui racconti di viaggio, guide sulla Calabria, saggi sul rapporto tra uomo e natura ed è attivo volontario di alcune tra le principali associazioni ambientaliste (Wwf, Fai, Cai, Italia nostra)[1].
La sua ultima opera, pubblicata nel 2018, è Le fantasticherie del camminatore errante (Rubbettino, pp. 268, € 16,00), un libro sul senso del camminare, «elogio dell’erranza e dello smarrimento», ma anche magmatico percorso attraverso i luoghi paradisiaci delle montagne della Calabria. Un territorio che Bevilacqua ha esplorato in lungo e in largo, principalmente a piedi, scoprendo dimore di dei, teatri di teofanie, scrigni di roccia che custodiscono antiche simbologie e un senso dell’ospitalità che il popolo calabrese attinge direttamente dalla cultura ellenica. Paesaggi magici in cui talvolta si insinuano elementi andini o nordamericani, per ricordarci che l’heimat, in semplicità la patria, non è altro che lo specchio del mondo tutto.
Un’archeologia del cammino
La prima sezione del libro è dedicata all’«archeologia del cammino», nella quale l’autore recupera il senso profondo dell’esplorazione pedestre e si scaglia contro l’«idolatria della velocità», morbo del nostro tempo, e contro il postumanesimo delle megalopoli.
I rimandi si moltiplicano di pagina in pagina e Bevilacqua riesce nell’impresa di far dialogare gli autori più disparati, presentissimi ai suoi occhi, ognuno aggiungendo per sua parte un tassello fondamentale (antropologico, filosofico, letterario, scientifico) a un’opera che si frequenta più come un bosco in cui errare che come un percorso prestabilito. Da buon conoscitore dei boschi, Bevilacqua sa però che non si intraprende alcun viaggio, sia pure senza meta, in mancanza di una qualche stella polare che guidi il cammino. In questo senso, oltre a Don Chisciotte, l’errante per definizione, i suoi “inseparabili” sono Rousseau, Thoreau e Hesse, sia per le loro virtù di infaticabili camminatori, sia per la convinzione che attraverso la promenade, il walking, la wanderung ci si avvicini al significato profondo dell’esistenza e si possa resistere alla società despiritualizzata che chiude ogni orizzonte (in senso anche fisico).
L’«erranza» nell’heimat calabrese
La piccola patria in cui esercitare tali pratiche, si è già accennato, è la Calabria. La seconda sezione del libro è così consacrata alla riscoperta di alcuni tra i luoghi più stupefacenti delle montagne calabresi (su tutti l’Aspromonte e la «montagna del cuore», il Reventino), in un alternarsi magmatico di «erranze» e «fantasticherie», ossia racconti di viaggio compendiati da riflessioni profonde sul significato del camminare e sull’esperienza spirituale che deriva dal contatto con la natura.
I «cammini», o «erranze», procedono di norma per «anelli» (da una valle all’altra e a ritroso per una via diversa), ma vi è come una coazione a smarrirsi in Bevilacqua, un’inclinazione che rischiò di costargli cara nel 1990, quando fu dato per disperso nelle gole del Fiumara Butramo, in Aspromonte. Tuttavia, il pericolo di perdersi nasconde agli occhi dell’inurbato il sublime piacere di ritrovarsi e riconoscere come proprio quel connubio appagante di esperienza, istinto, logica e fortuna che sono l’unica salvezza di chi intraprende le «erranze». Durante questi vagabondaggi pedestri, infatti, gli imprevisti e le scelte da compiere per ritrovare la strada confermano al viaggiatore che ciò a cui tende è la sua vera meta, mentre nel mondo inurbato esistono solo sentieri già solcati. L’«erranza» è così il perdersi nella speranza di trovare l’iconema (segno distintivo dei luoghi), come fosse un suggerimento del genius loci della valle: una condizione spirituale e militante che permette di guardare alla civiltà inurbata come da una nuvola, di astrarsi dal terrificante paesaggio post-umano che costringe l’uomo all’esilio dal cuore pulsante del mondo. E che gli permette (contrariamente a quanto accade al Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich) di godere della natura senza l’anelito della conquista, ma con l’umiltà di chi vuol far parte del paesaggio senza dominarlo.
[1] Le informazioni sulla biografia dell’autore sono desunte dalla Biografia pubblicata sul suo sito personale e reperibile all’Url: www.francescobevilacqua.com/biografia.
Ettore Bellavia
(direfarescrivere, anno XVI, n. 169, febbraio 2020)